Le Lettere Nere: tra superstizione e verità


Certe storie iniziano a scriversi molto prima che qualcuno decida di raccontarle.
Le Lettere Nere sono una di quelle storie.

Chi ha seguito le indagini di Blackwood sa che ci sono misteri ancora più antichi degli omicidi, dei culti o delle reliquie. Voci che circolano negli archivi sigillati, negli appunti cancellati, nei margini di un passato che nessuno ha mai osato sfogliare del tutto. È lì che vivono le Lettere Nere.

Non sono ancora apparse, non ancora. Ma ci sono indizi, dettagli lasciati apposta come briciole in una casa stregata. Chi conosce bene il sottosuolo della saga, sa che qualcosa sta arrivando.

Le Lettere Nere non sono messaggi qualunque. Sono parole che aprono portali, scritte con mani tremanti e inchiostro che non sbiadisce. Ogni lettera è un sussurro che sopravvive al tempo, un codice che collega morti distanti, visioni frammentarie, e verità sepolte.

Nel Prequel della saga, per la prima volta scopriremo la loro origine. La loro prima vittima. E soprattutto, chi o cosa le scrive davvero.

Perché una cosa è certa: non sono semplici lettere. Sono avvertimenti.
E non sempre chi li riceve è ancora in tempo per cambiare il proprio destino.


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La fatica di costruire un mondo: la genesi dell’Archivio Blackwood


Ogni storia ha un inizio. Ma costruire un intero mondo… richiede molto di più.

Quando ho iniziato a scrivere Le Ombre di Whitechapel, non avevo ancora idea che stavo posando la prima pietra di qualcosa di più grande. Pensavo si trattasse di un racconto gotico, autoconclusivo, ambientato nella Londra vittoriana. Poi sono arrivati i dettagli: una pergamena scritta in latino, un culto antico, una figura enigmatica col cappotto scuro e il vizio del sigaro. Edgar Blackwood non era solo un personaggio: era una porta d’ingresso.

Un mondo che si espande… a colpi di ostinazione

La fatica di costruire un mondo narrativo non sta solo nella documentazione storica, anche se quella è fondamentale. Sta nel dare coerenza a ogni gesto, ogni parola, ogni ombra. Quando una saga si allarga, devi ricordare cosa è successo nel 1888, cosa accadrà nel 1889, e come ogni piccolo evento si ripercuote su quelli futuri.

Ho creato file, scalette, mappe mentali, cronologie interne  ma spesso sono serviti solo a farmi capire che dovevo reimmaginare tutto da capo. Alcuni personaggi sono stati eliminati, altri sono morti perché così doveva andare. Blackwood ha perso compagni, ha trovato nuovi alleati, e io con lui ho perso e trovato la direzione.

Le idee scartate? Più numerose di quelle pubblicate

Ci sono interi capitoli mai scritti. Titoli accantonati. Idee che sembravano geniali e si sono rivelate vuote. Alcuni nemici non erano abbastanza potenti. Alcuni misteri non abbastanza oscuri. A volte sono stati proprio quei fallimenti a spingermi oltre.

Il Vangelo delle Ombre è nato da uno scarto. Era un frammento, un’idea gettata via… finché non ho deciso di esplorarla fino in fondo. La mia paura più grande si è trasformata nella chiave per raccontare un nuovo orrore, più profondo.

Quando arriva l’intuizione giusta

L’intuizione arriva tardi. A volte nel sonno. A volte mentre stai facendo tutt’altro. La figura del Viaggiatore, per esempio, è nata da un sogno disturbante. E quel sogno è diventato il cuore del secondo volume. Così come il personaggio di Monroe – un alleato nato quasi per caso – ha conquistato un posto fondamentale nella saga.

Blackwood stesso non doveva nemmeno essere protagonista. Ma la sua voce ha preso forza, e io ho dovuto ascoltarla.

Non è solo “scrivere una storia”. È costruire una mitologia

Ogni racconto della saga Archivio Blackwood è parte di qualcosa di più ampio. Una cronologia. Una tensione. Un mondo.
Chi legge i miei libri trova riferimenti, simboli ricorrenti, nomi già uditi. Nulla è lasciato al caso, ma molto viene lasciato nel mistero, come è giusto che sia in una storia gotica.

Londra diventa un personaggio. I suoi vicoli, la sua nebbia, i suoi segreti. E ogni nuova pagina deve rispettare ciò che è stato scritto prima, ma anche osare qualcosa di nuovo.


In conclusione…

Costruire l’Archivio Blackwood è stato (ed è ancora) un lavoro duro. Fatica, ricerca, tagli, riscritture, dubbi. Ma è anche ciò che mi ha reso davvero autore. E ogni volta che un lettore mi scrive per dirmi che ha riconosciuto un simbolo o ha seguito un’indagine pagina dopo pagina… capisco che questa fatica ha senso.

Grazie per essere parte di questo viaggio nell’ombra.
A lume di candela, continueremo a cercare la verità tra le pieghe del Velo.



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Gli oggetti del male: quando il potere è nelle mani sbagliate


Ci sono oggetti che nascono innocenti, creati per difendere, guarire o pregare.
Poi, un giorno, finiscono nelle mani sbagliate  e smettono di appartenere al mondo dei vivi.

Le croci, le reliquie, gli amuleti e gli strumenti di tortura non sono soltanto elementi del passato o simboli religiosi: nella storia dell’umanità hanno rappresentato la soglia tra fede e dominio, tra salvezza e dannazione. E nella narrativa gotica, quella soglia diventa spesso una trappola.


Croci che non proteggono

Nella saga de L’Archivio Blackwood, le croci sono un segno ambiguo: pendono dai colli dei fedeli e dei peccatori allo stesso modo.
Padre Quinn, nel Vangelo delle Ombre, impugna la croce come un’arma, ma ogni volta che la solleva lo fa con paura, come se temesse che Dio non rispondesse più.
Perché nel mondo di Blackwood non è la croce a proteggere l’uomo: è l’uomo a dare senso alla croce.
E quando la fede si spegne, resta solo il metallo freddo, incapace di distinguere il bene dal male.


Reliquie e inganni

La storia reale non è diversa.
Dal Medioevo fino all’età vittoriana, l’Europa fu invasa da reliquie, frammenti di ossa, schegge di croci, lacrime imbalsamate di santi.
Ogni reliquia era una promessa, un modo per vendere redenzione a chi non aveva più fede.
Nelle mani giuste, una reliquia è un simbolo di speranza; in quelle sbagliate, diventa uno strumento di potere.
Ed è proprio questo il nucleo oscuro di molte delle tue opere: il male non risiede nell’oggetto, ma in chi lo desidera.


Amuleti e superstizione

Nel XIX secolo, a Londra, non era raro trovare amuleti cuciti nei vestiti o nascosti nelle tasche dei defunti.
Servivano a proteggere l’anima durante il viaggio nell’aldilà, ma spesso erano oggetti intrisi di paura più che di fede.
In Il Carnefice del Silenzio, alcuni di questi amuleti riemergono dagli archivi di Scotland Yard, sporchi di sangue e di segreti: simboli cabalistici tracciati sul rame, occhi d’animale, piccoli ossi umani avvolti in nastri neri.
Ognuno racconta una storia, ognuno è il frammento di una disperazione.


Strumenti di tortura e volontà del potere

Dagli inquisitori ai medici alienisti, l’uomo ha sempre usato il dolore come metodo per conoscere, controllare, redimere.
Gli strumenti di tortura, nella storia come nella narrativa, sono la prova che la curiosità può diventare crudeltà quando si veste da scienza.

Perché a volte il male non vuole uccidere, vuole capire.


Il vero potere

Ogni oggetto maledetto nasce da un gesto umano:
Ecco perché nell’universo di Blackwood — come nella realtà — il male non è mai soprannaturale. È un’eco di ciò che abbiamo costruito noi.

Gli oggetti del male non ci scelgono.
Siamo noi a prenderli in mano, a dargli voce, e a credere che possano salvarci.


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È ufficiale: Le Ombre di Whitechapel sarà pubblicato da Saga Edizioni


Dopo mesi di lavoro, di attese, di nebbie e manoscritti… posso finalmente dirlo:
ho firmato il contratto con Saga Edizioni.

Il mio romanzo gotico Le Ombre di Whitechapel – Il segreto del sangue immortale sarà pubblicato ufficialmente da Saga Edizioni, con un contratto della durata di 5 anni.
Una casa editrice indipendente, attenta alla qualità, al genere, e soprattutto alla voce degli autori.

Cosa significa questo per me

Per me è un passo importante.
Non solo perché si tratta della prima pubblicazione ufficiale fuori dal circuito dell’autoeditoria o crowdfunding, ma anche perché Le Ombre di Whitechapel è il libro che ha dato origine a tutto:
a Blackwood, al suo mondo, alla mia personale discesa tra i vicoli di una Londra del 1888 che non ha mai smesso di parlarmi.

È una storia fatta di sangue, immortalità, segreti sepolti e un certo Ispettore che non sa quando smettere di scavare.

Cosa accadrà adesso

Nelle prossime settimane inizierà il percorso di editing, impaginazione e progettazione della nuova copertina.
Ci sarà una nuova edizione ufficiale, un lancio editoriale completo, e — ve lo anticipo — altre novità in arrivo.

Per chi ha già letto il romanzo in versione self: grazie.
Per chi lo scoprirà adesso: benvenuto nel cuore dell’oscurità.


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I titoli che ho scartato prima de Il Vangelo delle Ombre


Trovare il titolo giusto per un libro è come cercare il battito del cuore in una stanza buia. Sai che c’è. Ma non basta sentire un rumore. Devi riconoscerlo come quel rumore. Quello giusto. Quello che farà vibrare anche il lettore.

Per Il Vangelo delle Ombre, ho scartato almeno cinque titoli. Alcuni belli. Altri evocativi. Ma nessuno… funzionava davvero.


I titoli scartati (veri)

1. “Il Libro del Vuoto”
Suonava bene. Era cupo, denso, persino un po’ mistico. Ma era anche troppo astratto, troppo filosofico. E il romanzo non è solo vuoto. È pieno. Di sangue. Di ricordi. Di segreti.

2. “La Croce Nascosta”
Un titolo forte, simbolico, quasi biblico. Ma sembrava anticipare troppo. E poi c’era un rischio: sembrava un thriller religioso canonico. Il mio libro è altro.

3. “Il Sermone del Silenzio”
Mi piaceva. Molto. Ma era troppo vicino al titolo del terzo volume: Il Carnefice del Silenzio. Rischiavo confusione.

4. “L’Evangelium Tenebris”
Latinismi. Mi piacciono. Ma non tutti i lettori li amano. E un titolo deve attirare, non intimidire.

5. “Il Canto delle Cripte”
Suona gotico, giusto? Ma anche… fumettistico. E un po’ troppo barocco.


Perché ho scelto Il Vangelo delle Ombre

Alla fine, l’ho capito: serviva un titolo che fosse solenne, ma inquietante. Qualcosa che evocasse:

  • Religione deviata
  • Luce spenta
  • Parola scritta… ma maledetta

E così è nato:
Il Vangelo delle Ombre.
Un titolo che non spiega, ma sussurra. Che non mostra… ma attira dentro.

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Cosa deve avere un titolo, per funzionare?

Secondo me, tre cose:

  1. Risuonare con il cuore del libro
    Non basta suonare bene. Deve contenere l’anima.
  2. Farsi ricordare
    Un titolo debole è come una porta anonima. Nessuno la apre.
  3. Accendere una domanda
    “Che cos’è questo vangelo? E perché è delle ombre?”
    Se un titolo genera una domanda, ha già vinto.

Ci sono titoli che sembrano perfetti, ma non sono il tuo. E altri che arrivano piano, come un sussurro dietro la spalla, e capisci che non potrai chiamarlo in nessun altro modo.


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Il tempo nell’Archivio Blackwood


Quando i minuti diventano ombre

C’è una frase che ricorre spesso nei miei libri, anche se in forme diverse:
“Il tempo non passa. Si accumula.”

Perché nel mio mondo narrativo, il tempo non è un flusso, ma una sostanza.
Un residuo.
Una nebbia che si deposita sulle cose, e che a volte le soffoca.


Il tempo come ferita

In Il Vangelo delle Ombre, gli orologi si fermano sempre nello stesso istante.
Nel Carnefice del Silenzio, i giorni si confondono in una sequenza di notti senza nome.
E in Le Ombre di Whitechapel, persino la luna sembra restare immobile sopra i tetti.

Non è un caso.
Perché per i miei personaggi, il tempo non guarisce nulla: conserva.
Conserva le colpe, i rimorsi, i sussurri mai confessati.
Ogni secondo che passa diventa una cella in cui rinchiudere qualcosa… o qualcuno.


Il tempo come personaggio

Non lo dico per metafora.
Nei miei libri, il tempo agisce.
È la vera entità che muove ogni cosa, più del male, più del destino.
Decide chi dimenticare e chi condannare a ricordare.
È il giudice silenzioso che osserva tutto, ma non interviene mai.

Per questo gli orologi, le clessidre e i rintocchi tornano spesso.
Non come simboli di morte, ma di attesa.
Perché nell’Archivio Blackwood, il tempo non uccide.
Aspetta.


Il tempo come trappola

Chi legge la saga lo sa: Blackwood vive nel passato anche quando guarda avanti.
Ogni caso, ogni indagine, ogni morte lo riporta indietro.
Non nel ricordo, ma nel ritorno.
Il tempo, per lui, è un labirinto che non porta da nessuna parte… perché non ha uscita.

Forse per questo le mie storie finiscono sempre dove sono cominciate.
Perché la fine, nell’Archivio, non è una conclusione.
È solo un altro inizio che finge di essere diverso.


E fuori dalla pagina?

Anche nella scrittura, il tempo è il mio nemico più fedele.
Scrivo lentamente, riscrivo tutto, cancello, ricomincio.
Ogni libro diventa un rito di pazienza.
E forse è per questo che continuo a scrivere:
per provare, almeno sulla carta, a domare il tempo.

Anche se so che, alla fine, sarà sempre lui a domare me.


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Le cose che butto via quando riscrivo un capitolo


Una delle domande che mi sento fare più spesso è:
“Quanto cambi rispetto alla prima stesura?”
La risposta breve?
Tantissimo. A volte tutto.

Perché ogni volta che rileggo un capitolo, mi accorgo che qualcosa — una scena, un personaggio, un dialogo — non serve più alla storia. O peggio: la rallenta.

E allora butto via.
Senza pietà. Ma con un certo rispetto.


Cose che taglio senza rimpianti:

  • Scene bellissime… ma inutili.
    Quelle che “suonano bene”, ma non portano avanti nulla. Né la trama, né l’atmosfera, né l’anima del libro.
    Le lascio andare. Se mi servivano solo per dimostrare che “so scrivere”, allora non mi servivano affatto.
  • Personaggi che non sanno chi sono.
    A volte nascono per dire una cosa, poi non parlano più. O dicono troppo. O non aggiungono nulla.
    Meglio eliminarli che tenerli come comparse confuse.
  • Finali alternativi.
    Sì, ne scrivo spesso più di uno.
    Ma alla fine ne tengo solo uno. Quello giusto per la storia, non quello più comodo, né quello più clamoroso.

Cancellare è un atto d’amore

Scrivere non è solo aggiungere.
Scrivere è anche togliere. Togliere il superfluo. Il debole. Il finto.
Tagliare vuol dire avere il coraggio di fare spazio a quello che conta davvero.

Ci sono scene che ho riscritto sei o sette volte.
Una in particolare — un dialogo tra Blackwood e il suo antagonista — ha cambiato forma talmente tante volte che potrei pubblicare un libro solo con le versioni scartate.

Eppure… solo nell’ultima ha funzionato.


Dietro ogni libro pubblicato c’è un libro mai nato

Un libro fatto di pagine cancellate, finali alternativi, personaggi sacrificati, idee accantonate.
Ma è proprio quel libro invisibile che dà forza a quello che resta.

Perché ciò che leggi non è mai tutto ciò che è stato scritto.
È solo ciò che — alla fine — è sopravvissuto.


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Cosa NON leggerete mai in un mio libro


C’è una domanda che mi fanno spesso, a volte con curiosità genuina, altre con un mezzo sorriso ironico:
“Ma nei tuoi libri c’è sempre qualcosa di oscuro. Dove metti il limite?”

La risposta è semplice: il limite c’è, eccome.
Ma non è dove pensano loro.
Il vero limite — quello invalicabile — non riguarda quanto orrore posso raccontare. Riguarda cosa scelgo di non raccontare. E perché.

Cosa non troverete mai nei miei libri:

  • L’orrore gratuito.
    Ogni scena disturbante ha un motivo narrativo o simbolico. Non scrivo per scioccare. Scrivo per scavare. Se qualcosa deve far male, lo deve fare per un senso profondo, non per intrattenere a buon mercato.
  • Il dolore di bambini e animali descritto con morbosità.
    Ci sono accenni, simboli, minacce. Ma non troverete mai una descrizione compiaciuta o voyeuristica. Per me il rispetto per la vulnerabilità non è negoziabile.
  • Il bene assoluto.
    Non mi interessano i personaggi perfetti. I miei eroi sono fragili, sbagliati, e a volte inciampano nel fango. Ma non tradiscono mai ciò che li muove. Preferisco un uomo che cade cento volte a uno che non si sporca mai.
  • Il lieto fine imposto.
    Se una storia deve finire male, finirà male. Non sono uno scrittore che accarezza.
    Ma se finirà bene, sarà un bene sofferto, conquistato, insanguinato. Mai comodo. Mai facile.
  • La spiegazione di tutto.
    In ogni mio libro resterà qualcosa di non detto. Un’ombra che si ritrae, una domanda lasciata aperta, un dettaglio che non torna. Perché così funziona la realtà. E anche la paura.

Scrivere è un atto di verità, non di compiacenza.
E io non riesco a scrivere nulla che non sia, in qualche modo, necessario.

Magari non piacerà a tutti.
Ma questo è il patto che offro al lettore: ti porto dove sono stato. Ma non ti dirò dove finisce il sentiero.

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Chi è Claudio Bertolotti quando spegne la luce?


Quando chiudo il portatile, spengo la luce e mi stendo nel letto, la nebbia resta con me.

Non scrivo solo di nebbia, oscurità e silenzi perché amo il gotico. Lo faccio perché, una volta chiuso il sipario del giorno, mi rendo conto che è in quel tipo di mondo che la mia mente torna a casa. Quello che scrivo nasce lì: in quella zona grigia tra il sonno e la veglia, dove tutto si fa più poroso, dove i contorni si sfumano, e le ombre — finalmente — parlano.

Ma chi sono davvero, una volta spento tutto?

Sono un padre che guarda sua figlia dormire e si chiede in che mondo crescerà.
Un uomo che ha paura, spesso. Che combatte contro l’ansia, contro la stanchezza, contro il bisogno — a volte crudele — di essere all’altezza di qualcosa che non ha ancora un nome.
Un marito che si siede accanto alla donna che ama e, tra una cena e un film a metà, prova a tenere accesa una scintilla che gli ricorda perché ha scelto di vivere con lei.

Sono uno che ha scoperto tardi che scrivere non è un gioco, ma una necessità.
Che ci sono storie che ti abitano anche quando non vuoi. E che a un certo punto, se non le scrivi, cominciano a parlare da sole.

Non sono un eroe. Non ho poteri.
Ma ho un vizio — quello sì — che non riesco a smettere: non riesco a voltarmi dall’altra parte.

Quando sento una storia, un dolore, una stortura che fa rumore nell’anima… lo so che prima o poi finirà dentro una pagina.
Non per giudicare. Ma per capirla.
O almeno per lasciarle un posto in cui vivere.

E allora, chi è Claudio Bertolotti quando spegne la luce?

È qualcuno che spera che, nel buio, ci sia ancora qualcosa di vero.
Che scrive per restare.
E che ha imparato a parlare con le ombre.
Non perché sia coraggioso. Ma perché le ombre, a volte, sono le uniche a rispondere.


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Com’è cambiata la mia scrittura dal primo al terzo libro?


Scrivere Le Ombre di Whitechapel è stato come accendere una candela in una stanza che non conoscevo. Scrivere Il Vangelo delle Ombre è stato come attraversare quella stanza al buio, fidandomi dei miei passi. Scrivere Il Carnefice del Silenzio… è stato come chiudere la porta dietro di me e decidere che quella stanza, ora, era mia.

Potrebbe sembrare una metafora un po’ pretenziosa. Ma è quello che sento davvero: ogni libro che scrivo è un passaggio, un cambiamento. Non solo nella storia che racconto, ma nel modo in cui la affronto.


1. Dalla precisione alla profondità

Nel primo libro ero attento a ogni dettaglio, quasi chirurgico. Dovevo dimostrare che sapevo scrivere, che conoscevo Londra, che la mia storia aveva senso. Ogni scena era pensata per essere “perfetta”. E a volte, ammetto, questo toglieva spontaneità.

Con Il Vangelo delle Ombre ho iniziato a fidarmi della mia voce. Ho scritto con più libertà, lasciando che l’atmosfera guidasse il ritmo. Ho accettato che un romanzo gotico può anche essere sbilanciato, storto, ferito — perché è così che sono le storie vere.


2. Il dolore non va spiegato

Nel terzo libro, Il Carnefice del Silenzio, ho smesso di spiegare il dolore. L’ho fatto accadere. Non ho cercato più di “giustificare” la morte di un personaggio, o l’oscurità che lo circonda. Ho imparato a mostrare senza filtrare. E chi legge… o sente quella ferita, o non la sente. Ma non si tratta più di convincere: si tratta di essere autentico.


3. Ho imparato il valore del silenzio

Il primo Blackwood parlava poco. Il terzo… ancora meno. Ma ogni parola pesa di più. Anche nei dialoghi. Anche negli spazi bianchi tra un capitolo e l’altro. Ho imparato che il silenzio è un’arma narrativa potentissima, soprattutto nel gotico. E che il non detto resta nella testa del lettore molto più a lungo di cento spiegazioni.


4. I personaggi sono diventati miei complici

All’inizio li creavo con una funzione. “Tu sei il medico”, “tu sei il sergente”, “tu sei il prete”. Ora sono persone. Declan mi manca. Monroe cresce da solo. Moira è un enigma anche per me. Quinn è morto, ma lo sento ancora dentro certi dialoghi.

Con Il Carnefice del Silenzio, i personaggi non sono più strumenti. Sono eco. Sono voci che mi parlano anche quando non scrivo.


5. Non scrivo più per finire

Il primo libro volevo finirlo. Chiuderlo. Dimostrare che ce l’avevo fatta.

Il secondo, volevo superarmi.

Il terzo… ho voluto viverlo.

Ora non scrivo più per “finire” una storia. Scrivo per farla respirare. Per farla rimanere. Per far sentire a chi legge che qualcosa di questa oscurità gli appartiene. Perché, in fondo, lo so: nessuno legge Blackwood solo per passare il tempo.

Chi resta… lo fa perché si sente a casa.

Anche se è una casa piena di ombre.


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