Quando l’amore diventa ossessione


Madri, figli e controllo nella mente criminale

C’è un confine sottile, fragile come un filo di seta, tra amore e dominio. Lo si attraversa senza accorgersene, spesso con le migliori intenzioni. È un confine che ho imparato a conoscere studiando la storia di Ed Gein, e che continuo a esplorare nei miei romanzi gotici, dove la devozione si trasforma in prigione e la fede si piega all’ossessione.

Nel caso di Gein, tutto nasce in una casa isolata nel Wisconsin, dove una madre impone al figlio una religione privata, fatta di colpa e castigo. Gli insegna a temere il mondo, a diffidare delle donne, a rifugiarsi solo in lei. Quando quella figura muore, Ed resta solo con i suoi fantasmi… e con l’impossibilità di lasciarla andare.
La madre diventa la sua voce interiore, il suo idolo e la sua condanna.
L’amore si trasforma in idolatria necrotica.

Non è solo follia, è un meccanismo umano e universale: la paura di perdere il controllo sull’unica cosa che ci fa sentire vivi.
Ecco perché storie come questa ci attraggono tanto: perché parlano, in fondo, della nostra fragilità più antica.
Il bisogno di essere amati.

Nei miei romanzi, da Le Ombre di Whitechapel a Il Vangelo delle Ombre, la maternità, la fede e la protezione assumono spesso forme oscure.
Dietro la luce dell’amore si nasconde sempre un’ombra che pretende obbedienza.
E a volte, per liberarsi da essa, serve un atto di distruzione.
È la stessa dinamica che muove Gein, ma anche molti dei miei personaggi: uomini e donne prigionieri di una voce che li chiama “figlio mio”, e che non permette loro di esistere da soli.

Perché l’amore, quando diventa possesso, non salva più. Divora.


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Dal Saggio al Romanzo: due lingue, una sola voce


Quando ho iniziato a scrivere Il Culto della Madre oltre dieci anni fa, non avrei mai immaginato che sarebbe diventato il mio primo saggio pubblicato. È nato da un’urgenza di verità, da un fascino oscuro che mi ha accompagnato per anni, anche mentre iniziavo a muovere i primi passi nel mondo della narrativa gotica.

Sì, perché il mio primo romanzo l’ho scritto circa 5 anni fa, e da allora non mi sono più fermato. Ma quel saggio, iniziato molto prima, mi ha sempre seguito come un’ombra. E oggi capisco che questi due percorsi — il saggio e il romanzo — non sono così lontani come sembrano.


Il romanzo: evocare

Nella narrativa, il mio compito è evocare. Raccontare senza spiegare tutto, lasciare zone d’ombra, costruire un’atmosfera che dialoga con il lettore a livello emotivo. Un dettaglio descritto al momento giusto può valere più di mille analisi. Posso usare simboli, metafore, sogni, visioni. L’ambiguità è un alleato.

Il lettore, in fondo, è un complice. Legge perché vuole immergersi, perché vuole sentire il respiro di Edgar Blackwood nelle nebbie di Whitechapel o nelle cripte dimenticate di Hollowgate. Non devo convincerlo di nulla, devo solo farlo sentire.


Il saggio: dimostrare

Nel saggio, tutto cambia. Devo essere lucido, preciso, responsabile. Non si tratta più di evocare, ma di dimostrare. Le parole devono avere un peso documentale. Ogni affermazione dev’essere sostenuta da fonti, testimonianze, prove. Non posso lasciarmi andare alla suggestione, ma nemmeno scrivere un freddo resoconto tecnico. Devo raccontare una storia vera… senza tradirla, e senza ingannare il lettore.

È come camminare in equilibrio tra etica e stile.
Tra cronaca e riflessione.
Tra rispetto e narrazione.


Un horror vero fa più paura

Paradossalmente, scrivere un saggio come Il Culto della Madre è stato più disturbante che descrivere rituali occulti o possessioni letterarie. Perché stavolta, tutto ciò che raccontavo è accaduto davvero.

Non c’è metafora. Non c’è filtro gotico.
C’è solo un uomo reale, fragile, disturbato, che ha vissuto con i cadaveri, che ha trasformato la follia in rituale, che ha fatto della madre il proprio culto personale.

Eppure, anche in quel delirio, ho sentito riecheggiare qualcosa dei miei romanzi: lo sguardo interiore, l’ombra come simbolo, il desiderio (fallito) di controllare la morte. Forse è proprio lì il punto di contatto tra il mio stile gotico e il saggio: la necessità di guardare il Male negli occhi, anche quando non possiamo spiegarlo.


Due linguaggi, un’unica voce

Alla fine, scrivere narrativa e scrivere saggistica non sono due mondi separati. Sono due strumenti diversi per raccontare ciò che ci ossessiona. Con uno costruisco mondi. Con l’altro, li decifro.

Ma in entrambi i casi, ciò che muove la mia scrittura è sempre la stessa cosa:
la volontà di scavare nell’oscurità dell’essere umano, senza cercare risposte semplici. Solo domande vere.


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Dietro il Mito di Ed Gein: L’uomo oltre il mostro


Quando si sente il nome Ed Gein, l’immaginario collettivo corre subito a film horror, maschere di pelle umana, case degli orrori. Ma quanto c’è di vero dietro la leggenda? E soprattutto: chi era davvero l’uomo dietro il mito?
Per scrivere “Il Culto della Madre”, ho deciso di spogliarlo dai sensazionalismi, dalle fantasie morbose e dai filtri cinematografici. Quello che emerge è un individuo fragile, disturbato, vittima a sua volta di una madre manipolatrice e di un ambiente isolato e patologico.

Una figura lontana dal killer cinematografico

Contrariamente a quanto si pensa, Ed Gein non fu mai un serial killer nel senso tradizionale. Venne condannato per due omicidi accertati, ma il vero orrore fu ciò che si scoprì nella sua abitazione a Plainfield nel 1957: corpi dissepolti, resti umani manipolati, oggetti ricavati dalla pelle delle vittime.
Gein non uccideva per piacere o per sadismo. Le sue azioni erano l’espressione tragica di una psicosi profonda, di un disturbo dell’identità sessuale, e soprattutto, del trauma mai risolto legato alla madre Augusta.

Un contesto di abbandono e silenzi

Il piccolo Ed crebbe in una fattoria isolata, in Wisconsin, con una madre fanatica religiosa, che lo convinceva che le donne (tutte tranne lei) erano creature malvagie, e che il peccato si annidava ovunque. Il padre, alcolizzato e assente, morì quando Ed era adolescente. Poco dopo, perse anche il fratello.
Quando Augusta morì, il mondo di Gein collassò. Da quel momento, iniziò la deriva mentale: la casa venne trasformata in un tempio macabro dedicato alla madre, Ed conservava i suoi oggetti, chiudeva le stanze come reliquie, e si rifugiava in fantasie di resurrezione.

L’uomo che non voleva fare male… ma l’ha fatto

Molti lo descrissero come mite, gentile, quasi infantile. Non era il mostro urlante di Leatherface. Era uno spettro umano consumato dal delirio, dalla solitudine e da una sessualità repressa e contorta.
Questo non lo giustifica. Ma lo umanizza, e ci pone una domanda difficile: Cosa genera davvero l’orrore? Una mente malata? Una società che non vede? O una combinazione di entrambe?

Perché è importante raccontare la verità

Scrivere di Ed Gein non è stato semplice. Ma era necessario. Il mio saggio nasce proprio da qui: dal desiderio di fare luce storica su un caso trasformato nel tempo in leggenda nera, restituendo alla realtà – cruda e disturbante – la sua complessità.
Raccontare Gein non significa assolvere, ma capire. E in fondo, è proprio la comprensione ciò che più spaventa: perché ci costringe a guardarci dentro.


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Perché ho scelto di scrivere un saggio su Ed Gein

Ci sono storie che non ti lasciano in pace. Non perché affascinino, ma perché inquietano, disturbano, costringono a guardare in fondo a ciò che normalmente scegliamo di ignorare.
Così, quasi dieci anni fa, iniziai a scrivere un saggio su Ed Gein, un uomo la cui mente contorta e tragica ha ispirato alcuni dei personaggi più iconici dell’orrore: Norman Bates in Psycho, Leatherface in Non aprite quella porta, Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti.

L’occasione nacque guardando American Horror Story – Asylum: il personaggio di Bloody Face, liberamente ispirato a Gein, mi spinse a chiedermi cosa ci fosse davvero dietro la maschera del mostro.
Da quel momento cominciai a raccogliere documenti, interviste, testimonianze e rapporti dell’epoca.
Non volevo scrivere un libro sensazionalistico, ma un saggio d’indagine psicologica, capace di separare la realtà dai miti che il cinema aveva creato intorno a lui.

Mi fermai a poche pagine dalla fine, travolto da lavoro e vita quotidiana. Ma quella storia rimase lì, sospesa.
Quando, qualche mese fa, Netflix ha annunciato la nuova serie su Ed Gein, ho sentito il bisogno di riprendere in mano quel manoscritto e completarlo.
Rileggendolo, ho ritrovato l’emozione e il disagio di allora, ma anche la consapevolezza che dietro la follia di Gein c’era un contesto umano, familiare, religioso e culturale che meritava di essere compreso, non solo giudicato.

Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana è il risultato di quel percorso.
Un lavoro che unisce ricerca, introspezione e analisi psicologica, per capire come un uomo comune possa trasformarsi nell’archetipo stesso del male.

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