Non so dire quando è cominciato. Forse la prima volta che ho visto quegli occhi, gli occhi di Blackwood, fissi su un fascicolo che nessuno voleva riaprire. O forse è stato prima ancora, quando il silenzio stesso cominciò a cambiare forma. Non era più un’assenza. Era una presenza. Opprimente. In ascolto.
Ho seguito Edgar nei corridoi scrostati di un orfanotrofio abbandonato, nei sotterranei di un monastero in rovina, e tra le stanze sepolte di archivi dimenticati da Dio. Lui non lo sa, ma c’ero. Sempre un passo dietro. Quando accendeva un fiammifero nel buio, lo vedevo tremare più per abitudine che per paura. Quando leggeva ad alta voce nomi che nessuno avrebbe dovuto pronunciare, lo ascoltavo trattenendo il respiro.
Il Carnefice esiste. Non è un mito. Non è una leggenda nata dal sangue e dalla polvere. È carne che si è fatta simbolo. È giudice di qualcosa che abbiamo cercato troppo a lungo di ignorare. Ma chi lo ha evocato davvero? E perché ogni passo che facciamo per fermarlo sembra solo avvicinarci di più all’abisso?
Nel cuore della storia, il silenzio diventa protagonista. Un silenzio che uccide, che giudica, che lascia cicatrici nei luoghi dove è passato. Non so come finirà. So solo che il tempo stringe, e le voci che abbiamo ignorato troppo a lungo stanno tornando.
Io ci sono ancora. E ascolto.
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