Ogni titolo porta con sé un’eco. A volte nasce spontaneo, come un sussurro venuto dalla storia stessa. Altre volte si fa attendere, si nasconde tra le righe, nei dettagli di un simbolo, in una frase scritta su un vecchio manoscritto. Il Vangelo delle Ombre è nato così: come un’epifania oscura, che ha dato senso a ciò che si andava componendo.
Durante la stesura del secondo capitolo dell’Archivio Blackwood, era chiaro fin dall’inizio che la storia si sarebbe inoltrata in territori più profondi, arcani e mistici rispetto al primo volume. Qui, la morte non era soltanto fisica, ma anche spirituale. Il Male aveva una voce, un culto, una dottrina non scritta che si tramandava nelle tenebre.
Il termine “vangelo” non è casuale. Non allude a un testo sacro in senso tradizionale, ma a una verità alternativa, distorta, eretica, trasmessa da coloro che vivono nell’ombra. Questo “vangelo” non è composto da parole, ma da simboli, riti, sacrifici. Un libro mai scritto, eppure inciso nella carne delle vittime, nei rituali della setta, nei sussurri.
Le ombre, in questo contesto, non sono soltanto ambientali o metaforiche. Sono personaggi. Sono memorie. Sono colpe e visioni che Blackwood stesso porta con sé. Il titolo, quindi, è diventato un manifesto: il secondo volume dell’archivio non racconta semplicemente un nuovo caso, ma raccoglie e decifra il codice oscuro del nemico.
Solo a posteriori, durante la revisione finale del testo, mi sono reso conto che Il Vangelo delle Ombre non era più soltanto un titolo. Era il nome stesso di ciò che la setta custodiva, il cuore segreto di tutta la vicenda.
