Intervista immaginaria a Edgar Blackwood

Lo abbiamo visto indagare tra le nebbie di Whitechapel, affrontare sette occulte, sfidare l’oscurità nei luoghi più remoti della Londra vittoriana.
Ma chi è davvero Edgar Blackwood?

In questa intervista immaginaria, lo incontriamo nel suo studio, tra libri polverosi, fascicoli aperti e una tazza di tè lasciata a metà. La luce filtra appena dalle tende. Il silenzio è quasi religioso.

Ispettore Blackwood, perché continua a indagare su casi che altri definirebbero… follia?

Perché non ho scelta. La follia è solo una parola per ciò che non vogliamo vedere. Se una madre dice che suo figlio parla lingue mai apprese, viene ridicolizzata. Se un cadavere si dissangua senza ferite evidenti, si archivia come “anomalia”. Io non archivio. Io ascolto.

Ha paura, qualche volta?

Non di ciò che trovo. Ho paura del momento in cui smetterò di cercare. Perché significherà che ho accettato l’orrore come normalità. E allora non sarò più diverso da ciò che combatto.

C’è qualcosa che rimpiange?

(Pausa lunga)
Sì. Ma non lo direi nemmeno sotto tortura.

Le manca qualcuno?

Ogni giorno.

Cosa rappresenta per lei l’Archivio Blackwood?

Una mappa. Incompleta, fragile, imperfetta. Ma una mappa. E finché avrò fiato, continuerò ad aggiungervi nomi, date, luoghi. Anche se dovessi essere l’unico a leggerla

Un’ultima domanda. Se potesse smettere, lo farebbe?

(Si accende un sigaro, guarda fuori dalla finestra)
No. Ma ogni tanto, sogno di farlo.

Postfazione

Edgar Blackwood è un uomo costruito di silenzi, ferite e ossessioni. Ma è anche il custode di domande che pochi osano porsi.
Attraverso di lui, la saga dell’Archivio Blackwood non racconta solo storie oscure. Racconta il prezzo della conoscenza. E della solitudine che spesso la accompagna.

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