Il volto che non c’era: Ed Gein e l’ossessione per l’identità


Nel cuore dell’America rurale, Ed Gein non fu solo un assassino. Fu un artigiano del vuoto. Un uomo che non cercava di uccidere per dominare, ma per ricostruire. Ricostruire cosa? Un’identità. Un volto. Una madre. Un sé stesso.

La sua casa, oggi scomparsa, era un teatro dell’ossessione: maschere fatte di pelle umana, abiti cuciti con parti del corpo, oggetti rituali che non servivano a nascondere, ma a incarnare. Gein non voleva sparire. Voleva diventare altro.

Il travestimento come linguaggio

Nel folklore criminale, il travestimento è spesso associato alla fuga. In Gein, invece, è il contrario: è un ritorno. Indossare la pelle altrui non è solo un gesto macabro, è una dichiarazione. Lui non rubava identità: le costruiva, le stratificava, le abitava.

Ogni maschera era un tentativo di risposta alla domanda che lo tormentava: chi sono, se non posso essere mia madre?
Ogni cucitura, un confine tra il sé e l’altro.
Ogni silenzio, una voce che non poteva più parlare.

Il corpo come archivio

Gein trattava il corpo umano come un archivio da consultare. Non c’era sadismo nel suo gesto, ma una ritualità disturbante. Tagliava, conservava, esponeva. Come se ogni parte fosse un documento, un frammento di verità.
La pelle non era solo pelle: era memoria, era ruolo, era funzione.

In questo, Gein anticipa una riflessione moderna: quanto del nostro io è costruito su ciò che mostriamo? Quanto è pelle, quanto è maschera?

L’eredità visiva

Il cinema ha trasformato Gein in icona. Norman Bates, Leatherface, Buffalo Bill: tutti figli di quella casa nel Wisconsin. Ma ciò che resta davvero inquietante non è il sangue. È il vuoto.
Il vuoto che Gein cercava di riempire con frammenti di altri.
Il vuoto che oggi possiamo rappresentare solo con immagini che non mostrano tutto, ma lasciano intuire.

Ed Gein non aveva un volto. Ne aveva troppi. E in quel moltiplicarsi di identità, ci ha lasciato una domanda che ancora oggi ci perseguita:
Chi siamo, quando smettiamo di essere noi stessi?


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Ed Gein al Cinema: tra ispirazione e distorsione


Quando si pensa al volto del male nei film horror più iconici, spesso non si sa che dietro quei mostri c’è un nome reale: Ed Gein.

La sua storia — fatta di solitudine, repressione sessuale, culto ossessivo della madre e macabri rituali — ha ispirato alcuni dei personaggi più disturbanti della storia del cinema, trasformandolo in un archetipo del male nascosto dietro volti ordinari.

Norman Bates (Psycho, 1960)

Il primo e più diretto esempio è Norman Bates, protagonista del capolavoro di Alfred Hitchcock. Come Gein, vive isolato con il cadavere imbalsamato della madre, con cui mantiene un dialogo interiore distorto. La “casa su tre livelli” di Psycho richiama la stratificazione mentale: inconscio, conscio e repressione, proprio come nella mente di Ed.

Leatherface (Non aprite quella porta, 1974)

Il personaggio di Leatherface è ispirato all’abitudine di Gein di utilizzare pelle umana per creare maschere e indumenti. Il film, pur spingendosi verso l’eccesso splatter, mantiene l’essenza disturbante di un uomo che ha trasformato il corpo umano in un materiale da lavoro. Il silenzio, la famiglia degenerata e l’ambiente rurale riportano alla Wisconsin di Gein.

Buffalo Bill (Il silenzio degli innocenti, 1991)

In questo caso l’ispirazione è più simbolica. Buffalo Bill scuoia le sue vittime per creare una “seconda pelle” e diventare ciò che desidera. Il tema dell’identità, della pelle come confine tra essere e apparire, ha un legame diretto con Gein e il suo desiderio inconscio di diventare la madre perduta.


L’influenza oltre l’horror

Ed Gein ha lasciato un’impronta anche nella cultura pop, nei fumetti, nei romanzi e persino nei videogiochi. La sua storia ha superato i confini del true crime, diventando un simbolo della paura che nasce dentro casa, in silenzio, senza clamore.

Non era un serial killer classico. Ha ucciso poco, ma ha disturbato profondamente.

E Hollywood ha saputo cogliere quell’abisso e trasformarlo in mito.


Nel mio saggio narrativo Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana, esploro proprio questi legami tra realtà e rappresentazione, tra cronaca e immaginario. Un viaggio disturbante, ma necessario, per comprendere da dove nascono davvero i mostri.

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Ed Gein: cosa ci racconta davvero la sua mente?


Psicopatologia e simbolismo tra realtà e abisso

“Non era pazzo. O almeno non nel modo in cui lo intendiamo.”
Questa è una delle frasi più inquietanti pronunciate da uno psichiatra chiamato a valutare Ed Gein, l’uomo che, con la sua follia rurale e il culto morboso per la madre, ha ispirato decine di figure dell’orrore moderno: Norman Bates, Leatherface, Buffalo Bill.

Ma al di là del sensazionalismo, chi era davvero Ed Gein?

Dissociazione e rituale

Secondo i referti psichiatrici redatti dopo il suo arresto nel 1957, Gein soffriva di schizofrenia paranoide con forti componenti dissociative. Ma ciò che colpì gli analisti non fu solo la patologia, bensì la struttura rituale che permeava ogni sua azione:

  • la scelta delle vittime
  • l’uso dei corpi per creare “oggetti” (maschere, abiti, arredi)
  • la conservazione ossessiva dei resti

Tutto in lui obbediva a una logica simbolica disturbata, non a un impulso caotico. Ed Gein non uccideva per godimento. Uccideva per ricostruire un altare alla madre. Perché lei tornasse.

La madre come centro del cosmo

Augusta Gein era tutto per lui: figura religiosa fanatica, ossessiva, manipolatrice. Le sue parole — “tutte le donne sono peccatrici” — si scolpirono nella mente del figlio come un dogma ineluttabile. Quando morì, Ed Gein restò solo con Dio e con i cadaveri.

Nel tempo, cominciò a ricostruire un mondo materno fatto di pelle, ossa, abiti ricuciti. Voleva rivestirsi della madre, diventare la madre.
In questo senso, il delitto per Gein non era fine a sé stesso, ma un mezzo per colmare un’assenza cosmica, una ferita metafisica.

Il significato profondo dell’orrore

Gein non è un semplice assassino. È un simbolo.
Un archetipo dell’uomo che, di fronte alla perdita, cerca di manipolare la morte attraverso riti, oggetti e simboli. Un uomo che, privato di identità, usa il corpo dell’altro per tentare di ritrovare sé stesso.

Nella sua follia, non c’è disordine. C’è struttura, c’è culto.
Un culto privato, oscuro, in cui la madre diventa divinità, e l’omicidio un’offerta sacra.

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Come nasce un mostro: infanzia, isolamento e delirio nella mente di un assassino


Non basta un crimine efferato per creare un mostro. A volte, il mostro non nasce: si costruisce nel silenzio di una casa isolata, tra parole sussurrate all’orecchio da una madre possessiva e il lento disfacimento della realtà.

Questa è la premessa inquietante da cui prende vita il viaggio psicologico e narrativo de Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana. Ma al di là del caso Gein, resta aperta una domanda che continua ad affascinare e inquietare lettori, criminologi e narratori: come si arriva a compiere l’orrore?

Il mostro non nasce: si plasma

Ogni serial killer ha una storia. Ma non tutte le storie portano al sangue.

Nel caso di Ed Gein, l’origine del male sembra annidarsi in un ambiente familiare chiuso, claustrofobico, dove la religione veniva usata come strumento di colpa e controllo, e dove il mondo esterno era considerato impuro. È l’infanzia il terreno fertile in cui attecchisce la radice del delirio: quando il legame con la madre diventa assoluto, totalizzante, insostituibile.

Il bambino Ed cresce in un mondo dove tutto è peccato, tranne la devozione a colei che ha il potere di benedire o maledire. Un mondo in cui le emozioni vengono represse, la sessualità demonizzata, la libertà annientata.

Isolamento e rimozione

La fattoria dei Gein non è solo un luogo fisico, ma una prigione mentale. Il progressivo isolamento da tutto e da tutti genera una frattura interiore. La realtà diventa elastica, sostituibile. La morte non è più un limite, ma un’interruzione temporanea del legame.

È così che, nel tempo, la mente può arrivare a colmare l’assenza con il rituale, il delirio, la ricostruzione dell’amato perduto. Non per sadismo, non per crudeltà, ma per necessità simbolica.

Il delirio come unico linguaggio

Ciò che per l’osservatore è follia, per chi la vive può diventare coerenza. Nel caso di Gein, il culto della madre si trasforma in azione concreta: non per uccidere, ma per “riportare ordine” nella propria visione distorta del mondo.

Questo meccanismo di rielaborazione patologica della perdita, unito a disturbi psicotici gravi e all’assenza di qualsiasi rete sociale o affettiva, porta alla costruzione del “mostro” che la cronaca ha reso famoso. Ma il vero orrore non è nel sangue: è nella logica contorta ma perfetta che guida la sua mente.

Una domanda senza risposta

Alla fine, resta l’interrogativo che accompagna ogni lettura di true crime: può succedere ancora? E può succedere ovunque?
Finché esisteranno solitudini, silenzi e infanzie negate, forse sì.

Il Culto della Madre non offre risposte, ma accompagna il lettore in un viaggio disturbante dove l’orrore non è solo nel crimine… ma nel contesto che lo ha generato.


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Dentro la mente dell’autore: intervista a Claudio Bertolotti


Ho sempre pensato che scrivere fosse un viaggio nel silenzio. Un percorso fatto di ombre, ricordi, paure… e di voci che non trovano una forma.
Quando infatti sono stato intervistato dal Club del Libro, ho avuto occasione di raccontare non solo i miei titoli già pubblicati o in uscita, ma soprattutto l’idea di fondo che li tiene vivi: il desiderio di dare corpo a ciò che resta taciuto.

L’origine del racconto

Ho cominciato a scrivere attorno ai dodici anni, per liberarmi da pensieri che non sapevo spiegare a voce. Raccontavo storie brevi, dark, istintive… e già allora capivo che dietro l’incubo c’era un motivo.
Scrivere è diventato la necessità di trovare un ordine nel caos quotidiano, una via per restare me stesso quando il mondo sembrava chiedermi silenzio.

Il percorso: tra indipendenza e editoria

Oggi ho un accordo con Bookabook e Saga Edizioni, ma il mio sguardo va oltre: la libertà creativa è la bussola che non voglio mai perdere.
Il blocco dello scrittore? Esiste, ma è solo un momento: il vero motore è farsi trovare in ascolto, senza forzare, aspettando che le idee si trasformino in trama.

Personaggi, trama e verità

«Costruisco i miei personaggi a partire dalle loro fragilità… Mi interessa più ciò che nascondono che ciò che mostrano». Queste parole, pronunciate… …mi restituiscono la ragione profonda del mio lavoro: non voglio solo narrare. Voglio toccare l’intimità del Male, del Vuoto, del Silenzio.
La trama? È il sentiero. I personaggi? Sono la ragione per cui vale la pena percorrerlo.

Critica, feedback e comunità

Le recensioni negative? Non le temo. Le false sì, le contesto.
Ma ciò che mi emoziona è il dialogo con i lettori: ogni messaggio, ogni riflessione mi ricorda perché ho iniziato – per condividere ciò che resta nell’ombra.


Per chi vuole andare oltre

Leggi l’intervista completa:
Intervista a Claudio Bertolotti – Club del Libro

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LE MADRI DEL MALE


Augusta Gein, Catherine Knight e il volto oscuro della maternità

Ci sono madri che generano la vita.
E ci sono madri che, nel nome dell’amore, la soffocano.

Nel nostro immaginario, la figura materna è sacra: fonte di accudimento, protezione, origine e cura. Ma quando il legame si spezza e si trasforma in possesso, controllo, o puro fanatismo, allora la madre può diventare la prima cella di una prigione invisibile.

In questo articolo esploro tre casi diversi — due reali, uno simbolico — in cui la maternità diventa incubatrice del Male. Madri che non solo hanno fallito nel proteggere… ma hanno dato origine all’orrore stesso.


Augusta Gein – La madre che generò un mostro

Augusta Gein non ha mai ucciso nessuno.
Eppure, è considerata la radice psicologica dell’orrore generato da suo figlio: Ed Gein, il “macellaio di Plainfield”, colui che avrebbe ispirato personaggi come Psycho, Leatherface e Buffalo Bill.

Fanatica religiosa, misantropa e misogina, Augusta allevò Ed in un clima di terrore spirituale e colpa sessuale. Gli insegnava che le donne erano creature impure, che il corpo era peccato, che il mondo era corrotto. Quando morì, Ed crollò. E tentò — in tutti i modi — di riportarla in vita.

Ogni oggetto ricavato dai cadaveri, ogni gesto di “taxidermia umana”, ogni vestito fatto di pelle… era parte di un rituale disperato. Un culto privato, con una sola divinità: la Madre.


Catherine Knight – La madre che uccise, cucinò e servì

Catherine Knight è il volto più feroce della maternità distorta.
Australiana, madre di quattro figli, protagonista di una delle pagine più oscure della cronaca criminale mondiale.

Nel 2000 uccise il compagno, John Price, lo scorticò completamente, cucinò alcune parti del suo corpo e apparecchiò la tavola per i suoi figli… con cartellini coi loro nomi davanti ai piatti. L’intenzione era chiara. Un pasto simbolico. Una “offerta” familiare.

Diagnosticata con disturbo borderline e psicopatia, Catherine aveva un passato di violenza, ossessioni e manipolazioni. Ma ciò che colpì fu proprio la sua maschera materna, alternata a furia cieca e crudeltà rituale.


La Madre come simbolo disturbante

Non sempre il Male ha la forma del coltello.
A volte è uno sguardo. Una preghiera imposta. Un abbraccio che toglie l’aria.

Molti culti e racconti gotici — inclusi alcuni presenti nella mia saga Archivio Blackwood — pongono la madre come figura ambivalente: salvifica e demoniaca, fertile e cannibale, luce e tenebra. Un’icona potente, antica, capace di nutrire… o divorare.

Nel saggio-narrativo Il Culto della Madre ho voluto esplorare questo nodo oscuro: non solo la biografia di Ed Gein, ma il suo culto interiore. Quella devozione cieca e malata per una madre assente, che continua a parlare anche da morta.


In conclusione

Le madri del Male non sono solo donne crudeli.
Sono figure simboliche che mettono in crisi le nostre certezze. Ci obbligano a chiederci: fino a che punto l’amore può diventare una gabbia? E cosa resta, di un figlio, quando la voce della madre è l’unica che ha mai ascoltato?


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Quando la realtà supera l’incubo: 5 case dell’orrore che hanno ispirato libri e film


C’è qualcosa nelle case abbandonate che ci attrae e ci respinge allo stesso tempo. Forse è la promessa di un mistero sepolto sotto il pavimento, o quel silenzio pesante che sembra nascondere grida lontane. Ma alcune abitazioni non hanno bisogno della fantasia per essere spaventose. Sono reali, documentate, teatro di indicibili atrocità. E proprio per questo, sono diventate il cuore pulsante di romanzi, film e leggende.

Ecco cinque case dell’orrore realmente esistite, dove la cronaca ha incontrato l’incubo. Luoghi dove la morte ha lasciato il segno, ispirando intere generazioni di scrittori, registi e lettori.


1. La casa di Ed Gein – Plainfield, Wisconsin (USA)

Un’abitazione isolata in mezzo ai campi. All’apparenza anonima, quasi banale. Ma al suo interno, gli agenti di polizia scoprirono uno degli orrori più profondi della psiche umana: teschi trasformati in ciotole, maschere di pelle umana, organi essiccati, mobili rivestiti con resti umani.
Gein, affetto da delirio religioso e complesso materno ossessivo, ha ispirato personaggi iconici come Norman Bates, Leatherface e Buffalo Bill.

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2.  La casa di Lizzie Borden – Fall River, Massachusetts

«Lizzie Borden took an axe…» inizia così una filastrocca popolare. L’assassinio del padre e della matrigna con una quarantina di colpi di ascia sconvolse l’America puritana del 1892.
Lizzie fu processata ma mai condannata. La casa, oggi trasformata in B&B, conserva ancora il letto insanguinato e i mobili originali.
Un luogo impregnato di non detti, isteria collettiva e fantasmi del patriarcato.


3.  Il Castello di H. H. Holmes – Chicago

Durante l’Expo del 1893, Henry Howard Holmes costruì un “hotel” pieno di passaggi segreti, stanze senza uscite, botole e camere a gas.
Il primo serial killer “ingegnere del male”, Holmes progettò un edificio pensato per la tortura, la morte e la dissoluzione dei corpi.
La stampa dell’epoca lo battezzò “The Murder Castle”.
L’edificio venne demolito, ma la sua ombra aleggia ancora su Chicago e nelle pagine di molti romanzi gotici americani.


4. La casa di Amityville – New York

Resa celebre dai Warren e dalla serie di film horror, la casa di Amityville fu teatro di un massacro nel 1974, quando Ronald DeFeo Jr. uccise tutta la sua famiglia.
Successivamente, i nuovi inquilini dichiararono di aver vissuto fenomeni paranormali: voci, odori nauseanti, crocifissi capovolti.
Molti elementi furono poi contestati o rivelati come invenzioni, ma la casa è diventata il simbolo moderno della casa infestata per eccellenza.


5. La prigione di Moorside – Yorkshire, Regno Unito

Non una casa, ma una villa-prigione trasformata da Ian Brady e Myra Hindley in luogo di sevizie, torture e omicidi su minori.
Tra gli anni ’60 e ’70, i due portarono avanti una serie di crimini che ancora oggi scuotono l’Inghilterra.
La casa fu demolita per volontà pubblica, ma le registrazioni delle confessioni e le fotografie degli ambienti restano nei fascicoli della polizia come prova vivente del Male banale.


Conclusione

Queste case non fanno paura per ciò che promettono… ma per ciò che è realmente accaduto.
Non servono demoni o fantasmi quando l’essere umano è capace di generare l’orrore più profondo.
Ed è proprio in questo spazio ambiguo tra realtà e finzione che nasce la mia scrittura: laddove il crimine diventa specchio dell’anima, e l’orrore è reale.


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Dentro la casa degli orrori – Un viaggio nella mente di Ed Gein


C’è odore di umido, di chiuso. Di qualcosa che marcisce.
La porta si apre con un cigolio lungo e lento, come se stesse cercando di avvisarmi che qui, in questa casa, nulla è rimasto davvero morto. Neanche la polvere.

La luce fioca della torcia disegna contorni slabbrati sulle pareti annerite. Il pavimento scricchiola sotto i miei passi, ma non è solo il legno a muoversi. È come se ci fosse qualcos’altro, appena fuori dalla vista, che trattiene il respiro assieme a me.
Un sussurro che non è vento. Un lamento che non ha voce.

Cammino in silenzio tra vecchi giornali ingialliti, sedie senza gambe, scatole di latta, oggetti senza nome.
È una casa, dicono. Ma non lo è più.
Qui non c’è memoria domestica, non ci sono ricordi normali. Solo rituali. Solo ossessioni. Solo fantasmi.

Entro nella cucina. Il tavolo è ricoperto da una cerata logora. Sopra, resti arrugginiti di utensili, lame, e… qualcosa che non voglio identificare subito.
Guardo a sinistra. Il lavandino è sporco, con tracce che sembrano vecchie ma ancora umide. E sopra, appeso come un trofeo che nessuno dovrebbe mai mostrare, c’è un volto. Una maschera. Pelle umana, cucita.
Inspiegabilmente conservata.

Mi fermo. Il cuore mi batte forte.
Lo so, razionalmente. So dove sono.
La paura è reale.

Salgo le scale. Una porta è chiusa.
La stanza della madre.

Qui il tempo si è fermato. Il letto è rifatto, la Bibbia è ancora sul comodino. Le tende bloccano la luce, ma qualcosa filtra ugualmente.
Non la toccherei mai, quella stanza.
Ed Gein non l’ha mai fatto. La adorava troppo.
O forse ne aveva troppa paura.

Scendo.
C’è un capanno sul retro. Il cuore mi dice di non aprirlo.
La mente mi urla che devo farlo. Che dentro ci sono le risposte.

Lo spalanco.
Il tanfo è insopportabile.
E non serve immaginazione. I giornali lo raccontano. I rapporti lo confermano. Qui sono stati ritrovati teschi usati come ciotole. Organi. Parti del corpo femminile trasformate in oggetti.
Un grembiule fatto con seni.
Una cintura fatta di capezzoli.

Non è una leggenda.
Non è un horror hollywoodiano.
È accaduto.
Qui.

Ed Gein non era solo un assassino.
Era un uomo spezzato, consumato da una madre che aveva idolatrato fino a volerne ricreare la presenza con la carne di altre donne.
Un uomo che viveva in una dimensione alterata, tra fede malata e delirio.
Un uomo che ha ispirato Psycho, Non aprite quella porta, Il Silenzio degli innocenti.

Chiudo gli occhi.
Respiro piano.
E penso: non ho visto un mostro. Ho camminato nella sua mente.


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Seguimi per altri articoli sul true crime, il lato oscuro della mente e i miei romanzi gotici ispirati a storie vere.

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Quando l’orrore è reale: perché leggere true crime oggi?


Viviamo in un’epoca in cui l’intrattenimento si nutre di paura, e la paura – paradossalmente – ci attrae. Ma mentre fiction, horror e thriller ci offrono una via di fuga nell’immaginario, esiste un genere che invece ci costringe a restare nella realtà, a guardarne il volto più disturbante, più crudo, più autentico: il true crime.

Non è una moda. Non è solo voyeurismo.
È qualcosa di più profondo.


Lettori dell’abisso

Chi legge true crime non è necessariamente attratto dalla violenza, ma dalla necessità di capire.
Capire perché accade l’orrore.
Capire come una mente possa frantumarsi fino al punto di non ritorno.
Capire dove la società ha fallito, nascosto, ignorato.

C’è chi guarda queste storie con sospetto, come se leggessimo per compiacere un gusto morboso. Ma la verità è che il true crime non coccola il lettore.
Lo mette a disagio. Lo sfida. Lo obbliga a confrontarsi con domande scomode.
E a volte, lo cambia.


Il fascino del reale

Il successo di documentari come Making a Murderer, Don’t F**k With Cats o podcast come Serial dimostra che oggi abbiamo fame di verità, anche quando è disturbante.
Perché leggere un libro sul caso Ed Gein – ad esempio – è diverso dal guardare un film ispirato a lui.
Nella narrazione romanzata puoi chiudere gli occhi.
Nel true crime no.

Quando l’orrore è reale, ogni dettaglio ha un peso.
Ogni omissione conta. Ogni parola pronunciata in tribunale è una fessura nella coscienza collettiva.


Leggere per ricordare

Leggere true crime significa anche ricordare chi è stato dimenticato.
Le vittime che non hanno avuto voce.
Le famiglie lasciate nel vuoto.
Le epoche che hanno preferito l’oblio alla verità.

E allora leggere questi libri – anche se faticosi, anche se spiazzanti – diventa un atto di memoria, di responsabilità.
Non si tratta di glorificare il male.
Si tratta di interrogarlo.
Di conoscerlo per riconoscerlo, quando tenta di tornare sotto nuove forme.


Il culto della madre. Ed Gein e l’orrore nella mente umana

Questo è il motivo per cui ho scritto questo libro.
Non per raccontare l’ennesimo “mostro”, ma per entrare in quel vuoto psicologico e culturale che ha permesso a una storia del genere di accadere.

Perché Ed Gein non è solo un nome da cinema.
È il prodotto di una solitudine malata, di un’educazione distorta, di una devozione spinta all’estremo.
E, purtroppo, non è un caso isolato.


Leggere true crime, oggi, non è un vezzo. È una scelta consapevole.
È affrontare le paure del mondo reale con la mente aperta, il cuore saldo, e il desiderio di non ignorare.
Perché finché continueremo a raccontare l’orrore, forse, potremo impedirgli di diventare silenzio.


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