C’è un equivoco diffuso nella narrativa contemporanea: l’idea che il lettore debba uscire dalla storia rassicurato, con tutto spiegato, ordinato, ricondotto a una causa chiara. Come se il Male fosse accettabile solo quando diventa comprensibile.
Ma il Male non chiede permesso. E soprattutto non spiega sé stesso.
Scriverlo significa spesso resistere alla tentazione di giustificare, di chiudere il cerchio, di offrire una spiegazione psicologica o morale che rimetta tutto al suo posto. Ogni spiegazione è una forma di controllo. Ogni controllo è una carezza. E non tutte le storie hanno il diritto — o il dovere — di accarezzare.
Il gotico, l’orrore, il vero perturbante funzionano perché lasciano una crepa aperta. Un gesto inspiegabile, una scelta che non trova redenzione, una presenza che non viene decifrata fino in fondo. Quando tutto è chiarito, l’inquietudine muore. Quando resta qualcosa di irrisolto, il Male continua a respirare.
Il lettore non va sempre protetto. A volte va messo davanti a qualcosa che non può sistemare.
Scrivere senza spiegazioni rassicuranti non significa essere gratuiti o confusi. Significa scegliere consapevolmente di non trasformare l’orrore in una lezione morale o in un caso clinico. Significa accettare che alcune storie non chiudano, ma restino addosso.
Perché nella realtà il Male non arriva mai con una nota a piè di pagina. Accade. Rimane. E spesso non si lascia capire.
Ed è proprio lì, in quell’assenza di consolazione, che la narrativa smette di intrattenere… e comincia a disturbare davvero.
C’è un errore che si commette spesso quando si parla di orrore: si pensa che nasca dalla violenza. Dal sangue. Dall’atto estremo. In realtà, l’orrore più persistente nasce prima. E rimane dopo.
Nasce nel silenzio.
Il silenzio delle case chiuse. Il silenzio delle stanze inutilizzate. Il silenzio di chi non ha lasciato tracce evidenti, ma solo spazi vuoti.
I casi che continuano a inquietarci — quelli che tornano, che non smettono di essere studiati, raccontati, riscritti — non sono quasi mai i più rumorosi. Non sono quelli che hanno fatto più vittime, né quelli che hanno prodotto più clamore mediatico al momento dei fatti. Sono quelli in cui qualcosa non torna, e non viene mai spiegato del tutto.
Il sangue si asciuga. Il silenzio no.
L’orrore che non urla
Pensiamo ai grandi casi di cronaca nera che hanno superato la loro epoca. Non colpiscono per la spettacolarità dell’atto, ma per ciò che manca: una motivazione chiara, una progressione logica, una confessione liberatoria.
Il vero disagio nasce quando l’orrore non ha voce.
Quando non c’è un manifesto. Quando non c’è un proclama. Quando non c’è un nemico dichiarato.
In questi casi, il male non si presenta come un’esplosione, ma come una sedimentazione. Si accumula negli anni, nei gesti ripetuti, nelle abitudini apparentemente innocue. E quando emerge, lo fa in modo quasi casuale, come se fosse sempre stato lì, in attesa.
Case che parlano troppo piano
Un elemento ritorna spesso nei racconti più disturbanti della storia reale: la casa.
Non come semplice luogo del crimine, ma come prolungamento della mente. Una casa che non racconta nulla apertamente, ma che suggerisce. Trattiene. Nasconde.
Stanze chiuse a chiave. Oggetti lasciati al loro posto per anni. Pareti che non hanno mai sentito una voce alzarsi.
Queste case non gridano. Sussurrano.
Ed è proprio questo sussurro che rende l’orrore persistente. Perché il lettore, lo studioso, l’osservatore, è costretto a colmare i vuoti. A immaginare. A ricostruire.
Il sangue offre una risposta immediata. Il silenzio, no.
Il bisogno umano di spiegare
Di fronte a questi casi, il pubblico reagisce sempre allo stesso modo: cerca una spiegazione definitiva. Una diagnosi. Un’etichetta.
Mostro. Folle. Deviante.
Ma queste parole non servono a comprendere. Servono a chiudere.
Il problema è che certi casi non si lasciano chiudere. Non perché manchino i dati, ma perché i dati non bastano. C’è sempre un residuo. Un’ombra. Una zona grigia che resiste all’analisi.
Ed è proprio lì che nasce l’orrore autentico: nella consapevolezza che non tutto può essere ordinato.
Il silenzio come specchio
Il silenzio, in fondo, non ci spaventa perché è vuoto. Ci spaventa perché riflette.
In assenza di spiegazioni chiare, siamo costretti a guardare noi stessi. A chiederci fino a che punto certi meccanismi siano davvero estranei. A riconoscere che il confine tra normalità e devianza non è una linea netta, ma una zona d’ombra.
L’orrore silenzioso non ci dice “guarda cosa ha fatto”. Ci dice: “guarda cosa è stato possibile”.
E questo è molto più difficile da accettare.
Perché continuiamo a tornare lì
I casi fondati sul silenzio non vengono mai archiviati davvero. Cambiano forma. Cambiano linguaggio. Cambiano medium.
Diventano saggi. Romanzi. Film. Dossier. Ma il nucleo resta intatto.
Perché il silenzio non invecchia. Non perde potenza. Non si consuma.
E ogni volta che qualcuno riapre quelle porte chiuse, non cerca solo la verità storica. Cerca di capire fino a che punto il buio può convivere con l’ordinario.
Questa è la vera domanda che l’orrore ci pone. Ed è una domanda a cui nessun sangue potrà mai rispondere.
Entrare nella casa di Ed Gein non è come attraversare un luogo abbandonato. È più simile a varcare una soglia che nessuno avrebbe mai dovuto riaprire.
Scrivo queste righe in prima persona, come se le stanze fossero ancora in piedi e io potessi toccarne le pareti, respirarne la polvere, ascoltare ciò che non parla ma resta intrappolato nell’aria. Non lo faccio per gusto del macabro, ma perché per comprendere davvero una mente devi farti attraversare dai suoi silenzi.
La porta che non doveva aprirsi
La maniglia è fredda, più di quanto dovrebbe. Appena la giro, la casa sembra trattenere il respiro, come se stesse decidendo se permettermi di entrare o respingermi. Il corridoio è stretto, impregnato di odore di terra umida e qualcosa che ricorda il cuoio vecchio.
Il pavimento scricchiola. Ogni passo sembra un errore.
La luce filtra a fatica dalle finestre sporche, e la polvere danza nell’aria come se avesse una memoria propria. Mi sorprendo a pensare che queste particelle abbiano visto tutto: il silenzio, la solitudine, la devozione ossessiva e il delirio.
La stanza chiusa da anni
La porta della stanza di Augusta — la madre — è l’unica apparentemente intatta. Nessuno entra, nessuno osa sfiorare ciò che Ed conservava come un altare. È la stanza che racconta tutto: la sua fragilità, la sua dipendenza emotiva, il suo crollo mentale dopo la perdita di chi era l’unico punto fermo della sua realtà distorta.
Il letto è perfettamente ordinato. Le tende sono chiuse, eppure so che oltre quei tessuti scoloriti il mondo scorreva, indifferente al disfacimento psicologico che stava maturando dentro queste mura.
Il laboratorio dell’orrore
È questo il punto in cui tremo.
La porta cigola solo quando la spingo con forza. Dentro, l’odore cambia. Qui la polvere non basta a coprire ciò che è stato.
È un luogo che non si descrive facilmente, non perché è troppo macabro, ma perché ogni oggetto pare raccontare un gesto compiuto con ritualità, quasi con devozione. Un tavolo di legno segnato da anni di tagli. Una lampadina nuda che sembra ancora oscillare. E quei silenzi che si attorcigliano come corde… o come lembi di qualcosa che non voglio nominare.
Ed era un uomo che cercava di costruire — letteralmente — ciò che non riusciva più ad avere: sua madre. È questa la radice di tutto. Non la violenza, non la follia spettacolarizzata nei film. La perdita. E il modo terribile, impossibile, insostenibile, in cui ha tentato di colmarla.
Perché scrivere di Ed Gein oggi
Perché ci serve ricordare che il male non nasce dal nulla. Ha sempre un seme, un trauma, una frattura da cui filtra qualcosa che non dovrebbe passare.
Il mio saggio esplora proprio questo: non l’orrore fine a sé stesso, ma l’orrore dentro la mente umana, il punto in cui una persona smette di essere recuperabile e diventa qualcosa di diverso.
Se questo viaggio nella casa di Gein ti ha sfiorato anche solo per un istante, allora sai perché vale la pena leggerlo.
Come parlavano davvero gli investigatori dell’epoca vittoriana
La Londra della seconda metà dell’Ottocento non era soltanto una città: era un organismo vivo, brulicante, con un proprio sistema nervoso fatto di vicoli, fogne, taverne, stazioni di polizia, obitori e tribunali. Il crimine scorreva come un sangue scuro sotto le sue strade, e ogni mestiere – dal medico legale al sergente di pattuglia – aveva un linguaggio preciso, a volte tecnico, a volte pittoresco, nato per descrivere l’orrore con esattezza o per renderlo sopportabile.
Per chi scrive narrativa gotica ambientata in quell’epoca, conoscere quel lessico significa restituire autenticità al mondo e far respirare la pagina come se davvero provenisse da un registro d’archivio.
In questo articolo esploriamo proprio quel linguaggio: ruvido, diretto, spesso oscuro. Il modo in cui i vittoriani raccontavano il crimine dice molto più di quanto sembri.
LA STRADA AVEVA UNA SUA VOCE
Gli ispettori non parlavano mai di “quartieri difficili”. Usavano espressioni più taglienti:
Rookery, covo criminale, labirinto di case pericolose.
Doss-house, dormitorio miserabile dove si nascondevano ladri e reietti.
Gin alley, vicolo degenerato dove alcol e violenza si mescolavano.
Dire “il corpo fu trovato in un rookery” non suggeriva solo un luogo malfamato: evocava un ecosistema di miseria, dove la polizia entrava con riluttanza e spesso in gruppo.
La topografia del crimine era un idioma geografico: i vicoli di Whitechapel erano soprannominati la ragnatela, Limehouse la gola del fumo, mentre certi ponti del Tamigi erano chiamati le soglie del buio per la quantità di corpi recuperati al mattino.
UN LESSICO CLINICO PRIMA DELLA SCIENZA
Le scienze forensi erano ancora primitive, eppure già allora esisteva un vocabolario semi-tecnico che ritorna spesso nei documenti dell’epoca.
Lividity (o post-mortem staining), la macchia violacea della morte.
Incised wound, ferita da taglio netta.
Contused wound, ferita da urto o schiacciamento.
Rigor, irrigidimento, osservato con attenzione dagli ispettori più scrupolosi.
Per un detective vittoriano, saper descrivere un corpo era anche una questione di status professionale: il suo rapporto ufficiale sarebbe passato sulla scrivania di un magistrato, e il tono non poteva essere né emotivo né vago.
Anche i medici parlavano una lingua loro: chiamavano i cadaveri subjects, non persone, e definivano le ferite “clean, ragged, hesitating”, come se il coltello avesse una psicologia.
LE PAROLE NON DETTE
La società vittoriana era pudica, e il crimine spesso veniva descritto con un velo di indirettezza.
Una donna strangolata poteva diventare “found in distressing circumstances”.
Un suicidio non si chiamava quasi mai suicidio: era “self-deliverance” o “felo de se”.
Una mutilazione intima veniva ridotta a “injuries of private nature”.
Questo modo di parlare non serviva solo a proteggere il pubblico: aiutava gli stessi investigatori a mantenere distanza emotiva quando il caso diventava insostenibile.
LA POLIZIA E GLI SLANG DI SOTTOCULTURA
La polizia, soprattutto nei distretti più duri come Whitechapel, aveva sviluppato un gergo sporco e immediato. Alcuni termini usati all’epoca:
Bludgeoner, aggressore armato di mazza o oggetto contundente.
Cutter, sospetto che portava coltelli, spesso macellai o pellicciai.
Weeper, ladro di borsellini nei mercati.
Peeler, soprannome informale del poliziotto, in omaggio (o scherno) a Sir Robert Peel.
Esistevano poi espressioni codificate tra gli agenti: “The nightwatch will talk” – ciò che non si vedeva, qualcuno lo aveva comunque sentito. “The river keeps its secrets” – se il Tamigi prendeva un corpo, il caso spesso finiva lì.
IL VALORE DELLA PAROLA NEI RAPPORTI UFFICIALI
In un’epoca senza fotografie forensi e senza impronte digitali, il linguaggio aveva un peso decisivo nelle indagini. Ogni aggettivo, ogni dettaglio, poteva essere la chiave per collegare un caso a un altro.
I rapporti dell’epoca usavano formule ricorrenti:
“No apparent struggle”, l’assalitore era noto alla vittima.
“Body disposed with deliberation”, l’omicida aveva conoscenze anatomiche.
“Clothing arranged post-mortem”, segno di ritualità o messinscena.
Erano frasi che guidavano non solo l’inchiesta, ma anche l’immaginazione collettiva. Gli articoli dei giornali le riprendevano, amplificandole fino a trasformarle in leggende.
UN LESSICO CHE CONTINUA A VIVERE NELLA NARRATIVA GOTICA
Gran parte del fascino della narrativa vittoriana nasce proprio da questo linguaggio: preciso ma allusivo, tecnico ma impregnato di superstizione. È un modo di descrivere il male che non punta al sensazionalismo, ma alla lucidità.
Usarlo oggi significa rendere credibile un mondo lontano, ricostruire la Londra del 1888 non come un palcoscenico, ma come una città vera, con la sua voce e il suo orrore quotidiano.
E, soprattutto, significa dare ai lettori quel brivido sottile di autenticità che separa la narrativa gotica dalla semplice imitazione.
Ci sono figure che rimangono impresse nella memoria collettiva più di altre. Mostri reali come Ed Gein, o creature immaginarie nate nei romanzi gotici, sembrano esercitare un richiamo oscuro: inquietano, affascinano, respingono e attirano allo stesso tempo. Non è semplice morbosa curiosità. La risposta viene direttamente dal funzionamento del nostro cervello.
La paura è una delle emozioni più antiche dell’uomo. Nascenell’amigdala, un nucleo grande quanto una mandorla che lavora come un radar costante: scandaglia ciò che vediamo, leggiamo o ascoltiamo alla ricerca di segnali di pericolo. Quando li trova, scatena una tempesta elettrica che coinvolge tutto il corpo: aumenta il battito, si stringono i muscoli, cambia la respirazione. È la nostra “firma biologica” dell’attenzione.
Eppure, quello che ci sorprende è che il cervello non distingue sempre tra una minaccia reale e una raccontata. Un libro, un film o un’inchiesta su un caso criminale attivano le stesse aree che useremmo davanti a un vero pericolo, ma senza metterci davvero a rischio. In altre parole, la narrativa della paura ci permette di vivere un brivido controllato. È un laboratorio emotivo: proviamo, sperimentiamo, e poi torniamo al sicuro.
C’è poi un secondo livello, più profondo. Le storie che parlano di ciò che non capiamo – mostri, serial killer, misteri irrisolti – funzionano come specchi distorti: ci obbligano a guardarci dentro, a misurare i nostri confini, a chiedere a noi stessi fino a che punto siamo davvero diversi dal “mostro”. La fascinazione non nasce dalla violenza in sé, ma dal tentativo di comprendere ciò che ci spaventa. Ed è proprio questo a rendere la paura un meccanismo di crescita: ogni volta che la attraversiamo, ne usciamo diversi.
Per questo continuiamo a leggere storie cupe, casi irrisolti, vicende vere che hanno lasciato un’impronta nella storia. È un gioco antico quanto l’umanità: osservare l’ombra per capirci meglio alla luce.
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Quando si scrive partendo da fatti realmente accaduti – come nel caso dei miei saggi narrativi su Ed Gein, Lizzie Borden o i casi dimenticati dell’Inghilterra vittoriana – si cammina su una linea sottile: quella che separa la verità storica dalla necessità narrativa. Una linea che può diventare lama, se non si maneggia con attenzione.
La verità: punto di partenza, non di arrivo
La Storia ci offre frammenti: atti processuali, testimonianze, articoli di giornale, verbali lacunosi, dettagli clinici. Ma non sempre ci racconta tutto. Non ci dice cosa provava un assassino nel silenzio della sua stanza, né quali parole non dette hanno cambiato il corso di una confessione. È qui che interviene lo scrittore.
Quando affronto un personaggio storico come Ed Gein, parto da ciò che è verificabile: date, perizie, cronache. Ma dove la documentazione tace – ed è inevitabile che accada – scelgo di evocare, non di inventare. Creo verosimiglianza, non finzione pura.
Verosimile non significa falso
Un lettore attento percepisce la differenza tra chi inventa una scena per spettacolarizzare e chi invece costruisce un ponte narrativo dove le fonti non arrivano. Ad esempio, se riporto un dialogo tra Ed Gein e un investigatore, non lo sto “inventando”: sto traducendo in forma narrativa ciò che il contesto suggerisce, le emozioni ricostruite, la tensione psicologica reale. La finzione, in questi casi, è uno strumento di comprensione, non una bugia.
Licenza narrativa: quando è legittima?
La licenza narrativa diventa legittima solo quando non altera i fatti storici fondamentali. Non cambierei mai una data di omicidio, non inventerei mai un crimine non accaduto, né attribuirei a un personaggio reale parole che stravolgano il senso del suo vissuto.
Tuttavia, posso scegliere di ambientare una scena in una stanza vuota e silenziosa anche se il verbale non la descrive. Posso usare immagini, suoni, atmosfere, per far emergere una verità emotiva che i documenti non sanno raccontare. È questa la forza della narrazione storica fatta con rispetto.
Perché scrivo così?
Perché credo che la memoria vada tramandata, non archiviata. Perché un lettore, leggendo Il Culto della Madre o i miei racconti gotici ambientati nel 1888, deve sentire l’odore del tempo, il peso delle decisioni, il sussurro delle parole non dette.
E anche perché il mio compito non è giudicare, ma riportare alla luce. Con rispetto, profondità, e – quando necessario – con la delicatezza dell’immaginazione.
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Ci sono figure criminali che non si limitano a commettere un atto violento: scrivono sul corpo delle vittime, imprimono un messaggio, trasformano la scena del crimine in un linguaggio disturbante e inevitabile. È ciò che accomuna – pur con enormi differenze storiche, psicologiche e culturali – due nomi scolpiti nell’immaginario del macabro: Jack lo Squartatore e Ed Gein.
Il corpo come narrazione del male
In criminologia, il corpo della vittima viene analizzato come un testo: ogni ferita, ogni mancanza, ogni postura racconta qualcosa dell’autore. Non è solo anatomia, è semiotica del delitto.
Jack lo Squartatore usava il corpo per inviare prove di superiorità, dominare l’investigazione, dimostrare controllo.
Ed Gein, al contrario, trasformava il corpo in materia rituale, parte di un mondo interiore deformato da ossessione materna, religione distorta e isolamento sociale.
In entrambi i casi, il cadavere non è più un corpo: diventa un messaggio.
Jack: la chirurgia improvvisata del terrore
Londra, 1888. Nebbia, vicoli, lampioni tremolanti. Jack lo Squartatore non uccideva soltanto: incideva, apriva, esponeva. La disposizione dei corpi, la precisione delle mutilazioni, la scelta delle aree anatomiche… tutto suggeriva un rituale di potere.
Il messaggio era chiaro: “Io vedo. Io decido. Io sfido.”
La narrativa gotica dell’epoca, da Stevenson a Wilde, non era distante: raccontava lo stesso conflitto tra identità e ombra, tra normalità e pulsione inconfessabile.
Gein: quando il corpo diventa oggetto
Salto di mezzo secolo e migliaia di chilometri: Wisconsin, 1957. La casa di Ed Gein non è una scena del crimine, ma un museo dell’ossessione. Qui il corpo smette di essere messaggio per diventare strumento: maschere, cinture, coppe, rivestimenti, reliquie.
Non c’è sfida alla polizia. Non c’è messinscena pubblica. C’è un uomo che usa il corpo come materia prima per ricostruire la figura della madre e placare una solitudine che ha divorato la sua mente.
In criminologia, questo passaggio è decisivo: Jack comunica col mondo; Gein comunica con se stesso.
Due epoche, un’unica domanda: perché?
Narrativa e criminologia si incontrano proprio qui: nella necessità di capire cosa spinge un essere umano a trasformare un altro essere umano in un testo, un trofeo o un simbolo.
Per Jack, il corpo era un palco. Per Gein, un altare. Per entrambi, però, il corpo delle vittime è diventato l’unico linguaggio possibile per esprimere ciò che non poteva essere detto.
E forse per questo, ancora oggi, queste storie ci inquietano più di qualsiasi romanzo: perché mostrano un male che non parla… scrive.
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Quando si pensa al volto del male nei film horror più iconici, spesso non si sa che dietro quei mostri c’è un nome reale: Ed Gein.
La sua storia — fatta di solitudine, repressione sessuale, culto ossessivo della madre e macabri rituali — ha ispirato alcuni dei personaggi più disturbanti della storia del cinema, trasformandolo in un archetipo del male nascosto dietro volti ordinari.
Norman Bates (Psycho, 1960)
Il primo e più diretto esempio è Norman Bates, protagonista del capolavoro di Alfred Hitchcock. Come Gein, vive isolato con il cadavere imbalsamato della madre, con cui mantiene un dialogo interiore distorto. La “casa su tre livelli” di Psycho richiama la stratificazione mentale: inconscio, conscio e repressione, proprio come nella mente di Ed.
Leatherface (Non aprite quella porta, 1974)
Il personaggio di Leatherface è ispirato all’abitudine di Gein di utilizzare pelle umana per creare maschere e indumenti. Il film, pur spingendosi verso l’eccesso splatter, mantiene l’essenza disturbante di un uomo che ha trasformato il corpo umano in un materiale da lavoro. Il silenzio, la famiglia degenerata e l’ambiente rurale riportano alla Wisconsin di Gein.
Buffalo Bill (Il silenzio degli innocenti, 1991)
In questo caso l’ispirazione è più simbolica. Buffalo Bill scuoia le sue vittime per creare una “seconda pelle” e diventare ciò che desidera. Il tema dell’identità, della pelle come confine tra essere e apparire, ha un legame diretto con Gein e il suo desiderio inconscio di diventare la madre perduta.
L’influenza oltre l’horror
Ed Gein ha lasciato un’impronta anche nella cultura pop, nei fumetti, nei romanzi e persino nei videogiochi. La sua storia ha superato i confini del true crime, diventando un simbolo della paura che nasce dentro casa, in silenzio, senza clamore.
Non era un serial killer classico. Ha ucciso poco, ma ha disturbato profondamente.
E Hollywood ha saputo cogliere quell’abisso e trasformarlo in mito.
Nel mio saggionarrativoIl Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana, esploro proprio questi legami tra realtà e rappresentazione, tra cronaca e immaginario. Un viaggio disturbante, ma necessario, per comprendere da dove nascono davvero i mostri.
“Non era pazzo. O almeno non nel modo in cui lo intendiamo.” Questa è una delle frasi più inquietanti pronunciate da uno psichiatra chiamato a valutare Ed Gein, l’uomo che, con la sua follia rurale e il culto morboso per la madre, ha ispirato decine di figure dell’orrore moderno: Norman Bates, Leatherface, Buffalo Bill.
Ma al di là del sensazionalismo, chi era davvero Ed Gein?
Dissociazione e rituale
Secondo i referti psichiatrici redatti dopo il suo arresto nel 1957, Gein soffriva di schizofrenia paranoide con forti componenti dissociative. Ma ciò che colpì gli analisti non fu solo la patologia, bensì la struttura rituale che permeava ogni sua azione:
la scelta delle vittime
l’uso dei corpi per creare “oggetti” (maschere, abiti, arredi)
la conservazione ossessiva dei resti
Tutto in lui obbediva a una logica simbolica disturbata, non a un impulso caotico. Ed Gein non uccideva per godimento. Uccideva per ricostruire un altare alla madre. Perché lei tornasse.
La madre come centro del cosmo
Augusta Gein era tutto per lui: figura religiosa fanatica, ossessiva, manipolatrice. Le sue parole — “tutte le donne sono peccatrici” — si scolpirono nella mente del figlio come un dogma ineluttabile. Quando morì, Ed Gein restò solo con Dio e con i cadaveri.
Nel tempo, cominciò a ricostruire un mondo materno fatto di pelle, ossa, abiti ricuciti. Voleva rivestirsi della madre, diventare la madre. In questo senso, il delitto per Gein non era fine a sé stesso, ma un mezzo per colmare un’assenza cosmica, una ferita metafisica.
Il significato profondo dell’orrore
Gein non è un semplice assassino. È un simbolo. Un archetipo dell’uomo che, di fronte alla perdita, cerca di manipolare la morte attraverso riti, oggetti e simboli. Un uomo che, privato di identità, usa il corpo dell’altro per tentare di ritrovare sé stesso.
Nella sua follia, non c’è disordine. C’è struttura, c’è culto. Un culto privato, oscuro, in cui la madre diventa divinità, e l’omicidio un’offerta sacra.
Vuoi approfondire?
Queste e altre riflessioni si trovano all’interno del mio Libro: “Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”, disponibile qui:
Non basta un crimine efferato per creare un mostro. A volte, il mostro non nasce: si costruisce nel silenzio di una casa isolata, tra parole sussurrate all’orecchio da una madre possessiva e il lento disfacimento della realtà.
Questa è la premessa inquietante da cui prende vita il viaggio psicologico e narrativo de Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana. Ma al di là del caso Gein, resta aperta una domanda che continua ad affascinare e inquietare lettori, criminologi e narratori: come si arriva a compiere l’orrore?
Il mostro non nasce: si plasma
Ogni serial killer ha una storia. Ma non tutte le storie portano al sangue.
Nel caso di Ed Gein, l’origine del male sembra annidarsi in un ambiente familiare chiuso, claustrofobico, dove la religione veniva usata come strumento di colpa e controllo, e dove il mondo esterno era considerato impuro. È l’infanzia il terreno fertile in cui attecchisce la radice del delirio: quando il legame con la madre diventa assoluto, totalizzante, insostituibile.
Il bambino Ed cresce in un mondo dove tutto è peccato, tranne la devozione a colei che ha il potere di benedire o maledire. Un mondo in cui le emozioni vengono represse, la sessualità demonizzata, la libertà annientata.
Isolamento e rimozione
La fattoria dei Gein non è solo un luogo fisico, ma una prigione mentale. Il progressivo isolamento da tutto e da tutti genera una frattura interiore. La realtà diventa elastica, sostituibile. La morte non è più un limite, ma un’interruzione temporanea del legame.
È così che, nel tempo, la mente può arrivare a colmare l’assenza con il rituale, il delirio, la ricostruzione dell’amato perduto. Non per sadismo, non per crudeltà, ma per necessità simbolica.
Il delirio come unico linguaggio
Ciò che per l’osservatore è follia, per chi la vive può diventare coerenza. Nel caso di Gein, il culto della madre si trasforma in azione concreta: non per uccidere, ma per “riportare ordine” nella propria visione distorta del mondo.
Questo meccanismo di rielaborazione patologica della perdita, unito a disturbi psicotici gravi e all’assenza di qualsiasi rete sociale o affettiva, porta alla costruzione del “mostro” che la cronaca ha reso famoso. Ma il vero orrore non è nel sangue: è nella logica contorta ma perfetta che guida la sua mente.
Una domanda senza risposta
Alla fine, resta l’interrogativo che accompagna ogni lettura di true crime: può succedere ancora? E può succedere ovunque? Finché esisteranno solitudini, silenzi e infanzie negate, forse sì.
Il Culto della Madre non offre risposte, ma accompagna il lettore in un viaggio disturbante dove l’orrore non è solo nel crimine… ma nel contesto che lo ha generato.