Ci sono immagini che ti attraversano senza bussare.
Non chiedono permesso, non si annunciano con logica: arrivano come un sussurro nella notte, una lama sotto pelle, e restano lì. Impossibili da ignorare. E spesso, sono proprio quelle che finiscono nei racconti di Blackwood.
Molti mi chiedono: “Come nascono certe scene?”
Quelle della bambola con la bocca cucita, della donna in vestaglia che parla in latino davanti al camino o della scala che sale nel nulla tra la nebbia. E la risposta è sempre la stessa: non le creo. Le osservo.
L’origine di una visione
Di solito accade la sera, quando il rumore del mondo rallenta. Il cervello smette di costruire e comincia a raccogliere. Ed è lì che compaiono.
Una frase.
Un’ombra.
Un suono.
Una volta mi sono svegliato con una frase precisa in testa, come se me l’avessero detta nel sogno:
“L’unica porta che non dovresti aprire è quella che hai dentro.”
Da lì, è nata la scena della chiave nello sterno. Non sapevo ancora chi fosse il cadavere sul tavolo, né chi l’avesse aperto, ma la chiave era lì. Conficcata nel centro del petto. E ho iniziato a scrivere.
Luce fioca e simboli antichi
Altre volte, è tutto più razionale. Studio libri sul folklore, su culti oscuri, sulla simbologia medievale, e poi la mente fa il resto.
Un simbolo trovato in un grimorio del XVII secolo può finire inciso nel muro di una camera da letto. Una formula latina antica diventa un sussurro blasfemo nella bocca di una posseduta.
SPOILER: Anche il Viaggiatore dell’Ombra, apparso per la prima volta ne Il Vangelo delle Ombre, è nato così. Non volevo descriverlo in modo chiaro. Era troppo potente per essere limitato in una forma. Ma avevo un’immagine: un’ombra alta, senza occhi, che si piega sulle vittime come un velo unto.
Il tempo come alleato
Non tutte le idee arrivano complete.
A volte ci mettono mesi a maturare.
SPOILER: La scena dell’orfanotrofio nel racconto Hollowgate (in stesura) è nata da un incubo fatto nel 2024, che ho annotato nel telefono. Solo un anno dopo ho capito dove andava collocato: nel passato di Elias, il bambino con il simbolo tracciato sul muro.
Scrivere horror gotico non significa solo spaventare.
Significa riportare a galla tutto ciò che la società moderna ha dimenticato.
Le paure primordiali, le ombre interiori, il bisogno di dare un volto al male.
E quando non arriva nulla?
Non scrivo. Mai forzare l’oscurità.
Aspetto. Leggo. Cammino nella nebbia.
A volte la scena che cercavi arriva quando smetti di inseguirla.
E quando lo fa…
la riconosci subito.
È quella che ti fa abbassare gli occhi dopo averla scritta.
Vuoi scoprire da dove arrivano le altre visioni?
Allora tuffati nei racconti dell’Archivio Blackwood.
Ma attento: alcune porte, una volta aperte… non si richiudono.
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