L’uomo che cammina tra le reliquie – Mallory e il peso del silenzio

Chi è Cornelius Mallory?

Non un eroe, non un antagonista. Eppure la sua sola presenza basta a far cambiare temperatura alla scena. Quando compare, il silenzio si fa più denso, le parole si pesano una ad una, come se l’aria stessa aspettasse il suo giudizio. L’Arcidiacono Cornelius Mallory è una delle figure più affilate e ambigue del nuovo romanzo Il Carnefice del Silenzio. La sua autorità non ha bisogno di alzare la voce. La sua forza non viene dalla violenza, ma da qualcosa di più tagliente: la fede cieca nella disciplina ecclesiastica.

Appartiene a un’epoca che non vuole più mostrarsi, eppure ne incarna ogni fibra. Cammina nei luoghi del sacro con passo misurato, non per cercare la verità, ma per contenere le crepe che si aprono nei muri della Chiesa.

Mallory non è lì per aiutare

Non è un investigatore, né un occultista. Non ha simpatia per le ombre, ma ha imparato a conviverci. In certi momenti, sembra quasi che conosca il pericolo meglio di quanto voglia ammettere. Quando parla di certi testi, di certi simboli, non lo fa con stupore, ma con rassegnazione.

C’è qualcosa in lui che sa più di quanto dice, ma che non dirà mai. Perché alcune verità – secondo lui – devono restare sepolte.

Il suo silenzio è una scelta

Nel mondo gotico e spietato dell’Archivio Blackwood, Mallory rappresenta la soglia oltre la quale il sacro si contamina. Non crede nei demoni, ma sa che il Male può indossare abiti liturgici. E allora interviene. Non per fermarlo, ma per evitare che se ne parli.

È un guardiano, ma delle apparenze. Eppure, nel corso del romanzo, la sua presenza lascia intuire che, sotto la tonaca inamidata, c’è molto più che burocrazia e dogmi. C’è un conflitto antico, forse mai vinto.

❝ Un uomo fatto d’inchiostro e omertà ❞

Mallory è un personaggio che divide. Non è facile amarlo, ma è impossibile ignorarlo. Nei suoi sguardi, nella rigidità dei suoi gesti, c’è qualcosa di profondamente umano: la paura di ciò che non si può controllare. E forse anche un passato che preferirebbe dimenticare.

Nel suo modo di pronunciare certe parole – “misericordia“, “blasfemia“, “dovere” – si avverte una stanchezza millenaria, come se portasse sulle spalle il peso non della fede, ma della sua corruzione.

Perché Mallory è importante?

Perché rappresenta quella parte del mondo che preferisce tacere, anche davanti all’orrore. Che sceglie l’ordine, anche quando il prezzo è l’oblio. Nel microcosmo de Il Carnefice del Silenzio, ogni personaggio combatte con il proprio ruolo. Mallory combatte per mantenerlo intatto, anche quando il suono della verità comincia a farsi sentire.

E quando accade, lo scontro con Edgar Blackwood diventa inevitabile. Non un duello fisico. Ma una guerra tra modi opposti di intendere la giustizia.

Perché nel mondo dell’Archivio Blackwood, il silenzio non è mai solo assenza di voce. A volte è una scelta. A volte una prigione. E Mallory ne è il custode.

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Dietro le Ombre del Carnefice – La nascita di un romanzo disturbante

C’è sempre un momento in cui una storia chiama. A volte con un’immagine. Altre con un sussurro. Il Carnefice del Silenzio non ha fatto rumore. È arrivato in punta di piedi… ma ha lasciato un graffio profondo.

Questo libro è nato dal bisogno di esplorare un altro volto dell’oscurità, più personale, più interiore. Dopo le reliquie insanguinate di Whitechapel e i demoni invocati nel Vangelo delle Ombre, sapevo che il male doveva cambiare forma. Non più una minaccia esterna, ma qualcosa che si insinua nell’anima delle vittime. E dei carnefici.

Un’idea cucita con il silenzio

La prima immagine che ho visto nella mia mente è quella che in realtà ho tagliato dal Libro, nella scena della cripta:
una figura incatenato, con la bocca cucita, il corpo inciso da simboli rituali
Lì, ho capito che il nuovo nemico non sarebbe stato soltanto un uomo. Ma una fede deviata. Una punizione sacrificale. Un culto muto.

Da lì è partito tutto. Ho passato settimane a studiare le mutilazioni rituali, i simboli di costrizione, i significati del silenzio nella religione e nella psiche umana. Il silenzio non come assenza… ma come arma.

Ricerche e simboli

Molti mi hanno chiesto: “Ma da dove viene quella maschera cucita?”.
Non posso rivelare troppo. Ma posso dirvi che ogni simbolo inciso nel libro ha un’origine reale o plausibile.
Dalla croce patriarcale usata nei riti occulti alle forme di punizione usate in monasteri medievali per chi tradiva il voto del silenzio.
Tutto è stato studiato. Manipolato. Distorto.
Come fa il culto all’interno della storia.

La scrittura come discesa

Non è stato semplice scrivere questo libro.
Ci sono state scene disturbanti anche per me. Momenti in cui mi sono chiesto se fosse giusto spingermi così oltre.
Eppure era necessario.
Perché le tenebre non vanno addolcite. Vanno affrontate. Con rispetto. E precisione.

Ci ho messo settimane per chiudere alcuni capitoli. Altri sono venuti di getto. Ma ogni parola è stata scelta. Ogni silenzio è voluto.

Grazie a chi lo ha letto

Se siete arrivati fin qui, forse avete già sentito il respiro del Carnefice dietro di voi.
O forse siete solo all’inizio.
In entrambi i casi, grazie.
Grazie a chi ha letto, consigliato, condiviso. Grazie a chi ha lasciato parole sincere – anche critiche – perché un libro vive davvero solo quando qualcuno lo ascolta.

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I segni sulla carne del Carnefice – Quando un simbolo è una condanna

Il corpo come mappa. La carne come profezia.
Nel cuore del nuovo romanzo Il Carnefice del Silenzio, uno degli elementi più disturbanti è ciò che viene inciso sul corpo del prigioniero mascherato.

Non si tratta di croci, né di marchi riconoscibili. Ma di glifi, segni rituali, geometrie non umane.
La carne del Carnefice – così viene soprannominato – è tracciata come una reliquia impura, un frammento vivente di una fede corrotta.

Quando il corpo diventa simbolo

Durante una delle scene più claustrofobiche del romanzo, Blackwood e Monroe si trovano davanti a una figura incatenata, rannicchiata nell’ombra, con la bocca cucita e il volto mascherato.
Ma è sul petto che si manifesta la parte più inquietante:

La carne era incisa con glifi rituali, intrecciati in una geometria che non somigliava a nulla di cristiano. Il simbolo più grande, scolpito tra lo sterno e l’ombelico, sembrava una specie di sigillo rovesciato, con angoli acuminati e punte rivolte verso l’interno.”

Un linguaggio inciso.
Una condanna eterna, forse autoimposta, forse rituale.

Il culto silenzioso di Mallory

Chi ha inciso quei glifi? E soprattutto, perché?

Tutto porta all’Arcidiacono Mallory, figura oscura e manipolatrice, devoto a una fede deformata che affonda le radici in un culto segreto nato nel ventre degli orfanotrofi vittoriani.

Non siamo di fronte a semplici folli. Ma a un sistema teologico deviato, che trasforma i simboli sacri in matrici di dolore e controllo.

Il senso narrativo dei segni

In Il Carnefice del Silenzio, i simboli non sono mai estetica fine a sé stessa. Sono tracce lasciate da chi ha toccato l’abisso.
I glifi sul corpo del Carnefice non servono a evocare. Servono a contenere.
Sono gabbie, silenzi imposti, barriere contro una voce che non deve parlare mai più.

Un estratto dal romanzo:

Non parlava. Non si muoveva. Ma il simbolo inciso sul petto sembrava respirare. Come se la pelle lo rigettasse, o lo proteggesse da qualcosa.”

Se vuoi scoprire chi era davvero il Carnefice, e perché è stato condannato al silenzio rituale, il libro è disponibile in formato ebook:

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Declan non dimentica – Il racconto mai scritto (parte 1)

Un frammento perduto dai diari di Blackwood

Mi voltai. Non era una visione. Declan O’Connor era lì.”
Londra, 2 dicembre 1888 – ore 04:12
Bloomsbury, stanza 7

C’è una storia che non è mai stata scritta.
Una notte che non compare in nessun dossier ufficiale.
Un ritorno impossibile, mai raccontato.
Eppure… quella notte, qualcosa è accaduto davvero.

Il frammento

Il fuoco nel camino stava morendo.
Blackwood era seduto in silenzio. Il bicchiere di assenzio ancora intatto.
Una goccia di cera colò lenta dalla candela sul tavolo.
Fu allora che la porta si aprì.

Nessun rumore. Nessun vento. Nessun passo.

Solo la figura di un uomo in controluce.
Cappotto irlandese. Cappello consumato.
E una cicatrice sulla guancia sinistra.

Declan.

Blackwood si alzò di scatto, ma la voce si bloccò in gola.
Il bicchiere si rovesciò. Il liquore verde corse sul legno come sangue antico.

Non ti lascerò da solo, Edgar.»

Declan si avvicinò. Le pupille erano vuote, ma lucide. Vive e morte insieme.
Sul petto, cucito nel tessuto lacerato del cappotto, un simbolo. Quello che nessuno era mai riuscito a decifrare.
Una lingua dimenticata, forse.
Un avvertimento.

Blackwood lo guardò senza parlare.
Declan sorrise.
Poi sussurrò:

Non tutti i morti riposano.»

E svanì.

Annotazione a margine del diario (trovata nel 1903)

Quella notte mi svegliai senza sapere se avessi sognato.
Ma trovai un’impronta sul tappeto bagnata di pioggia.
E Declan non aveva mai sbagliato porta.”

Cosa c’è dietro questo frammento?

La scena fa parte di una serie di episodi alternativi o scarti narrativi che ho scritto per testare la voce di Declan dopo la sua morte.
Non erano previsti. Ma si sono imposti da soli.
Come se lui non volesse essere dimenticato.

La parte 2 sarà rilasciata prossimamente, con un dettaglio inquietante:
una lettera scritta da Declan dopo la sua morte, inviata con timbro autentico da Edimburgo il 4 dicembre 1888.

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L’odore del Tamigi all’alba

Appunti di Edgar Blackwood – Limehouse, dicembre 1888

Londra non dorme. Londra trattiene il fiato.»

C’è un’ora precisa, tra le quattro e le cinque del mattino, in cui la città si lascia osservare senza maschera.
La nebbia non è ancora piena. I canti dei mercati non sono ancora cominciati.
E il Tamigi… il Tamigi respira.

Scendo lungo Narrow Street con la giacca umida sulle spalle e l’odore di tabacco ancora nelle dita. Il mio alloggio non è lontano da qui: un edificio stretto e scolorito, incastrato tra due magazzini dismessi. Ma è in questi vicoli che trovo le risposte che gli archivi non osano contenere.

Il primo segnale è l’odore

Non c’è bisogno di vedere il fiume per sapere che ci sei vicino.
È l’odore a trovarmi per primo: ferro e alghe marce, cenere bagnata, muschio incrostato, urina vecchia e sangue. Ma anche qualcosa di più sottile… quasi dolce, come carne sfiancata, come un’offerta rimasta troppo tempo all’aperto.

Mi fermo al solito angolo, dove la ringhiera arrugginita affaccia sulle acque basse. E ascolto.

Non vedi mai tutto, qui. Non il fondo, non la riva opposta, non ciò che galleggia davvero. Ma senti.
Il fiume parla con voci che la terra ha dimenticato. Legni che cigolano. Corde spezzate. Lo scalpiccio delle barche dei pescatori che non ci sono. O forse sì.

E se stai abbastanza fermo…
qualcosa risponde.

Il Tamigi non perdona, ma custodisce

È lì che ho trovato il primo indizio, settimane fa.
Un guanto. Una ciocca. Una reliquia.
Non serve elencare cosa. Solo dire che era stato lasciato, non caduto.
Come se qualcuno volesse che lo trovassi.

Da allora torno qui ogni tre o quattro giorni, sempre all’alba, sempre solo.
Non prendo appunti. Non ne ho bisogno.
Perché ogni odore resta.
E con esso, il sospetto.

Un tempo pensavo che Londra nascondesse i suoi mostri tra i portoni e le ombre.
Ora so che li deposita qui, nel ventre del Tamigi.
E lui li accoglie, silenzioso. Come una madre. Come una tomba.

Non so cosa troverò domani.
Ma so che lo sentirò prima di vederlo.
Perché l’odore del Tamigi all’alba non mente mai.

E chi mente… non dovrebbe mai avvicinarsi a queste acque.

Hai una domanda per l’Archivista? Scrivila nei commenti del blog o sotto ai post ufficiali: ogni giovedì ne selezionerò tre per rispondere nella rubrica “Domande all’Archivista”.

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Perché Edgar Blackwood non cambia

Il peso del silenzio e la coerenza narrativa nella saga dell’Archivio

Non era questione di evoluzione. Era questione di resistere.”
– Annotazione non datata ritrovata nei fascicoli di Limehouse, dicembre 1888

In un’epoca narrativa in cui l’evoluzione del personaggio è spesso considerata una regola aurea, Edgar Blackwood rappresenta un’eccezione deliberata. Non cede al cambiamento, non segue l’arco classico dell’eroe che “impara dai propri errori”.
Perché?
Perché Blackwood non è nato per cambiare, ma per ricordare. E custodire.

Il trauma come fondamento, non come transizione

Blackwood è un uomo segnato dalla guerra.
La Campagna di Crimea gli ha lasciato molto più di cicatrici fisiche: gli ha insegnato che il male, a volte, non viene punito. Viene solo registrato.
Da allora, egli non cerca redenzione, né perdono. Cerca ordine nel caos, e se necessario, lo impone con la forza.
Questo lo rende scomodo. Imperfetto. Spesso apatico, distante, ossessivo.
Ma reale.

Un’epoca che non perdona la sensibilità

La Londra del 1888 non è terreno fertile per introspezioni e mutamenti interiori. È una città che mastica e sputa chiunque tenti di salvarla.
Blackwood lo sa. E si è adattato.
Non diventando più umano, ma indurendosi al punto da diventare strumento. Uno strumento dell’Archivio.
Un archivista del male.

Una coerenza narrativa voluta

Nella costruzione della saga, la staticità apparente di Blackwood è un pilastro strutturale, non un limite.

Ogni personaggio che gli ruota attorno – Declan, Monroe, Quinn, Moira – rappresenta un movimento: fede, disperazione, lealtà, empatia.
Lui no.
Blackwood è il perno. L’uomo che assorbe, osserva, cataloga.
Non si concede il lusso di cambiare perché il suo ruolo non è evolvere, ma resistere al Male. Anche quando lo guarda negli occhi. Anche quando lo vede dentro di sé.

Un detective dell’occulto… o solo della verità?

Molti lettori si chiedono: Blackwood crede davvero nel soprannaturale?

La risposta è… irrilevante.
Ciò che conta è che agisce. Interviene dove nessuno vuole guardare.
Che si tratti di possessioni o follia, di reliquie o manipolazioni mentali, Blackwood non si chiede “perché?” ma “come lo fermo?”.
E non è forse questa la forma più pura di responsabilità?

In conclusione

Blackwood non cambia perché è costruito per resistere.
Ogni sua risposta fredda. Ogni silenzio. Ogni gesto metodico e imperturbabile è parte di un codice più grande.
Un codice che tiene in piedi l’Archivio.
Un codice che dice:

“Non è necessario comprendere il male. È sufficiente riconoscerlo.”

Hai una domanda sull’Archivio o un personaggio che ti ossessiona?
Scrivila nei commenti del blog o su Instagram: potresti ricevere risposta nel prossimo episodio di Domande all’Archivista.

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Domande all’Archivista – Ogni giovedì su Facebook

A partire da settimana prossima, inauguriamo una nuova rubrica dedicata a voi lettori, curiosi, appassionati e investigatori dell’oscuro: “Domande all’Archivista”.

Ogni giovedì pubblicherò sulla mia pagina Facebook un post dedicato, dove potrete scrivere domande, curiosità, teorie o anche semplici riflessioni sul mondo di Blackwood, sulla Londra vittoriana, sulla scrittura gotica, sui personaggi o su qualsiasi elemento che vi abbia colpito tra le mie opere.

Alcuni esempi:

“Blackwood è ispirato a un personaggio reale?”

“Ci sono documenti autentici dietro i racconti?”

“Qual è stata la scena più difficile da scrivere?”

“Perché quel simbolo appare sempre nei tuoi racconti?”

Ogni settimana sceglierò 3 domande, quelle che più mi colpiranno o stimoleranno una riflessione, e risponderò direttamente sotto al post.

Regole semplici ma importanti:

No offese.

No contenuti volgari o fuori tema.

Chi non rispetta le prime due regole verrà cancellato e bannato.

Sarà un modo per dialogare, approfondire, e magari… scoprire nuovi indizi nascosti tra le pagine.

Appuntamento ogni giovedì su Facebook!

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Scrivere nel 1888 – Le difficoltà e il fascino della ricostruzione storica

Londra, 1888. L’aria sa di carbone e nebbia, i lampioni a gas crepitano nella notte, le carrozze sferragliano tra vicoli sconnessi e portoni serrati. Scrivere una storia ambientata in quel mondo significa — prima di ogni cosa — entrarci in punta di piedi. Non basta conoscere i fatti. Bisogna imparare a vivere con loro.

Per chi scrive narrativa gotica e investigativa, il 1888 non è solo un anno: è una soglia. È l’anno di Jack lo Squartatore, l’anno in cui la metropoli vittoriana rivela il suo volto più oscuro. Ma è anche l’anno in cui tecnologia e occulto, razionalismo e superstizione convivono nello stesso respiro. È un equilibrio fragile, affascinante, e difficilissimo da ricreare.

Le difficoltà

Documentazione accurata
Ogni parola sbagliata rischia di spezzare l’incanto. Serve conoscere non solo la cronologia degli eventi, ma anche i dettagli minimi: come si vestiva un ispettore di Scotland Yard? Come si pagava un biglietto del treno? Quali parole erano in uso nel parlato quotidiano? Ogni anacronismo è un rumore che rompe il silenzio della pagina.

Lingua e stile
Non si può scrivere come nel 2025. Ma nemmeno come nel 1888. Serve un compromesso. Uno stile evocativo, ricercato, ma accessibile. Una lingua che sappia accarezzare la carta come farebbe una piuma d’oca in un archivio impolverato. Non è semplice, ma è proprio lì che nasce la magia.

Mentalità d’epoca
Il vero ostacolo? Entrare nella testa di chi viveva allora. Il dolore, l’onore, la colpa, la fede, la paura: tutto aveva un altro peso. Un personaggio del 1888 non reagisce come noi. Non pensa come noi. E lo scrittore deve accettarlo, anche quando fa male.

Il fascino

Atmosfere dense
Il 1888 è un teatro perfetto per storie di mistero, occultismo e indagini impossibili. Ogni strada nasconde un segreto, ogni edificio ha una storia. La nebbia non copre: sussurra.

Il tempo come alleato
Raccontare un mondo senza cellulari, GPS o Internet obbliga il lettore (e l’autore) a rallentare. Ogni indizio viene cercato a lume di candela, ogni messaggio viaggia per posta o telegramma. E ogni decisione pesa di più.

Libertà narrativa
L’assenza di tecnologia permette di scavare in ciò che conta davvero: gli occhi, le parole, le ombre nei gesti. Il mistero non è risolto da un algoritmo, ma da un’intuizione, da un diario bruciato, da una pagina strappata che non voleva essere letta.

Scrivere nel 1888 è un viaggio. A volte frustrante. Spesso complesso. Ma quando tutto si incastra, quando la carta odora davvero di fumo e la voce del detective sembra provenire da una stanza vera… allora sì, vale ogni fatica.

Benvenuti nell’Archivio Blackwood. Le sue porte sono sempre aperte. Ma attenzione: non sempre vi faranno uscire.

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L’Inquisizione, i riti e l’occulto: cosa c’è di vero nelle fonti usate

Nel cuore dei racconti dell’Archivio Blackwood si nascondono simboli, rituali e riferimenti oscuri che affondano le radici in documenti reali. Ma quanto c’è di vero nei testi inquisitoriali, nei grimori citati, nei rituali descritti nelle pagine di Il Vangelo delle Ombre o Le Ombre di Whitechapel?

La risposta è disturbante: più di quanto si pensi.

I manuali dell’Inquisizione

Molti dialoghi tra Blackwood e padre Quinn sono ispirati direttamente al Malleus Maleficarum, al Directorium Inquisitorum e ai processi originali della Santa Inquisizione. Nei miei appunti ho spesso consultato testi latini che elencano formule per riconoscere i “posseduti“, interrogatori sui “segni del demonio“, e perfino modalità rituali per “chiudere i varchi“. Alcune frasi presenti nei romanzi sono citazioni quasi letterali, tradotte per essere comprese nel racconto.

I riti (non sempre) inventati

Non tutti i rituali descritti sono frutto di fantasia. Alcuni provengono da testi come il Clavicula Salomonis o il Lemegeton, usati realmente da alchimisti e occultisti tra Medioevo e Ottocento. Altri sono mescolanze, rielaborati per dare coerenza alla narrazione gotica.

La paura del corpo, il mistero dell’anima

L’orrore dell’epoca non era solo nella superstizione, ma anche nella scienza primitiva. Molte possessioni erano in realtà crisi epilettiche, isteria o traumi psichici. Ma l’Inquisizione, e gran parte della popolazione, vi vedeva la mano del diavolo. Nei miei romanzi ho cercato di mantenere questa ambiguità: non tutto è spiegabile, ma nulla è puramente fantastico.

Perché usare fonti reali?

Perché la paura più potente nasce dal dubbio. Se leggendo un rituale ti chiedi: “E se fosse esistito davvero?”, allora l’immaginazione è già in trappola.
E Blackwood sa bene che il confine tra realtà e incubo è sottile come un filo di cera sciolta.

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Diario di uno scrittore oscuro: come nascono le scene più disturbanti

Ci sono immagini che ti attraversano senza bussare.

Non chiedono permesso, non si annunciano con logica: arrivano come un sussurro nella notte, una lama sotto pelle, e restano lì. Impossibili da ignorare. E spesso, sono proprio quelle che finiscono nei racconti di Blackwood.

Molti mi chiedono: “Come nascono certe scene?”

Quelle della bambola con la bocca cucita, della donna in vestaglia che parla in latino davanti al camino o della scala che sale nel nulla tra la nebbia. E la risposta è sempre la stessa: non le creo. Le osservo.

L’origine di una visione

Di solito accade la sera, quando il rumore del mondo rallenta. Il cervello smette di costruire e comincia a raccogliere. Ed è lì che compaiono.

Una frase.
Un’ombra.
Un suono.

Una volta mi sono svegliato con una frase precisa in testa, come se me l’avessero detta nel sogno:

“L’unica porta che non dovresti aprire è quella che hai dentro.”

Da lì, è nata la scena della chiave nello sterno. Non sapevo ancora chi fosse il cadavere sul tavolo, né chi l’avesse aperto, ma la chiave era lì. Conficcata nel centro del petto. E ho iniziato a scrivere.

Luce fioca e simboli antichi

Altre volte, è tutto più razionale. Studio libri sul folklore, su culti oscuri, sulla simbologia medievale, e poi la mente fa il resto.
Un simbolo trovato in un grimorio del XVII secolo può finire inciso nel muro di una camera da letto. Una formula latina antica diventa un sussurro blasfemo nella bocca di una posseduta.

SPOILER: Anche il Viaggiatore dell’Ombra, apparso per la prima volta ne Il Vangelo delle Ombre, è nato così. Non volevo descriverlo in modo chiaro. Era troppo potente per essere limitato in una forma. Ma avevo un’immagine: un’ombra alta, senza occhi, che si piega sulle vittime come un velo unto.

Il tempo come alleato

Non tutte le idee arrivano complete.
A volte ci mettono mesi a maturare.
SPOILER: La scena dell’orfanotrofio nel racconto Hollowgate (in stesura) è nata da un incubo fatto nel 2024, che ho annotato nel telefono. Solo un anno dopo ho capito dove andava collocato: nel passato di Elias, il bambino con il simbolo tracciato sul muro.

Scrivere horror gotico non significa solo spaventare.
Significa riportare a galla tutto ciò che la società moderna ha dimenticato.
Le paure primordiali, le ombre interiori, il bisogno di dare un volto al male.

E quando non arriva nulla?

Non scrivo. Mai forzare l’oscurità.
Aspetto. Leggo. Cammino nella nebbia.
A volte la scena che cercavi arriva quando smetti di inseguirla.

E quando lo fa…
la riconosci subito.
È quella che ti fa abbassare gli occhi dopo averla scritta.

Vuoi scoprire da dove arrivano le altre visioni?

Allora tuffati nei racconti dell’Archivio Blackwood.
Ma attento: alcune porte, una volta aperte… non si richiudono.

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