Scrivere Le Ombre di Whitechapel è stato come accendere una candela in una stanza che non conoscevo. Scrivere Il Vangelo delle Ombre è stato come attraversare quella stanza al buio, fidandomi dei miei passi. Scrivere Il Carnefice del Silenzio… è stato come chiudere la porta dietro di me e decidere che quella stanza, ora, era mia.
Potrebbe sembrare una metafora un po’ pretenziosa. Ma è quello che sento davvero: ogni libro che scrivo è un passaggio, un cambiamento. Non solo nella storia che racconto, ma nel modo in cui la affronto.
1. Dalla precisione alla profondità
Nel primo libro ero attento a ogni dettaglio, quasi chirurgico. Dovevo dimostrare che sapevo scrivere, che conoscevo Londra, che la mia storia aveva senso. Ogni scena era pensata per essere “perfetta”. E a volte, ammetto, questo toglieva spontaneità.
Con Il Vangelo delle Ombre ho iniziato a fidarmi della mia voce. Ho scritto con più libertà, lasciando che l’atmosfera guidasse il ritmo. Ho accettato che un romanzo gotico può anche essere sbilanciato, storto, ferito — perché è così che sono le storie vere.
2. Il dolore non va spiegato
Nel terzo libro, Il Carnefice del Silenzio, ho smesso di spiegare il dolore. L’ho fatto accadere. Non ho cercato più di “giustificare” la morte di un personaggio, o l’oscurità che lo circonda. Ho imparato a mostrare senza filtrare. E chi legge… o sente quella ferita, o non la sente. Ma non si tratta più di convincere: si tratta di essere autentico.
3. Ho imparato il valore del silenzio
Il primo Blackwood parlava poco. Il terzo… ancora meno. Ma ogni parola pesa di più. Anche nei dialoghi. Anche negli spazi bianchi tra un capitolo e l’altro. Ho imparato che il silenzio è un’arma narrativa potentissima, soprattutto nel gotico. E che il non detto resta nella testa del lettore molto più a lungo di cento spiegazioni.
4. I personaggi sono diventati miei complici
All’inizio li creavo con una funzione. “Tu sei il medico”, “tu sei il sergente”, “tu sei il prete”. Ora sono persone. Declan mi manca. Monroe cresce da solo. Moira è un enigma anche per me. Quinn è morto, ma lo sento ancora dentro certi dialoghi.
Con Il Carnefice del Silenzio, i personaggi non sono più strumenti. Sono eco. Sono voci che mi parlano anche quando non scrivo.
5. Non scrivo più per finire
Il primo libro volevo finirlo. Chiuderlo. Dimostrare che ce l’avevo fatta.
Il secondo, volevo superarmi.
Il terzo… ho voluto viverlo.
Ora non scrivo più per “finire” una storia. Scrivo per farla respirare. Per farla rimanere. Per far sentire a chi legge che qualcosa di questa oscurità gli appartiene. Perché, in fondo, lo so: nessuno legge Blackwood solo per passare il tempo.
Chi resta… lo fa perché si sente a casa.
Anche se è una casa piena di ombre.
IL CARNEFICE DEL SILENZIO
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