Certe storie iniziano a scriversi molto prima che qualcuno decida di raccontarle. Le Lettere Nere sono una di quelle storie.
Chi ha seguito le indagini di Blackwood sa che ci sono misteri ancora più antichi degli omicidi, dei culti o delle reliquie. Voci che circolano negli archivi sigillati, negli appunti cancellati, nei margini di un passato che nessuno ha mai osato sfogliare del tutto. È lì che vivono le Lettere Nere.
Non sono ancora apparse, non ancora. Ma ci sono indizi, dettagli lasciati apposta come briciole in una casa stregata. Chi conosce bene il sottosuolo della saga, sa che qualcosa sta arrivando.
Le Lettere Nere non sono messaggi qualunque. Sono parole che aprono portali, scritte con mani tremanti e inchiostro che non sbiadisce. Ogni lettera è un sussurro che sopravvive al tempo, un codice che collega morti distanti, visioni frammentarie, e verità sepolte.
Nel Prequel della saga, per la prima volta scopriremo la loro origine. La loro prima vittima. E soprattutto, chi o cosa le scrive davvero.
Perché una cosa è certa: non sono semplici lettere. Sono avvertimenti. E non sempre chi li riceve è ancora in tempo per cambiare il proprio destino.
C’è un’immagine che resiste, più di ogni altra, quando si nomina il nome di Ed Gein: una casa solitaria, immersa nella neve, con le finestre cieche e una porta che sembra trattenere il respiro. Non è solo una casa. È un organismo chiuso, un ventre, un altare, un carcere. È la mappa mentale dell’uomo che l’ha abitata. E forse, in qualche modo oscuro, anche la nostra.
La casa come proiezione mentale
Situata nel Wisconsin, la fattoria di Ed Gein non era nulla di speciale all’apparenza: due piani di legno sbiadito, un piccolo portico, un granaio e un capanno degli attrezzi. Ma ciò che avveniva dentro – e ciò che venne scoperto nel 1957 – trasformò quel luogo in una leggenda dell’orrore.
Ogni stanza sembrava appartenere a un’identità diversa: c’era quella vissuta, disordinata, dove Ed mangiava e dormiva, circondato da resti umani, giornali, riviste, pezzi di bambole e oggetti impensabili. E poi c’era quella sigillata, la camera della madre, rimasta intatta per anni, come se il tempo dovesse fermarsi alla sua morte. Polvere, tessuti ingialliti, odore di chiuso e preghiere mai ascoltate.
La conservazione come culto
Quello che Ed fece nel tempo fu ricostruire la madre attraverso oggetti e parti di corpo: una sedia foderata di pelle umana, maschere ricavate da volti di donne defunte, cinture fatte di capezzoli, un grembiule di pelle femminile.
Non c’era solo necrofilia o squilibrio. C’era un disegno simbolico, per quanto aberrante: riportare Augusta in vita, possederla, ricrearla, dominare la sua figura sacra e terrificante.
La casa diventò un tempio profanato, un luogo dove sacro e osceno si confondevano, dove la religione veniva piegata alle pulsioni più antiche.
Ogni stanza un confine
Visitare – anche solo con l’immaginazione – quella casa significa attraversare i livelli di una mente fratturata. Ogni ambiente corrisponde a uno stadio della psicosi:
Il soggiorno: caotico, delirante, contaminato dal presente.
La cucina: luogo del nutrimento e dell’orrore fuso insieme (ricordiamo che Ed conservava organi umani in barattoli).
La camera della madre: santuario inaccessibile, memoria intoccabile.
Il seminterrato: zona sepolta, prelogica, sede del rituale.
Quando un luogo diventa simbolo
La fattoria di Ed Gein venne data alle fiamme nel 1958, probabilmente da un cittadino indignato. Eppure, la casa non è mai scomparsa: è diventata archetipo del Male domestico, è finita nel subconscio collettivo, citata da Psycho, Non aprite quella porta, Il silenzio degli innocenti.
Come se avessimo bisogno di un luogo fisico per collocare le nostre paure, per renderle tangibili.
E così, la casa non è più solo la casa di Ed. È la casa del Male possibile, quel Male che, forse, abita a una distanza più breve di quanto vorremmo credere.
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C’era una volta un uomo silenzioso, schivo, ai margini di una comunità già isolata nel cuore del Wisconsin. Il suo nome era Ed Gein, e la sua storia avrebbe cambiato per sempre non solo la cronaca nera americana, ma l’immaginario dell’orrore mondiale.
Un caso isolato, un’eco infinita
Nel novembre del 1957, la polizia di Plainfield entrò nella fattoria di Gein per cercare una donna scomparsa. Quello che trovarono fu oltre ogni possibilità di previsione: resti umani conservati in modi impensabili, maschere fatte con pelle umana, teschi trasformati in ciotole, organi conservati nei barattoli. E una realtà psicologica ben più disturbante.
La fattoria di Gein divenne subito il nuovo castello di Dracula, ma reale, tangibile, americana. Da quel momento, l’horror non sarebbe stato più lo stesso.
L’alba di un nuovo incubo: il cinema cambia volto
Non c’era bisogno di inventare mostri: Gein lo aveva dimostrato. Bastava guardare l’umanità più disturbata.
Tra gli anni ’60 e ’80, il caso Gein diventò ispirazione diretta per personaggi iconici:
Norman Bates in Psycho (Robert Bloch – 1959, Hitchcock – 1960): come Gein, vive con l’ombra ossessiva della madre morta, incapace di distinguere realtà e allucinazione.
Leatherface in Non aprite quella porta (Tobe Hooper – 1974): ispirato all’uso che Gein faceva dei corpi, compresa la maschera di pelle umana.
Buffalo Bill in Il silenzio degli innocenti (Jonathan Demme – 1991): come Gein, si veste con pelle umana, cercando una trasformazione identitaria estrema.
Da qui, il filone del serial killer disturbato dalla madre, immerso in un’ambientazione claustrofobica e rurale, diventò un sottogenere.
Oltre il sangue: l’eredità psichica
Quello che fa paura non è la violenza in sé. È la normalità che la precede. Ed Gein non era un assassino seriale nel senso classico: ha ucciso solo due persone (accertate), ma ha profanato decine di tombe per motivi che univano trauma, psicosi, superstizione e delirio religioso.
In lui, il confine tra malattia mentale e male assoluto si fa sottile. Ed è proprio qui che il cinema, la letteratura e il true crime hanno trovato la loro linfa: nella zona d’ombra tra follia e colpa, tra dolore e depravazione.
Gein oggi: tra verità e mito
Nel mio libro “Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”, ho cercato di fare chiarezza, andando oltre le leggende.
Ho studiato i documenti originali, le perizie, le interviste e i rapporti ufficiali. Quello che emerge non è un mostro, ma un uomo devastato, cresciuto sotto l’influenza totalizzante di una madre fanatica e in un isolamento patologico.
Ed è proprio questo che ci inquieta: non il sangue. Ma il fatto che potrebbe succedere ancora. In una casa qualunque, dietro una porta chiusa. Basta un seme malato in un terreno già fragile.
Conclusione
Ed Gein ha cambiato la cultura horror perché ci ha costretti a guardare il male senza maschere sovrannaturali, ma con la carne della realtà. Il suo caso ha generato miti, ma soprattutto ha creato una nuova paura: quella di ciò che si nasconde nell’ordinario.
Nel vasto panorama del crimine americano, pochi nomi risuonano con l’eco disturbante di Ed Gein. Ma se è vero che il “Macellaio di Plainfield” ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura pop e nella cronaca nera, è altrettanto vero che Gein stesso non fu un’isola. I suoi atti disumani si collocano in un contesto più ampio di influenze reciproche tra realtà e finzione, tra mitologia del male e carne viva.
Prima di Gein: chi ha ispirato l’orrore?
Alcuni studiosi e profiler criminali ritengono che Gein, pur vivendo in un isolamento rurale quasi totale, abbia assorbito suggestioni dell’immaginario gotico e della cronaca nera locale. I racconti orali, i pulp magazine dell’epoca e le leggende sul body-snatching (il furto di cadaveri) avevano già contribuito a creare un’atmosfera malata in certe aree del Midwest.
Tra le figure più vicine al suo immaginario, anche se molto anteriori, possiamo citare:
Albert Fish: il “Vampiro di Brooklyn”, che nei primi decenni del ‘900 compì orrendi crimini legati a pulsioni sessuali e religiose. Sebbene diverso per modalità, Fish creò un precedente nella costruzione di un mostro che usava la propria “fede” come giustificazione per atti indicibili.
H.H. Holmes: il costruttore del famigerato “Castello degli Orrori” a Chicago, che nel 1893 trasformò un albergo in un labirinto mortale. La struttura mentale deviata e manipolativa di Holmes può essere vista come un lontano predecessore di certi aspetti del controllo materno subito da Gein.
Dopo Gein: il mostro genera altri mostri
Ma è soprattutto dopo Gein che il suo nome diventa seme oscuro per nuove mostruosità. I suoi crimini, come narrato nel Libro Il Culto della Madre, hanno ispirato decine di personaggi letterari e cinematografici, ma anche – e tristemente – altri assassini reali.
Alcuni casi emblematici:
Jerry Brudos: collezionista di scarpe femminili e feticista necrofilo, attivo negli anni ’60, mostrava una forte ossessione per il corpo femminile “conservato”, in modalità non troppo distanti da Gein.
Ted Bundy: sebbene molto diverso per intelligenza e modus operandi, è interessante notare come Bundy abbia letto avidamente di Gein durante i suoi anni di formazione criminale. Alcuni suoi comportamenti con i cadaveri sembrano echeggiare una fascinazione necrofila, anche se più “raffinata”.
Gary Heidnik: sequestrava donne nel seminterrato, costruendo una realtà parallela fatta di controllo, punizione e ossessione. La sua casa, come quella di Gein, divenne un santuario del delirio.
Quando il male diventa specchio
La figura di Ed Gein è, in un certo senso, uno specchio oscuro in cui molti altri criminali hanno proiettato le proprie fantasie. Un nome che è diventato quasi un archetipo, il “prototipo” del serial killer prima ancora che questa figura venisse definita scientificamente.
Nel mio Libro, Il Culto della Madre, ho analizzato in dettaglio come Gein sia stato ispirato dalla madre, dalla Bibbia, dalla psicosi… ma anche da un tessuto culturale e narrativo che non è mai innocente.
E forse è proprio questo il punto più inquietante: la linea tra l’invenzione e la realtà è molto più sottile di quanto vogliamo credere.
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La sofferenza non è un espediente narrativo. Non è nemmeno una punizione. È il prezzo da pagare per essere reali.
Nella mia saga L’Archivio Blackwood, ogni personaggio – che sia un detective, un sacerdote, una bambina o un assassino – attraversa il proprio inferno. Non perché io, come autore, voglia condannarli. Ma perché non credo nella salvezza senza l’ombra della caduta.
Declan O’Connor, ad esempio, non è morto per stupire il lettore. È morto perché quella era l’unica strada coerente con la sua storia, con la sua lealtà e con ciò che la sua presenza significava per Blackwood. E Blackwood stesso non è l’eroe invincibile. È il risultato di ciò che ha perso.
La sofferenza come verità
Viviamo in un’epoca in cui spesso si scrivono personaggi “giusti”, “forti”, “risolti”. Ma io credo che il dolore sia l’unico elemento narrativo in grado di dire la verità. Quando Elias Monroe sbaglia, quando Padre Quinn vacilla, quando la bambina de Il Vangelo delle Ombre pronuncia parole che non le appartengono… lì, in quei momenti, smettono di essere personaggi. Diventano persone.
La sofferenza li umanizza. Li spezza e li scolpisce. E se non soffrissero, sarebbero solo funzioni nella trama. Non anime.
Il dolore ha un prezzo. Anche per chi legge.
Chi legge i miei libri lo sa: nessuno è al sicuro. Non perché io voglia scioccare. Ma perché la vita vera non protegge chi amiamo, e quindi nemmeno la narrativa dovrebbe farlo, se vuole restare sincera. C’è chi ha pianto per la fine di un personaggio. Chi mi ha scritto di aver rivisto sé stesso in una crisi di fede. Chi ha sentito che, forse, anche lui stava lottando contro un “Viaggiatore”.
La sofferenza dei miei personaggi è un patto. Io la scrivo, tu la attraversi. Insieme ne usciamo un po’ più sporchi. Ma anche un po’ più vivi.
Soffrono. Ma non smettono di cercare la luce.
Questa è l’unica cosa che non tolgo mai. Una candela, una voce, un simbolo inciso nel legno. Un gesto piccolo, inutile forse. Ma umano.
Perché se è vero che i miei personaggi soffrono… è altrettanto vero che nessuno di loro accetta di spegnersi completamente.
Ed è in quella resistenza silenziosa che, forse, si trova l’unico spiraglio di salvezza. Per loro. E per noi che li leggiamo.
Ci sono oggetti che nascono innocenti, creati per difendere, guarire o pregare. Poi, un giorno, finiscono nelle mani sbagliate e smettono di appartenere al mondo dei vivi.
Le croci, le reliquie, gli amuleti e gli strumenti di tortura non sono soltanto elementi del passato o simboli religiosi: nella storia dell’umanità hanno rappresentato la soglia tra fede e dominio, tra salvezza e dannazione. E nella narrativa gotica, quella soglia diventa spesso una trappola.
Croci che non proteggono
Nella saga de L’Archivio Blackwood, le croci sono un segno ambiguo: pendono dai colli dei fedeli e dei peccatori allo stesso modo. PadreQuinn, nel Vangelo delle Ombre, impugna la croce come un’arma, ma ogni volta che la solleva lo fa con paura, come se temesse che Dio non rispondesse più. Perché nel mondo di Blackwood non è la croce a proteggere l’uomo: è l’uomo a dare senso alla croce. E quando la fede si spegne, resta solo il metallo freddo, incapace di distinguere il bene dal male.
Reliquie e inganni
La storia reale non è diversa. Dal Medioevo fino all’età vittoriana, l’Europa fu invasa da reliquie, frammenti di ossa, schegge di croci, lacrime imbalsamate di santi. Ogni reliquia era una promessa, un modo per vendere redenzione a chi non aveva più fede. Nelle mani giuste, una reliquia è un simbolo di speranza; in quelle sbagliate, diventa uno strumento di potere. Ed è proprio questo il nucleo oscuro di molte delle tue opere: il male non risiede nell’oggetto, ma in chi lo desidera.
Amuleti e superstizione
Nel XIX secolo, a Londra, non era raro trovare amuleti cuciti nei vestiti o nascosti nelle tasche dei defunti. Servivano a proteggere l’anima durante il viaggio nell’aldilà, ma spesso erano oggetti intrisi di paura più che di fede. In Il Carnefice del Silenzio, alcuni di questi amuleti riemergono dagli archivi di Scotland Yard, sporchi di sangue e di segreti: simboli cabalistici tracciati sul rame, occhi d’animale, piccoli ossi umani avvolti in nastri neri. Ognuno racconta una storia, ognuno è il frammento di una disperazione.
Strumenti di tortura e volontà del potere
Dagli inquisitori ai medici alienisti, l’uomo ha sempre usato il dolore come metodo per conoscere, controllare, redimere. Gli strumenti di tortura, nella storia come nella narrativa, sono la prova che la curiosità può diventare crudeltà quando si veste da scienza.
Perché a volte il male non vuole uccidere, vuole capire.
Il vero potere
Ogni oggetto maledetto nasce da un gesto umano: Ecco perché nell’universo di Blackwood — come nella realtà — il male non è mai soprannaturale. È un’eco di ciò che abbiamo costruito noi.
Gli oggetti del male non ci scelgono. Siamo noi a prenderli in mano, a dargli voce, e a credere che possano salvarci.
Ci sono crimini che non si esauriscono nei fatti, ma continuano a vivere nelle domande che lasciano dietro di sé. La figura del “mostro” affascina e spaventa da sempre, perché non rappresenta solo la devianza, ma anche il riflesso più oscuro dell’animo umano. Dietro l’orrore di un delitto c’è quasi sempre una mente che si è spezzata, un’identità che ha perso il confine tra realtà e delirio. È in quel momento che l’uomo oltrepassa il limite, trasformandosi in ciò che la società non riesce più a comprendere.
Molti dei casi più inquietanti della storia — da Jack lo Squartatore a Ed Gein — mostrano un filo invisibile che lega la violenza al bisogno di controllo, al trauma, alla solitudine e, spesso, a un’ossessione profonda verso la figura materna o verso il divino. Ed Gein, in particolare, rappresenta una frattura simbolica: l’uomo che ha trasformato la propria casa in un mausoleo, confondendo amore, colpa e fede. Dietro la cronaca, si nasconde una mente fragile e disorientata, incapace di distinguere peccato e purificazione.
Studiare il male non significa giustificarlo, ma comprenderlo. Ogni omicidio rituale, ogni gesto apparentemente inspiegabile, è il sintomo di un vuoto che si riempie di follia. E solo guardando dentro quel vuoto possiamo capire quanto sottile sia la linea che separa l’essere umano dal suo abisso.
Il mio saggio Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana nasce proprio da questa domanda: cosa spinge un uomo a credere che la morte possa essere un atto di redenzione?
Ho deciso di raccontare il dietro le quinte di questo saggio in una forma un po’ diversa dal solito: un’intervista immaginaria, ma realistica, per condividere meglio le motivazioni, le scelte e il percorso che mi hanno portato a scrivere Il Culto della Madre. Un modo diretto e sincero per chi mi segue dall’inizio – o mi scopre solo ora – per entrare con me nelle radici di un progetto nato dieci anni fa, e solo oggi finalmente compiuto.
Intervistatore – Claudio, sei conosciuto soprattutto per la tua narrativa gotica, per la saga dell’Archivio Blackwood. Ma stavolta hai sorpreso tutti con un saggio disturbante e affascinante. Perché Ed Gein?
Claudio Bertolotti – Perché incarna perfettamente il confine tra realtà e incubo. Chi mi segue sa che nei miei romanzi mi muovo sempre tra crimine, occulto e psicologia deviata. Ma Ed Gein non è una creazione letteraria. È esistito. E quello che ha fatto – o meglio, quello che ha rappresentato – va ben oltre l’horror. È stato l’archetipo del mostro moderno, la matrice nascosta dietro personaggi come Norman Bates, Leatherface, Hannibal Lecter. Volevo togliergli la maschera da cinema e riportarlo alla sua vera natura: un uomo solo, spezzato, vittima e carnefice al tempo stesso.
Intervistatore – Quando hai iniziato a lavorare a questo saggio?
Claudio Bertolotti – Dieci anni fa. Era il 2013, e stavo guardando American Horror Story: Asylum. Il personaggio di Bloody Face mi colpì come un pugno: inquietante, magnetico, terribilmente plausibile. Quando scoprii che era ispirato a Ed Gein, iniziai a fare ricerche. E da lì si aprì un mondo. Ho letto verbali processuali, articoli d’epoca, studi di criminologia, ma anche testi meno convenzionali. È stato un lavoro lungo, frammentato, che si è intrecciato con la mia scrittura narrativa. Ma non l’ho mai abbandonato.
Intervistatore – Cosa ti ha spinto a pubblicarlo proprio adesso?
Claudio Bertolotti – Era il momento giusto. Dopo aver pubblicato tre romanzi gotici – Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio – sentivo il bisogno di dire qualcosa di reale, di storico, ma che fosse comunque in linea con il mio mondo creativo. Ed Gein non è solo un fatto di cronaca. È una lente deformante sul concetto di madre, di fede, di identità. Il titolo, Il Culto della Madre, non è casuale. È un viaggio dentro una mente spezzata, ma anche dentro una cultura che ha prodotto quel tipo di mostro. E che forse continua a produrli.
Intervistatore – A chi è rivolto questo saggio?
Claudio Bertolotti – A chi ama il true crime, certo. Ma anche a chi cerca un approccio più profondo. Non troverete dettagli morbosi o macabri gratuiti: ho voluto scavare nella psicologia, nell’infanzia, nella religione e nel contesto culturale. Ho scritto questo saggio come se fosse un’indagine. Ma anche come una confessione. Perché alla fine, ogni autore scrive per capire qualcosa di sé. E in Ed Gein, per quanto paradossale possa sembrare, ho ritrovato il lato più oscuro del bisogno di appartenere, di amare, di non essere soli.
Intervistatore – Progetti futuri in ambito saggistico?
Claudio Bertolotti – Sì. Questo è solo l’inizio. Dopo aver rotto il silenzio con Il Culto della Madre, sto già lavorando a nuovi saggi sul rapporto tra crimine, mitologia e religione. Ma continuerò anche con la narrativa gotica. Le due cose non sono in contrasto, anzi: si alimentano a vicenda.
Intervistatore – Una frase per chi sta decidendo se leggere o meno il tuo saggio?
Claudio Bertolotti – Se pensi di sapere tutto su Ed Gein, ti sbagli. Se credi che sia solo un mostro, ti sbagli ancora di più. Solo entrando nella sua mente, capirai perché il vero orrore non è ciò che ha fatto… ma ciò che lo ha creato.
C’è un confine sottile, fragile come un filo di seta, tra amore e dominio. Lo si attraversa senza accorgersene, spesso con le migliori intenzioni. È un confine che ho imparato a conoscere studiando la storia di Ed Gein, e che continuo a esplorare nei miei romanzi gotici, dove la devozione si trasforma in prigione e la fede si piega all’ossessione.
Nel caso di Gein, tutto nasce in una casa isolata nel Wisconsin, dove una madre impone al figlio una religione privata, fatta di colpa e castigo. Gli insegna a temere il mondo, a diffidare delle donne, a rifugiarsi solo in lei. Quando quella figura muore, Ed resta solo con i suoi fantasmi… e con l’impossibilità di lasciarla andare. La madre diventa la sua voce interiore, il suo idolo e la sua condanna. L’amore si trasforma in idolatria necrotica.
Non è solo follia, è un meccanismo umano e universale: la paura di perdere il controllo sull’unica cosa che ci fa sentire vivi. Ecco perché storie come questa ci attraggono tanto: perché parlano, in fondo, della nostra fragilità più antica. Il bisogno di essere amati.
Nei miei romanzi, da Le Ombre di Whitechapel a Il Vangelo delle Ombre, la maternità, la fede e la protezione assumono spesso forme oscure. Dietro la luce dell’amore si nasconde sempre un’ombra che pretende obbedienza. E a volte, per liberarsi da essa, serve un atto di distruzione. È la stessa dinamica che muove Gein, ma anche molti dei miei personaggi: uomini e donne prigionieri di una voce che li chiama “figlio mio”, e che non permette loro di esistere da soli.
Perché l’amore, quando diventa possesso, non salva più. Divora.
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Quando ho iniziato a scrivere Il Culto della Madre oltre dieci anni fa, non avrei mai immaginato che sarebbe diventato il mio primo saggio pubblicato. È nato da un’urgenza di verità, da un fascino oscuro che mi ha accompagnato per anni, anche mentre iniziavo a muovere i primi passi nel mondo della narrativa gotica.
Sì, perché il mio primo romanzo l’ho scritto circa 5 anni fa, e da allora non mi sono più fermato. Ma quel saggio, iniziato molto prima, mi ha sempre seguito come un’ombra. E oggi capisco che questi due percorsi — il saggio e il romanzo — non sono così lontani come sembrano.
Il romanzo: evocare
Nella narrativa, il mio compito è evocare. Raccontare senza spiegare tutto, lasciare zone d’ombra, costruire un’atmosfera che dialoga con il lettore a livello emotivo. Un dettaglio descritto al momento giusto può valere più di mille analisi. Posso usare simboli, metafore, sogni, visioni. L’ambiguità è un alleato.
Il lettore, in fondo, è un complice. Legge perché vuole immergersi, perché vuole sentire il respiro di Edgar Blackwood nelle nebbie di Whitechapel o nelle cripte dimenticate di Hollowgate. Non devo convincerlo di nulla, devo solo farlo sentire.
Il saggio: dimostrare
Nel saggio, tutto cambia. Devo essere lucido, preciso, responsabile. Non si tratta più di evocare, ma di dimostrare. Le parole devono avere un peso documentale. Ogni affermazione dev’essere sostenuta da fonti, testimonianze, prove. Non posso lasciarmi andare alla suggestione, ma nemmeno scrivere un freddo resoconto tecnico. Devo raccontare una storia vera… senza tradirla, e senza ingannare il lettore.
È come camminare in equilibrio tra etica e stile. Tra cronaca e riflessione. Tra rispetto e narrazione.
Un horror vero fa più paura
Paradossalmente, scrivere un saggio come Il Culto della Madre è stato più disturbante che descrivere rituali occulti o possessioni letterarie. Perché stavolta, tutto ciò che raccontavo è accaduto davvero.
Non c’è metafora. Non c’è filtro gotico. C’è solo un uomo reale, fragile, disturbato, che ha vissuto con i cadaveri, che ha trasformato la follia in rituale, che ha fatto della madre il proprio culto personale.
Eppure, anche in quel delirio, ho sentito riecheggiare qualcosa dei miei romanzi: lo sguardo interiore, l’ombra come simbolo, il desiderio (fallito) di controllare la morte. Forse è proprio lì il punto di contatto tra il mio stile gotico e il saggio: la necessità di guardare il Male negli occhi, anche quando non possiamo spiegarlo.
Due linguaggi, un’unica voce
Alla fine, scrivere narrativa e scrivere saggistica non sono due mondi separati. Sono due strumenti diversi per raccontare ciò che ci ossessiona. Con uno costruisco mondi. Con l’altro, li decifro.
Ma in entrambi i casi, ciò che muove la mia scrittura è sempre la stessa cosa: la volontà di scavare nell’oscurità dell’essere umano, senza cercare risposte semplici. Solo domande vere.
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