IL MIO RAPPORTO CON LA PAURA


…e con chi dice che non bisogna scrivere horror

C’è sempre qualcuno — lettore, critico, autore da salotto — che prima o poi te lo dice:
“Perché scrivi horror? Perché non scrivi qualcosa di più utile, più vero, più positivo?”

A volte lo dicono con tono preoccupato, come se temessero che chi esplora le ombre abbia qualcosa di rotto dentro. Altre volte lo fanno con una punta di superiorità, come se il gotico fosse una nicchia di serie B, un esercizio estetico per gente ossessionata dal macabro.

La verità è un’altra.
Io scrivo horror perché ho paura.
E la paura, per chi scrive, è una porta. Una lama sottile che separa il reale dal possibile, il mondo visibile da quello che scorre sotto. Raccontare la paura — soprattutto quella che non si può spiegare con una diagnosi o un referto — è un atto profondamente umano.

Non scrivo per spaventare. Scrivo per esplorare.

Non c’è un solo rigo nei miei libri che voglia “piacere al pubblico horror”.
Io non scrivo di mostri. Scrivo di uomini che si scontrano con ciò che non dovrebbe esistere.
Scrivo di orfanotrofi che conservano echi, di Bibbie con pagine cucite, di sacerdoti che smettono di credere, di ispettori che trovano nei vicoli più fango che prove.

Lo faccio perché l’orrore è uno specchio.
E in questo specchio, non vedo solo finzione: vedo le crepe della nostra realtà. Vedo il bisogno disperato dell’essere umano di trovare un senso, anche quando tutto crolla.

L’horror non è un trucco narrativo. È una forma di verità.

Chi dice che il gotico sia un genere “superato” non ha mai camminato davvero per Limehouse con la nebbia nelle ossa.
Chi riduce l’horror a cliché non ha mai letto i sussurri nei corridoi vuoti di un ospedale psichiatrico chiuso da trent’anni.

Il gotico non è passato.
È una lente con cui leggere il presente, un linguaggio fatto di simboli, architetture mentali e ombre che raccontano meglio di mille cronache.

Scrivere horror, oggi, è ancora più urgente.
Perché viviamo in un mondo che anestetizza il terrore con la cronaca nera e le breaking news, senza più lasciare spazio alla riflessione, al rituale, al sacro. Scrivere gotico, per me, è un atto di resistenza.

In fondo, il Male non chiede di essere capito. Chiede di essere riconosciuto.

E il compito di uno scrittore — almeno per come lo intendo io — non è offrire soluzioni.
È porre domande che inquietano.
E poi lasciare che sia il lettore, nella nebbia, a scegliere da che parte camminare.


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Il confine tra verità storica e licenza narrativa


Quando si scrive partendo da fatti realmente accaduti – come nel caso dei miei saggi narrativi su Ed Gein, Lizzie Borden o i casi dimenticati dell’Inghilterra vittoriana – si cammina su una linea sottile: quella che separa la verità storica dalla necessità narrativa.
Una linea che può diventare lama, se non si maneggia con attenzione.

La verità: punto di partenza, non di arrivo

La Storia ci offre frammenti: atti processuali, testimonianze, articoli di giornale, verbali lacunosi, dettagli clinici. Ma non sempre ci racconta tutto. Non ci dice cosa provava un assassino nel silenzio della sua stanza, né quali parole non dette hanno cambiato il corso di una confessione.
È qui che interviene lo scrittore.

Quando affronto un personaggio storico come Ed Gein, parto da ciò che è verificabile: date, perizie, cronache. Ma dove la documentazione tace – ed è inevitabile che accada – scelgo di evocare, non di inventare. Creo verosimiglianza, non finzione pura.

Verosimile non significa falso

Un lettore attento percepisce la differenza tra chi inventa una scena per spettacolarizzare e chi invece costruisce un ponte narrativo dove le fonti non arrivano. Ad esempio, se riporto un dialogo tra Ed Gein e un investigatore, non lo sto “inventando”: sto traducendo in forma narrativa ciò che il contesto suggerisce, le emozioni ricostruite, la tensione psicologica reale.
La finzione, in questi casi, è uno strumento di comprensione, non una bugia.

Licenza narrativa: quando è legittima?

La licenza narrativa diventa legittima solo quando non altera i fatti storici fondamentali.
Non cambierei mai una data di omicidio, non inventerei mai un crimine non accaduto, né attribuirei a un personaggio reale parole che stravolgano il senso del suo vissuto.

Tuttavia, posso scegliere di ambientare una scena in una stanza vuota e silenziosa anche se il verbale non la descrive. Posso usare immagini, suoni, atmosfere, per far emergere una verità emotiva che i documenti non sanno raccontare. È questa la forza della narrazione storica fatta con rispetto.

Perché scrivo così?

Perché credo che la memoria vada tramandata, non archiviata.
Perché un lettore, leggendo Il Culto della Madre o i miei racconti gotici ambientati nel 1888, deve sentire l’odore del tempo, il peso delle decisioni, il sussurro delle parole non dette.

E anche perché il mio compito non è giudicare, ma riportare alla luce. Con rispetto, profondità, e – quando necessario – con la delicatezza dell’immaginazione.


Vuoi scoprire come ho trasformato i verbali autentici del caso Ed Gein in una narrazione che non dimentica le vittime ma interroga chi legge?
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Come venivano scritti davvero i romanzi gotici vittoriani e perché la mia narrativa si fonda su quella struttura


Il gotico vittoriano non è solo un genere: è un’architettura narrativa precisa, riconoscibile, costruita secondo regole che miravano a creare inquietudine sottile, introspezione psicologica e un senso di minaccia che avanzava scena dopo scena.
Oggi molti lettori associano il gotico a cliché, ma nel periodo vittoriano era una macchina narrativa sofisticata, più simile a un ingranaggio d’orologeria che a un semplice stile.

In questo articolo esploriamo come erano scritti davvero i romanzi gotici dell’Ottocento, quali erano le loro strutture interne e perché la mia saga gotica si basa consapevolmente su quelle stesse fondamenta, adattandole alla sensibilità moderna.


1. Struttura a stratificazione: orrore rivelato, mai immediato

I romanzi gotici vittoriani non mostravano subito l’orrore.
Funzionavano per livelli successivi:

  1. Primo strato – la vita quotidiana: la normalità apparente.
  2. Secondo strato – l’inquietudine che filtra: rumori, ombre, presagi.
  3. Terzo strato – la rivelazione parziale: un indizio forte ma non definitivo.
  4. Ultimo strato – il cuore dell’orrore: la verità che sovverte tutto.

Questa progressione si ritrova in opere come Il Giro di Vite, Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde e Dracula.

Nei miei romanzi, questo principio è fondamentale: l’orrore non arriva mai improvviso. È un’ombra che cresce, una presenza che si lascia intuire prima di mostrarsi.


2. L’indagine razionale che lentamente fallisce

Il gotico vittoriano amava far scontrare la ragione con l’irrazionale.

Il protagonista inizia sempre da un approccio logico, quasi scientifico.
Poi, scena dopo scena, si trova costretto ad ammettere che la logica da sola non basta.

Questa dinamica è evidente in:

  • Jonathan Harker che cerca di razionalizzare il Castello di Dracula
  • Utterson che indaga su Jekyll con metodo legale
  • I narratori di Henry James che dubitano della propria percezione

Anche nella mia scrittura il personaggio “razionale” (Blackwood, o chi ricopre quel ruolo nelle altre saghe) si confronta con qualcosa che lo supera, senza perdere però il metodo.
La tensione nasce nel punto di frattura tra investigazione e ignoto.


3. Atmosfera sensoriale prima dell’azione

I vittoriani erano maestri dell’atmosfera.
Prima dell’azione, costruivano:

  • odori
  • luci tremolanti
  • passaggi stretti e chiusi
  • case che sembrano respirare
  • nebbia che non è solo nebbia ma un personaggio

L’ambiente anticipa ciò che accadrà.

È uno dei pilastri della mia scrittura: prima di ogni svolta narrativa costruisco uno spazio vivo, un luogo che racconta qualcosa.
Non uso descrizioni immobili: gli ambienti hanno memoria.


4. Personaggi imperfetti, ambigui, segnati

Il gotico vittoriano non amava gli eroi puri.
Preferiva figure:

  • segnate dal passato
  • emotivamente fragili
  • capaci di sbagliare
  • ossessionate dalla verità o dall’ignoto

Da Dorian Gray a Victor Frankenstein, passando per Renfield, l’eroe gotico è un uomo (o una donna) che lotta anche contro sé stesso.

Lo stesso vale nei miei romanzi: nessun protagonista è perfetto.
Blackwood, Monroe, Quinn, tutti portano una crepa che li rende più veri.


5. Capitoli brevi, ritmo crescente, finale che non chiude tutto

La struttura vittoriana aveva un altro tratto distintivo:
il finale raramente era risolutivo al 100%.

Lasciava:

  • una domanda sospesa
  • un dubbio
  • un’ombra che potrebbe tornare

Perché il male, nel gotico, non muore: cambia forma.

Nelle mie opere faccio la stessa scelta: chiudo l’arco narrativo, ma l’atmosfera continua a vibrare, lasciando spazio a nuovi misteri, collegamenti e simboli.


Perché uso ancora oggi la struttura gotica vittoriana?

Perché funziona.
Perché è elegante.
Perché parla al lettore con intelligenza, senza “urlare” l’orrore.
E soprattutto perché permette di costruire:

  • lore profonda
  • personaggi memorabili
  • tensione psicologica autentica
  • mondi narrativi coerenti e ricchi

Il gotico vittoriano non è passato.
È diventato un linguaggio.
Io ho scelto di usarlo come base delle mie saghe, modernizzandolo senza tradirne l’essenza.


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Dentro la casa degli orrori – Un viaggio nella mente di Ed Gein


C’è odore di umido, di chiuso. Di qualcosa che marcisce.
La porta si apre con un cigolio lungo e lento, come se stesse cercando di avvisarmi che qui, in questa casa, nulla è rimasto davvero morto. Neanche la polvere.

La luce fioca della torcia disegna contorni slabbrati sulle pareti annerite. Il pavimento scricchiola sotto i miei passi, ma non è solo il legno a muoversi. È come se ci fosse qualcos’altro, appena fuori dalla vista, che trattiene il respiro assieme a me.
Un sussurro che non è vento. Un lamento che non ha voce.

Cammino in silenzio tra vecchi giornali ingialliti, sedie senza gambe, scatole di latta, oggetti senza nome.
È una casa, dicono. Ma non lo è più.
Qui non c’è memoria domestica, non ci sono ricordi normali. Solo rituali. Solo ossessioni. Solo fantasmi.

Entro nella cucina. Il tavolo è ricoperto da una cerata logora. Sopra, resti arrugginiti di utensili, lame, e… qualcosa che non voglio identificare subito.
Guardo a sinistra. Il lavandino è sporco, con tracce che sembrano vecchie ma ancora umide. E sopra, appeso come un trofeo che nessuno dovrebbe mai mostrare, c’è un volto. Una maschera. Pelle umana, cucita.
Inspiegabilmente conservata.

Mi fermo. Il cuore mi batte forte.
Lo so, razionalmente. So dove sono.
La paura è reale.

Salgo le scale. Una porta è chiusa.
La stanza della madre.

Qui il tempo si è fermato. Il letto è rifatto, la Bibbia è ancora sul comodino. Le tende bloccano la luce, ma qualcosa filtra ugualmente.
Non la toccherei mai, quella stanza.
Ed Gein non l’ha mai fatto. La adorava troppo.
O forse ne aveva troppa paura.

Scendo.
C’è un capanno sul retro. Il cuore mi dice di non aprirlo.
La mente mi urla che devo farlo. Che dentro ci sono le risposte.

Lo spalanco.
Il tanfo è insopportabile.
E non serve immaginazione. I giornali lo raccontano. I rapporti lo confermano. Qui sono stati ritrovati teschi usati come ciotole. Organi. Parti del corpo femminile trasformate in oggetti.
Un grembiule fatto con seni.
Una cintura fatta di capezzoli.

Non è una leggenda.
Non è un horror hollywoodiano.
È accaduto.
Qui.

Ed Gein non era solo un assassino.
Era un uomo spezzato, consumato da una madre che aveva idolatrato fino a volerne ricreare la presenza con la carne di altre donne.
Un uomo che viveva in una dimensione alterata, tra fede malata e delirio.
Un uomo che ha ispirato Psycho, Non aprite quella porta, Il Silenzio degli innocenti.

Chiudo gli occhi.
Respiro piano.
E penso: non ho visto un mostro. Ho camminato nella sua mente.


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Seguimi per altri articoli sul true crime, il lato oscuro della mente e i miei romanzi gotici ispirati a storie vere.

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Scrivere la paura: perché l’orrore trova rifugio nella carta

C’è un momento, mentre scrivo, in cui il confine tra ciò che invento e ciò che temo davvero si fa sottile.

Non ho mai considerato l’orrore come un semplice genere narrativo. Per me, è uno strumento. Un modo per raccontare ciò che non si riesce a dire con chiarezza. Un modo per evocare ciò che resta nell’ombra – non solo nel mondo, ma dentro di noi.

In ogni pagina che scrivo, cerco una crepa. Uno spiraglio da cui far filtrare una verità disturbante.
Perché sì, a volte scrivere è anche questo: addomesticare le proprie paure. Renderle leggibili.
Ma altre volte… è semplicemente lasciarle uscire.

Le mie paure sulla carta

Ne Le Ombre di Whitechapel ho raccontato il peso del sangue, l’eredità maledetta. In Il Vangelo delle Ombre, il potere delle parole corrotte, delle scritture deformate, dei demoni.
Nel mio nuovo romanzo, Il Carnefice del Silenzio, ho affrontato qualcosa di più antico e sottile: il Male che si nasconde dietro le apparenze religiose, nei gesti quotidiani, nei luoghi dimenticati.

Ogni storia che scrivo è un modo per affrontare quello che non riesco a spiegare a parole.
Il buio. L’assenza. La colpa.
E forse è proprio questo che rende l’orrore così potente: non si può confinare. Ma si può raccontare.

Scrivo per ricordare

Scrivere la paura significa anche lasciare tracce.
Significa dire al lettore: “Attento. Non è solo una storia. È un avvertimento.”

Ogni volta che creo una scena, un personaggio, un rituale, non sto solo intrattenendo. Sto cercando di imprimere qualcosa sulla carta che rimanga. Una sensazione, un disagio, un sussurro.

Se anche uno solo di quei sussurri arriva fino a voi, allora ho fatto il mio dovere.

Vuoi entrare anche tu nell’Archivio?

Ti invito a scoprire le mie storie. Ogni libro è una chiave. Ogni pagina, una porta.
Ma sappi una cosa: una volta varcata la soglia, l’Archivio ti ricorderà.

Scopri i miei libri:

Le Ombre di Whitechapel
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Il Vangelo delle Ombre
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