C’è un’idea profondamente sbagliata che circola da anni: quella secondo cui il lettore vada sempre accompagnato, rassicurato, protetto. Come se la narrativa fosse una stanza imbottita, dove nulla può ferire davvero.
Non è così. E non dovrebbe esserlo.
Ci sono storie che devono mettere a disagio. Non per provocazione gratuita, ma perché parlano di zone dell’essere umano che non sono ordinate, né sicure, né spiegabili con facilità. Il disagio non è un errore di scrittura: è spesso il segnale che qualcosa sta funzionando.
Il problema nasce quando si confonde il disagio con l’eccesso. Mostrare tutto, spiegare tutto, giustificare tutto. In quel momento il lettore non è più inquieto: è anestetizzato. L’orrore vero non urla. Rimane. Si deposita. Fa compagnia anche dopo l’ultima pagina.
Un lettore a disagio è un lettore coinvolto. È qualcuno che non può voltare pagina senza sentire una frizione interna. Una domanda irrisolta. Un’ombra che non trova subito un nome.
Nel gotico, nel noir, nel saggio narrativo, il disagio è uno strumento etico. Serve a ricordare che il Male non è sempre altro da noi. Che spesso abita luoghi comuni, case normali, gesti ripetuti. Spiegare troppo significa assolvere. Rassicurare troppo significa banalizzare.
Non tutte le storie devono far stare bene. Alcune devono restare addosso.
Se un lettore chiude un libro sentendosi leggermente fuori posto, allora forse ha letto qualcosa di onesto. E l’onestà, in letteratura, raramente è confortevole.
C’è un equivoco diffuso nella narrativa contemporanea: l’idea che il lettore debba uscire dalla storia rassicurato, con tutto spiegato, ordinato, ricondotto a una causa chiara. Come se il Male fosse accettabile solo quando diventa comprensibile.
Ma il Male non chiede permesso. E soprattutto non spiega sé stesso.
Scriverlo significa spesso resistere alla tentazione di giustificare, di chiudere il cerchio, di offrire una spiegazione psicologica o morale che rimetta tutto al suo posto. Ogni spiegazione è una forma di controllo. Ogni controllo è una carezza. E non tutte le storie hanno il diritto — o il dovere — di accarezzare.
Il gotico, l’orrore, il vero perturbante funzionano perché lasciano una crepa aperta. Un gesto inspiegabile, una scelta che non trova redenzione, una presenza che non viene decifrata fino in fondo. Quando tutto è chiarito, l’inquietudine muore. Quando resta qualcosa di irrisolto, il Male continua a respirare.
Il lettore non va sempre protetto. A volte va messo davanti a qualcosa che non può sistemare.
Scrivere senza spiegazioni rassicuranti non significa essere gratuiti o confusi. Significa scegliere consapevolmente di non trasformare l’orrore in una lezione morale o in un caso clinico. Significa accettare che alcune storie non chiudano, ma restino addosso.
Perché nella realtà il Male non arriva mai con una nota a piè di pagina. Accade. Rimane. E spesso non si lascia capire.
Ed è proprio lì, in quell’assenza di consolazione, che la narrativa smette di intrattenere… e comincia a disturbare davvero.
C’è un errore che si commette spesso quando si parla di orrore: si pensa che nasca dalla violenza. Dal sangue. Dall’atto estremo. In realtà, l’orrore più persistente nasce prima. E rimane dopo.
Nasce nel silenzio.
Il silenzio delle case chiuse. Il silenzio delle stanze inutilizzate. Il silenzio di chi non ha lasciato tracce evidenti, ma solo spazi vuoti.
I casi che continuano a inquietarci — quelli che tornano, che non smettono di essere studiati, raccontati, riscritti — non sono quasi mai i più rumorosi. Non sono quelli che hanno fatto più vittime, né quelli che hanno prodotto più clamore mediatico al momento dei fatti. Sono quelli in cui qualcosa non torna, e non viene mai spiegato del tutto.
Il sangue si asciuga. Il silenzio no.
L’orrore che non urla
Pensiamo ai grandi casi di cronaca nera che hanno superato la loro epoca. Non colpiscono per la spettacolarità dell’atto, ma per ciò che manca: una motivazione chiara, una progressione logica, una confessione liberatoria.
Il vero disagio nasce quando l’orrore non ha voce.
Quando non c’è un manifesto. Quando non c’è un proclama. Quando non c’è un nemico dichiarato.
In questi casi, il male non si presenta come un’esplosione, ma come una sedimentazione. Si accumula negli anni, nei gesti ripetuti, nelle abitudini apparentemente innocue. E quando emerge, lo fa in modo quasi casuale, come se fosse sempre stato lì, in attesa.
Case che parlano troppo piano
Un elemento ritorna spesso nei racconti più disturbanti della storia reale: la casa.
Non come semplice luogo del crimine, ma come prolungamento della mente. Una casa che non racconta nulla apertamente, ma che suggerisce. Trattiene. Nasconde.
Stanze chiuse a chiave. Oggetti lasciati al loro posto per anni. Pareti che non hanno mai sentito una voce alzarsi.
Queste case non gridano. Sussurrano.
Ed è proprio questo sussurro che rende l’orrore persistente. Perché il lettore, lo studioso, l’osservatore, è costretto a colmare i vuoti. A immaginare. A ricostruire.
Il sangue offre una risposta immediata. Il silenzio, no.
Il bisogno umano di spiegare
Di fronte a questi casi, il pubblico reagisce sempre allo stesso modo: cerca una spiegazione definitiva. Una diagnosi. Un’etichetta.
Mostro. Folle. Deviante.
Ma queste parole non servono a comprendere. Servono a chiudere.
Il problema è che certi casi non si lasciano chiudere. Non perché manchino i dati, ma perché i dati non bastano. C’è sempre un residuo. Un’ombra. Una zona grigia che resiste all’analisi.
Ed è proprio lì che nasce l’orrore autentico: nella consapevolezza che non tutto può essere ordinato.
Il silenzio come specchio
Il silenzio, in fondo, non ci spaventa perché è vuoto. Ci spaventa perché riflette.
In assenza di spiegazioni chiare, siamo costretti a guardare noi stessi. A chiederci fino a che punto certi meccanismi siano davvero estranei. A riconoscere che il confine tra normalità e devianza non è una linea netta, ma una zona d’ombra.
L’orrore silenzioso non ci dice “guarda cosa ha fatto”. Ci dice: “guarda cosa è stato possibile”.
E questo è molto più difficile da accettare.
Perché continuiamo a tornare lì
I casi fondati sul silenzio non vengono mai archiviati davvero. Cambiano forma. Cambiano linguaggio. Cambiano medium.
Diventano saggi. Romanzi. Film. Dossier. Ma il nucleo resta intatto.
Perché il silenzio non invecchia. Non perde potenza. Non si consuma.
E ogni volta che qualcuno riapre quelle porte chiuse, non cerca solo la verità storica. Cerca di capire fino a che punto il buio può convivere con l’ordinario.
Questa è la vera domanda che l’orrore ci pone. Ed è una domanda a cui nessun sangue potrà mai rispondere.
Entrare nella casa di Ed Gein non è come attraversare un luogo abbandonato. È più simile a varcare una soglia che nessuno avrebbe mai dovuto riaprire.
Scrivo queste righe in prima persona, come se le stanze fossero ancora in piedi e io potessi toccarne le pareti, respirarne la polvere, ascoltare ciò che non parla ma resta intrappolato nell’aria. Non lo faccio per gusto del macabro, ma perché per comprendere davvero una mente devi farti attraversare dai suoi silenzi.
La porta che non doveva aprirsi
La maniglia è fredda, più di quanto dovrebbe. Appena la giro, la casa sembra trattenere il respiro, come se stesse decidendo se permettermi di entrare o respingermi. Il corridoio è stretto, impregnato di odore di terra umida e qualcosa che ricorda il cuoio vecchio.
Il pavimento scricchiola. Ogni passo sembra un errore.
La luce filtra a fatica dalle finestre sporche, e la polvere danza nell’aria come se avesse una memoria propria. Mi sorprendo a pensare che queste particelle abbiano visto tutto: il silenzio, la solitudine, la devozione ossessiva e il delirio.
La stanza chiusa da anni
La porta della stanza di Augusta — la madre — è l’unica apparentemente intatta. Nessuno entra, nessuno osa sfiorare ciò che Ed conservava come un altare. È la stanza che racconta tutto: la sua fragilità, la sua dipendenza emotiva, il suo crollo mentale dopo la perdita di chi era l’unico punto fermo della sua realtà distorta.
Il letto è perfettamente ordinato. Le tende sono chiuse, eppure so che oltre quei tessuti scoloriti il mondo scorreva, indifferente al disfacimento psicologico che stava maturando dentro queste mura.
Il laboratorio dell’orrore
È questo il punto in cui tremo.
La porta cigola solo quando la spingo con forza. Dentro, l’odore cambia. Qui la polvere non basta a coprire ciò che è stato.
È un luogo che non si descrive facilmente, non perché è troppo macabro, ma perché ogni oggetto pare raccontare un gesto compiuto con ritualità, quasi con devozione. Un tavolo di legno segnato da anni di tagli. Una lampadina nuda che sembra ancora oscillare. E quei silenzi che si attorcigliano come corde… o come lembi di qualcosa che non voglio nominare.
Ed era un uomo che cercava di costruire — letteralmente — ciò che non riusciva più ad avere: sua madre. È questa la radice di tutto. Non la violenza, non la follia spettacolarizzata nei film. La perdita. E il modo terribile, impossibile, insostenibile, in cui ha tentato di colmarla.
Perché scrivere di Ed Gein oggi
Perché ci serve ricordare che il male non nasce dal nulla. Ha sempre un seme, un trauma, una frattura da cui filtra qualcosa che non dovrebbe passare.
Il mio saggio esplora proprio questo: non l’orrore fine a sé stesso, ma l’orrore dentro la mente umana, il punto in cui una persona smette di essere recuperabile e diventa qualcosa di diverso.
Se questo viaggio nella casa di Gein ti ha sfiorato anche solo per un istante, allora sai perché vale la pena leggerlo.
Come parlavano davvero gli investigatori dell’epoca vittoriana
La Londra della seconda metà dell’Ottocento non era soltanto una città: era un organismo vivo, brulicante, con un proprio sistema nervoso fatto di vicoli, fogne, taverne, stazioni di polizia, obitori e tribunali. Il crimine scorreva come un sangue scuro sotto le sue strade, e ogni mestiere – dal medico legale al sergente di pattuglia – aveva un linguaggio preciso, a volte tecnico, a volte pittoresco, nato per descrivere l’orrore con esattezza o per renderlo sopportabile.
Per chi scrive narrativa gotica ambientata in quell’epoca, conoscere quel lessico significa restituire autenticità al mondo e far respirare la pagina come se davvero provenisse da un registro d’archivio.
In questo articolo esploriamo proprio quel linguaggio: ruvido, diretto, spesso oscuro. Il modo in cui i vittoriani raccontavano il crimine dice molto più di quanto sembri.
LA STRADA AVEVA UNA SUA VOCE
Gli ispettori non parlavano mai di “quartieri difficili”. Usavano espressioni più taglienti:
Rookery, covo criminale, labirinto di case pericolose.
Doss-house, dormitorio miserabile dove si nascondevano ladri e reietti.
Gin alley, vicolo degenerato dove alcol e violenza si mescolavano.
Dire “il corpo fu trovato in un rookery” non suggeriva solo un luogo malfamato: evocava un ecosistema di miseria, dove la polizia entrava con riluttanza e spesso in gruppo.
La topografia del crimine era un idioma geografico: i vicoli di Whitechapel erano soprannominati la ragnatela, Limehouse la gola del fumo, mentre certi ponti del Tamigi erano chiamati le soglie del buio per la quantità di corpi recuperati al mattino.
UN LESSICO CLINICO PRIMA DELLA SCIENZA
Le scienze forensi erano ancora primitive, eppure già allora esisteva un vocabolario semi-tecnico che ritorna spesso nei documenti dell’epoca.
Lividity (o post-mortem staining), la macchia violacea della morte.
Incised wound, ferita da taglio netta.
Contused wound, ferita da urto o schiacciamento.
Rigor, irrigidimento, osservato con attenzione dagli ispettori più scrupolosi.
Per un detective vittoriano, saper descrivere un corpo era anche una questione di status professionale: il suo rapporto ufficiale sarebbe passato sulla scrivania di un magistrato, e il tono non poteva essere né emotivo né vago.
Anche i medici parlavano una lingua loro: chiamavano i cadaveri subjects, non persone, e definivano le ferite “clean, ragged, hesitating”, come se il coltello avesse una psicologia.
LE PAROLE NON DETTE
La società vittoriana era pudica, e il crimine spesso veniva descritto con un velo di indirettezza.
Una donna strangolata poteva diventare “found in distressing circumstances”.
Un suicidio non si chiamava quasi mai suicidio: era “self-deliverance” o “felo de se”.
Una mutilazione intima veniva ridotta a “injuries of private nature”.
Questo modo di parlare non serviva solo a proteggere il pubblico: aiutava gli stessi investigatori a mantenere distanza emotiva quando il caso diventava insostenibile.
LA POLIZIA E GLI SLANG DI SOTTOCULTURA
La polizia, soprattutto nei distretti più duri come Whitechapel, aveva sviluppato un gergo sporco e immediato. Alcuni termini usati all’epoca:
Bludgeoner, aggressore armato di mazza o oggetto contundente.
Cutter, sospetto che portava coltelli, spesso macellai o pellicciai.
Weeper, ladro di borsellini nei mercati.
Peeler, soprannome informale del poliziotto, in omaggio (o scherno) a Sir Robert Peel.
Esistevano poi espressioni codificate tra gli agenti: “The nightwatch will talk” – ciò che non si vedeva, qualcuno lo aveva comunque sentito. “The river keeps its secrets” – se il Tamigi prendeva un corpo, il caso spesso finiva lì.
IL VALORE DELLA PAROLA NEI RAPPORTI UFFICIALI
In un’epoca senza fotografie forensi e senza impronte digitali, il linguaggio aveva un peso decisivo nelle indagini. Ogni aggettivo, ogni dettaglio, poteva essere la chiave per collegare un caso a un altro.
I rapporti dell’epoca usavano formule ricorrenti:
“No apparent struggle”, l’assalitore era noto alla vittima.
“Body disposed with deliberation”, l’omicida aveva conoscenze anatomiche.
“Clothing arranged post-mortem”, segno di ritualità o messinscena.
Erano frasi che guidavano non solo l’inchiesta, ma anche l’immaginazione collettiva. Gli articoli dei giornali le riprendevano, amplificandole fino a trasformarle in leggende.
UN LESSICO CHE CONTINUA A VIVERE NELLA NARRATIVA GOTICA
Gran parte del fascino della narrativa vittoriana nasce proprio da questo linguaggio: preciso ma allusivo, tecnico ma impregnato di superstizione. È un modo di descrivere il male che non punta al sensazionalismo, ma alla lucidità.
Usarlo oggi significa rendere credibile un mondo lontano, ricostruire la Londra del 1888 non come un palcoscenico, ma come una città vera, con la sua voce e il suo orrore quotidiano.
E, soprattutto, significa dare ai lettori quel brivido sottile di autenticità che separa la narrativa gotica dalla semplice imitazione.
Ci sono figure che rimangono impresse nella memoria collettiva più di altre. Mostri reali come Ed Gein, o creature immaginarie nate nei romanzi gotici, sembrano esercitare un richiamo oscuro: inquietano, affascinano, respingono e attirano allo stesso tempo. Non è semplice morbosa curiosità. La risposta viene direttamente dal funzionamento del nostro cervello.
La paura è una delle emozioni più antiche dell’uomo. Nascenell’amigdala, un nucleo grande quanto una mandorla che lavora come un radar costante: scandaglia ciò che vediamo, leggiamo o ascoltiamo alla ricerca di segnali di pericolo. Quando li trova, scatena una tempesta elettrica che coinvolge tutto il corpo: aumenta il battito, si stringono i muscoli, cambia la respirazione. È la nostra “firma biologica” dell’attenzione.
Eppure, quello che ci sorprende è che il cervello non distingue sempre tra una minaccia reale e una raccontata. Un libro, un film o un’inchiesta su un caso criminale attivano le stesse aree che useremmo davanti a un vero pericolo, ma senza metterci davvero a rischio. In altre parole, la narrativa della paura ci permette di vivere un brivido controllato. È un laboratorio emotivo: proviamo, sperimentiamo, e poi torniamo al sicuro.
C’è poi un secondo livello, più profondo. Le storie che parlano di ciò che non capiamo – mostri, serial killer, misteri irrisolti – funzionano come specchi distorti: ci obbligano a guardarci dentro, a misurare i nostri confini, a chiedere a noi stessi fino a che punto siamo davvero diversi dal “mostro”. La fascinazione non nasce dalla violenza in sé, ma dal tentativo di comprendere ciò che ci spaventa. Ed è proprio questo a rendere la paura un meccanismo di crescita: ogni volta che la attraversiamo, ne usciamo diversi.
Per questo continuiamo a leggere storie cupe, casi irrisolti, vicende vere che hanno lasciato un’impronta nella storia. È un gioco antico quanto l’umanità: osservare l’ombra per capirci meglio alla luce.
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L’immaginario collettivo è pieno di creature impossibili: demoni, entità, fantasmi, presenze che emergono dal buio di qualche luogo dimenticato. Ma la verità, quella che disturba davvero, è molto più semplice e molto più vicina: il peggiore dei mostri non arriva dall’esterno. Nasce dentro l’uomo.
È un concetto che destabilizza perché toglie distanza. A differenza del soprannaturale, che possiamo confinare nella fantasia, l’orrore umano ha un volto, un passato, una logica deformata che sfugge ma non scompare. Il male creato dalla mente umana non è spettacolare, non è epico: è intimo. Ed è proprio questo a renderlo inquietante.
L’uomo può deviare. Può piegare l’affetto in ossessione, la solitudine in rituale, il dolore in culto. Può trasformare ciò che dovrebbe essere quotidiano in qualcosa che non riconosciamo più. Questo tipo di orrore non ha bisogno di magie o creature delle leggende. Vive nei dettagli: una stanza spoglia, un oggetto fuori posto, un silenzio troppo lungo, un gesto ripetuto fino a diventare rituale. Lì nasce la distorsione.
Le storie che si basano su fatti reali — o che esplorano il lato psicologico dell’oscurità — fanno paura perché ci costringono a guardarci allo specchio. Non mostrano l’innaturale: mostrano il possibile. Ci ricordano che la linea che separa l’equilibrio dallo squilibrio è più fragile di quanto vorremmo ammettere. E che una mente umana, sotto pressione, può costruire mondi propri, convinzioni proprie, realtà alternative che diventano tempeste interiori pronte a traboccare.
Ciò che spaventa non è l’ignoto. È il riconoscibile.
È quell’ombra familiare che assume una forma diversa quando la osserviamo più da vicino. È il pensiero che, in fondo, l’abisso non è così distante dalla superficie della normalità.
Questo è il cuore dell’orrore umano: non l’eccezione, ma la possibilità. E ogni volta che leggiamo — o scriviamo — una storia che affonda in questa dimensione, ciò che ci colpisce davvero non è il mostro… ma ciò che rivela di noi, delle nostre fragilità, delle nostre paure, dei labirinti invisibili che tutti portiamo dentro.
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Quando si scrive partendo da fatti realmente accaduti – come nel caso dei miei saggi narrativi su Ed Gein, Lizzie Borden o i casi dimenticati dell’Inghilterra vittoriana – si cammina su una linea sottile: quella che separa la verità storica dalla necessità narrativa. Una linea che può diventare lama, se non si maneggia con attenzione.
La verità: punto di partenza, non di arrivo
La Storia ci offre frammenti: atti processuali, testimonianze, articoli di giornale, verbali lacunosi, dettagli clinici. Ma non sempre ci racconta tutto. Non ci dice cosa provava un assassino nel silenzio della sua stanza, né quali parole non dette hanno cambiato il corso di una confessione. È qui che interviene lo scrittore.
Quando affronto un personaggio storico come Ed Gein, parto da ciò che è verificabile: date, perizie, cronache. Ma dove la documentazione tace – ed è inevitabile che accada – scelgo di evocare, non di inventare. Creo verosimiglianza, non finzione pura.
Verosimile non significa falso
Un lettore attento percepisce la differenza tra chi inventa una scena per spettacolarizzare e chi invece costruisce un ponte narrativo dove le fonti non arrivano. Ad esempio, se riporto un dialogo tra Ed Gein e un investigatore, non lo sto “inventando”: sto traducendo in forma narrativa ciò che il contesto suggerisce, le emozioni ricostruite, la tensione psicologica reale. La finzione, in questi casi, è uno strumento di comprensione, non una bugia.
Licenza narrativa: quando è legittima?
La licenza narrativa diventa legittima solo quando non altera i fatti storici fondamentali. Non cambierei mai una data di omicidio, non inventerei mai un crimine non accaduto, né attribuirei a un personaggio reale parole che stravolgano il senso del suo vissuto.
Tuttavia, posso scegliere di ambientare una scena in una stanza vuota e silenziosa anche se il verbale non la descrive. Posso usare immagini, suoni, atmosfere, per far emergere una verità emotiva che i documenti non sanno raccontare. È questa la forza della narrazione storica fatta con rispetto.
Perché scrivo così?
Perché credo che la memoria vada tramandata, non archiviata. Perché un lettore, leggendo Il Culto della Madre o i miei racconti gotici ambientati nel 1888, deve sentire l’odore del tempo, il peso delle decisioni, il sussurro delle parole non dette.
E anche perché il mio compito non è giudicare, ma riportare alla luce. Con rispetto, profondità, e – quando necessario – con la delicatezza dell’immaginazione.
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Nel cuore rurale del Wisconsin, tra i campi ghiacciati di Plainfield, sorgeva una delle case più sinistramente celebri della storia americana. Non era un castello gotico, né una villa vittoriana infestata. Era una fattoria ordinaria, isolata, silenziosa. Eppure, al suo interno, il tempo si era fermato. Come un mausoleo, come un altare. Era la casa di Ed Gein.
Le stanze chiuse: una madre che non muore mai
Dopo la morte di Augusta Gein, sua madre, Ed chiuse a chiave intere sezioni della casa: le stanze dove lei dormiva, leggeva la Bibbia, cucinava. Nessuno doveva toccarle. Nessuno doveva profanare quel tempio privato. Polvere, muffa, e un silenzio teso come una messa non celebrata. Il resto dell’abitazione invece divenne un cimitero vivo: resti umani trasformati in oggetti, pareti macchiate, odore di decomposizione e ammoniaca.
Non fu solo un gesto ossessivo: fu un tentativo di sospendere il lutto, di fermare la morte. Mummificare lo spazio per mummificare la madre.
La pelle come coperta: manipolare l’identità
All’interno della casa furono trovati oggetti che sfiorano il simbolico e sprofondano nell’indicibile: maschere di pelle umana, sedie rivestite di derma, ciotole ricavate da crani, labbra cucite su tende. Ogni oggetto parlava un linguaggio segreto, ancestrale. Ed Gein non voleva solo uccidere. Voleva diventare qualcosa. Voleva indossare l’identità perduta della madre. Un desiderio arcaico e cannibalico: non un travestitismo sessuale, ma un travestimento psichico.
Il linguaggio dell’orrore domestico
Tutto in quella casa urlava, ma nel più assoluto silenzio. Non vi erano scritte, né manifesti, né simboli esoterici. Solo oggetti. Ogni oggetto aveva un posto preciso, come nel rituale di una liturgia. Ogni frammento umano sembrava non gettato a caso, ma disposto con devozione. La casa divenne così un corpo, e Ed Gein il suo sacerdote.
Una domanda finale
Non c’è bisogno di inventare mostri quando l’orrore abita la casa accanto. La vera domanda è: quanto silenzio possiamo sopportare prima che qualcosa si spezzi?
Ci sono figure criminali che non si limitano a commettere un atto violento: scrivono sul corpo delle vittime, imprimono un messaggio, trasformano la scena del crimine in un linguaggio disturbante e inevitabile. È ciò che accomuna – pur con enormi differenze storiche, psicologiche e culturali – due nomi scolpiti nell’immaginario del macabro: Jack lo Squartatore e Ed Gein.
Il corpo come narrazione del male
In criminologia, il corpo della vittima viene analizzato come un testo: ogni ferita, ogni mancanza, ogni postura racconta qualcosa dell’autore. Non è solo anatomia, è semiotica del delitto.
Jack lo Squartatore usava il corpo per inviare prove di superiorità, dominare l’investigazione, dimostrare controllo.
Ed Gein, al contrario, trasformava il corpo in materia rituale, parte di un mondo interiore deformato da ossessione materna, religione distorta e isolamento sociale.
In entrambi i casi, il cadavere non è più un corpo: diventa un messaggio.
Jack: la chirurgia improvvisata del terrore
Londra, 1888. Nebbia, vicoli, lampioni tremolanti. Jack lo Squartatore non uccideva soltanto: incideva, apriva, esponeva. La disposizione dei corpi, la precisione delle mutilazioni, la scelta delle aree anatomiche… tutto suggeriva un rituale di potere.
Il messaggio era chiaro: “Io vedo. Io decido. Io sfido.”
La narrativa gotica dell’epoca, da Stevenson a Wilde, non era distante: raccontava lo stesso conflitto tra identità e ombra, tra normalità e pulsione inconfessabile.
Gein: quando il corpo diventa oggetto
Salto di mezzo secolo e migliaia di chilometri: Wisconsin, 1957. La casa di Ed Gein non è una scena del crimine, ma un museo dell’ossessione. Qui il corpo smette di essere messaggio per diventare strumento: maschere, cinture, coppe, rivestimenti, reliquie.
Non c’è sfida alla polizia. Non c’è messinscena pubblica. C’è un uomo che usa il corpo come materia prima per ricostruire la figura della madre e placare una solitudine che ha divorato la sua mente.
In criminologia, questo passaggio è decisivo: Jack comunica col mondo; Gein comunica con se stesso.
Due epoche, un’unica domanda: perché?
Narrativa e criminologia si incontrano proprio qui: nella necessità di capire cosa spinge un essere umano a trasformare un altro essere umano in un testo, un trofeo o un simbolo.
Per Jack, il corpo era un palco. Per Gein, un altare. Per entrambi, però, il corpo delle vittime è diventato l’unico linguaggio possibile per esprimere ciò che non poteva essere detto.
E forse per questo, ancora oggi, queste storie ci inquietano più di qualsiasi romanzo: perché mostrano un male che non parla… scrive.
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