Ci sono uomini che entrano in una stanza in silenzio, eppure la riempiono.
Non per il tono della voce, né per l’autorità formale, ma per ciò che indossano. O meglio: per come lo indossano.
L’ispettore Edgar Blackwood non è un eroe da vetrina. Il suo cappotto è troppo logoro per l’eleganza, troppo pesante per la moda, troppo impregnato di pioggia e fumo per chi vive all’asciutto.
Eppure è quel cappotto che lo precede. Che lo annuncia, come una figura uscita da un archivio che nessuno ha mai chiesto di aprire.
Ogni piega racconta una notte.
Ogni bottone cucito a mano tiene insieme un caso irrisolto.
Il colletto rialzato non è stile: è protezione. Dal freddo, dagli sguardi. Dai ricordi.
Il sigaro che fuma — economico, mai aromatico — è più una museruola che un vizio. Lo tiene occupato, lo isola, lo frena. È la brace che si consuma mentre intorno tutto resta oscuro.
Blackwood non ha bisogno di presentazioni.
Il suo abito, il suo passo lento, la sua presenza tra le ombre parlano prima di lui.
E quando si ferma, davanti a una porta, davanti a un corpo, davanti a un nome… è sempre il cappotto a muoversi per primo.
Quello non è un indumento.
È un archivio addosso.
