Scrivere il Male senza spiegazioni rassicuranti – il lettore non va sempre consolato.

C’è un equivoco diffuso nella narrativa contemporanea: l’idea che il lettore debba uscire dalla storia rassicurato, con tutto spiegato, ordinato, ricondotto a una causa chiara. Come se il Male fosse accettabile solo quando diventa comprensibile.

Ma il Male non chiede permesso.
E soprattutto non spiega sé stesso.

Scriverlo significa spesso resistere alla tentazione di giustificare, di chiudere il cerchio, di offrire una spiegazione psicologica o morale che rimetta tutto al suo posto. Ogni spiegazione è una forma di controllo. Ogni controllo è una carezza. E non tutte le storie hanno il diritto — o il dovere — di accarezzare.

Il gotico, l’orrore, il vero perturbante funzionano perché lasciano una crepa aperta. Un gesto inspiegabile, una scelta che non trova redenzione, una presenza che non viene decifrata fino in fondo. Quando tutto è chiarito, l’inquietudine muore. Quando resta qualcosa di irrisolto, il Male continua a respirare.

Il lettore non va sempre protetto.
A volte va messo davanti a qualcosa che non può sistemare.

Scrivere senza spiegazioni rassicuranti non significa essere gratuiti o confusi. Significa scegliere consapevolmente di non trasformare l’orrore in una lezione morale o in un caso clinico. Significa accettare che alcune storie non chiudano, ma restino addosso.

Perché nella realtà il Male non arriva mai con una nota a piè di pagina.
Accade. Rimane. E spesso non si lascia capire.

Ed è proprio lì, in quell’assenza di consolazione, che la narrativa smette di intrattenere…
e comincia a disturbare davvero.


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