Dentro la mente dell’autore: intervista a Claudio Bertolotti


Ho sempre pensato che scrivere fosse un viaggio nel silenzio. Un percorso fatto di ombre, ricordi, paure… e di voci che non trovano una forma.
Quando infatti sono stato intervistato dal Club del Libro, ho avuto occasione di raccontare non solo i miei titoli già pubblicati o in uscita, ma soprattutto l’idea di fondo che li tiene vivi: il desiderio di dare corpo a ciò che resta taciuto.

L’origine del racconto

Ho cominciato a scrivere attorno ai dodici anni, per liberarmi da pensieri che non sapevo spiegare a voce. Raccontavo storie brevi, dark, istintive… e già allora capivo che dietro l’incubo c’era un motivo.
Scrivere è diventato la necessità di trovare un ordine nel caos quotidiano, una via per restare me stesso quando il mondo sembrava chiedermi silenzio.

Il percorso: tra indipendenza e editoria

Oggi ho un accordo con Bookabook e Saga Edizioni, ma il mio sguardo va oltre: la libertà creativa è la bussola che non voglio mai perdere.
Il blocco dello scrittore? Esiste, ma è solo un momento: il vero motore è farsi trovare in ascolto, senza forzare, aspettando che le idee si trasformino in trama.

Personaggi, trama e verità

«Costruisco i miei personaggi a partire dalle loro fragilità… Mi interessa più ciò che nascondono che ciò che mostrano». Queste parole, pronunciate… …mi restituiscono la ragione profonda del mio lavoro: non voglio solo narrare. Voglio toccare l’intimità del Male, del Vuoto, del Silenzio.
La trama? È il sentiero. I personaggi? Sono la ragione per cui vale la pena percorrerlo.

Critica, feedback e comunità

Le recensioni negative? Non le temo. Le false sì, le contesto.
Ma ciò che mi emoziona è il dialogo con i lettori: ogni messaggio, ogni riflessione mi ricorda perché ho iniziato – per condividere ciò che resta nell’ombra.


Per chi vuole andare oltre

Leggi l’intervista completa:
Intervista a Claudio Bertolotti – Club del Libro

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I casi criminali che ispirarono (o vennero ispirati da) Ed Gein


Il Culto della Madre

Nel vasto panorama del crimine americano, pochi nomi risuonano con l’eco disturbante di Ed Gein. Ma se è vero che il “Macellaio di Plainfield” ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura pop e nella cronaca nera, è altrettanto vero che Gein stesso non fu un’isola. I suoi atti disumani si collocano in un contesto più ampio di influenze reciproche tra realtà e finzione, tra mitologia del male e carne viva.

Prima di Gein: chi ha ispirato l’orrore?

Alcuni studiosi e profiler criminali ritengono che Gein, pur vivendo in un isolamento rurale quasi totale, abbia assorbito suggestioni dell’immaginario gotico e della cronaca nera locale. I racconti orali, i pulp magazine dell’epoca e le leggende sul body-snatching (il furto di cadaveri) avevano già contribuito a creare un’atmosfera malata in certe aree del Midwest.

Tra le figure più vicine al suo immaginario, anche se molto anteriori, possiamo citare:

  • Albert Fish: il “Vampiro di Brooklyn”, che nei primi decenni del ‘900 compì orrendi crimini legati a pulsioni sessuali e religiose. Sebbene diverso per modalità, Fish creò un precedente nella costruzione di un mostro che usava la propria “fede” come giustificazione per atti indicibili.
  • H.H. Holmes: il costruttore del famigerato “Castello degli Orrori” a Chicago, che nel 1893 trasformò un albergo in un labirinto mortale. La struttura mentale deviata e manipolativa di Holmes può essere vista come un lontano predecessore di certi aspetti del controllo materno subito da Gein.

Dopo Gein: il mostro genera altri mostri

Ma è soprattutto dopo Gein che il suo nome diventa seme oscuro per nuove mostruosità. I suoi crimini, come narrato nel Libro Il Culto della Madre, hanno ispirato decine di personaggi letterari e cinematografici, ma anche – e tristemente – altri assassini reali.

Alcuni casi emblematici:

  • Jerry Brudos: collezionista di scarpe femminili e feticista necrofilo, attivo negli anni ’60, mostrava una forte ossessione per il corpo femminile “conservato”, in modalità non troppo distanti da Gein.
  • Ted Bundy: sebbene molto diverso per intelligenza e modus operandi, è interessante notare come Bundy abbia letto avidamente di Gein durante i suoi anni di formazione criminale. Alcuni suoi comportamenti con i cadaveri sembrano echeggiare una fascinazione necrofila, anche se più “raffinata”.
  • Gary Heidnik: sequestrava donne nel seminterrato, costruendo una realtà parallela fatta di controllo, punizione e ossessione. La sua casa, come quella di Gein, divenne un santuario del delirio.

Quando il male diventa specchio

La figura di Ed Gein è, in un certo senso, uno specchio oscuro in cui molti altri criminali hanno proiettato le proprie fantasie. Un nome che è diventato quasi un archetipo, il “prototipo” del serial killer prima ancora che questa figura venisse definita scientificamente.

Nel mio Libro, Il Culto della Madre, ho analizzato in dettaglio come Gein sia stato ispirato dalla madre, dalla Bibbia, dalla psicosi… ma anche da un tessuto culturale e narrativo che non è mai innocente.

E forse è proprio questo il punto più inquietante: la linea tra l’invenzione e la realtà è molto più sottile di quanto vogliamo credere.


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I miei personaggi soffrono. Perché devono farlo?


La sofferenza non è un espediente narrativo.
Non è nemmeno una punizione.
È il prezzo da pagare per essere reali.

Nella mia saga L’Archivio Blackwood, ogni personaggio – che sia un detective, un sacerdote, una bambina o un assassino – attraversa il proprio inferno. Non perché io, come autore, voglia condannarli. Ma perché non credo nella salvezza senza l’ombra della caduta.

Declan O’Connor, ad esempio, non è morto per stupire il lettore. È morto perché quella era l’unica strada coerente con la sua storia, con la sua lealtà e con ciò che la sua presenza significava per Blackwood.
E Blackwood stesso non è l’eroe invincibile. È il risultato di ciò che ha perso.


La sofferenza come verità

Viviamo in un’epoca in cui spesso si scrivono personaggi “giusti”, “forti”, “risolti”. Ma io credo che il dolore sia l’unico elemento narrativo in grado di dire la verità.
Quando Elias Monroe sbaglia, quando Padre Quinn vacilla, quando la bambina de Il Vangelo delle Ombre pronuncia parole che non le appartengono… lì, in quei momenti, smettono di essere personaggi. Diventano persone.

La sofferenza li umanizza. Li spezza e li scolpisce.
E se non soffrissero, sarebbero solo funzioni nella trama. Non anime.


Il dolore ha un prezzo. Anche per chi legge.

Chi legge i miei libri lo sa: nessuno è al sicuro.
Non perché io voglia scioccare. Ma perché la vita vera non protegge chi amiamo, e quindi nemmeno la narrativa dovrebbe farlo, se vuole restare sincera.
C’è chi ha pianto per la fine di un personaggio. Chi mi ha scritto di aver rivisto sé stesso in una crisi di fede.
Chi ha sentito che, forse, anche lui stava lottando contro un “Viaggiatore”.

La sofferenza dei miei personaggi è un patto.
Io la scrivo, tu la attraversi. Insieme ne usciamo un po’ più sporchi.
Ma anche un po’ più vivi.


Soffrono. Ma non smettono di cercare la luce.

Questa è l’unica cosa che non tolgo mai.
Una candela, una voce, un simbolo inciso nel legno.
Un gesto piccolo, inutile forse. Ma umano.

Perché se è vero che i miei personaggi soffrono… è altrettanto vero che nessuno di loro accetta di spegnersi completamente.

Ed è in quella resistenza silenziosa che, forse, si trova l’unico spiraglio di salvezza.
Per loro.
E per noi che li leggiamo.


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Nella mente del Mostro: cosa spinge un uomo a oltrepassare il limite


Ci sono crimini che non si esauriscono nei fatti, ma continuano a vivere nelle domande che lasciano dietro di sé. La figura del “mostro” affascina e spaventa da sempre, perché non rappresenta solo la devianza, ma anche il riflesso più oscuro dell’animo umano.
Dietro l’orrore di un delitto c’è quasi sempre una mente che si è spezzata, un’identità che ha perso il confine tra realtà e delirio. È in quel momento che l’uomo oltrepassa il limite, trasformandosi in ciò che la società non riesce più a comprendere.

Molti dei casi più inquietanti della storia — da Jack lo Squartatore a Ed Gein — mostrano un filo invisibile che lega la violenza al bisogno di controllo, al trauma, alla solitudine e, spesso, a un’ossessione profonda verso la figura materna o verso il divino.
Ed Gein, in particolare, rappresenta una frattura simbolica: l’uomo che ha trasformato la propria casa in un mausoleo, confondendo amore, colpa e fede. Dietro la cronaca, si nasconde una mente fragile e disorientata, incapace di distinguere peccato e purificazione.

Studiare il male non significa giustificarlo, ma comprenderlo. Ogni omicidio rituale, ogni gesto apparentemente inspiegabile, è il sintomo di un vuoto che si riempie di follia. E solo guardando dentro quel vuoto possiamo capire quanto sottile sia la linea che separa l’essere umano dal suo abisso.

Il mio saggio Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana nasce proprio da questa domanda: cosa spinge un uomo a credere che la morte possa essere un atto di redenzione?

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La casa come tempio del Mostro


Anatomia delle abitazioni dei killer seriali

Quando il Male mette radici, ha bisogno di un luogo in cui crescere.
Spesso, quel luogo è una casa. Apparentemente normale. A volte isolata. A volte nel cuore del vicinato. Ma sempre, sempre diversa.
In questo articolo esploriamo la dimensione domestica del crimine seriale, con particolare attenzione alla figura di Ed Gein — cuore del mio recente saggio Il Culto della Madre — ma anche in relazione ad altri casi reali e alle inquietanti somiglianze con le dimore gotiche del mio universo narrativo.


Non è solo un luogo: è un corpo vivente

Le case dei serial killer non sono semplici contenitori. Sono estensioni simboliche della mente del carnefice: ogni oggetto, ogni stanza, ogni odore racconta un bisogno, una frattura, un’ossessione.

Nel caso di Ed Gein, la casa di Plainfield divenne un vero e proprio teatro rituale, un santuario della madre morta e al tempo stesso un laboratorio della carne. Le stanze chiuse, i cadaveri sezionati, i trofei umani: tutto all’interno rifletteva la trasformazione di un lutto non elaborato in culto mortale.


La casa come psicodiagramma

In criminologia ambientale, lo spazio domestico viene spesso analizzato come “psicogeografia del crimine”: la disposizione degli ambienti, la scelta degli oggetti, la loro alterazione (o conservazione) offrono indizi sulla psiche del soggetto.

  • Nella stanza di Gein dove dormiva la madre, nulla era stato toccato.
  • Nella cucina, i resti umani erano stati trattati come utensili.
  • In cantina, si compivano atti al limite tra necrofilia e arte sacrificale.

Questa dicotomia tra conservazione del sacro e profanazione del corpo ritorna spesso anche nei miei romanzi: la stanza sigillata di una bambina morta, il laboratorio rituale sotto una chiesa, la biblioteca dove ogni scaffale contiene frammenti di dolore.


Narrativa gotica e verità disturbanti

Molti lettori mi chiedono se le case descritte nell’Archivio Blackwood siano ispirate a luoghi reali.
La risposta è: sì, ma non solo.
Ho preso spunto da documenti reali — come le foto dell’abitazione di Gein dopo l’arresto — ma anche da suggestioni letterarie, teologiche e simboliche: la casa non è solo luogo fisico, è sempre una porta verso qualcosa.
Nel gotico, la casa è spesso corrotta, viva, malata, esattamente come lo è nella mente di un assassino.


Il passato non se n’è mai andato

Le case in cui sono avvenuti crimini orribili non perdono mai del tutto il loro carico. Non è solo superstizione. È psicologia dell’ambiente.
Il trauma impregna i muri, e spesso chi entra dopo — vittima o lettore — lo sente.

È per questo che, in narrativa o nella realtà, il Male non muore mai davvero tra quelle pareti.
Resta lì, in attesa.
Di essere riscoperto.
O riattivato.


Tratto da riflessioni nate durante la stesura del saggio
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INTERVISTA A CLAUDIO BERTOLIOTTI


“Perché ho scritto un saggio su Ed Gein”

Ho deciso di raccontare il dietro le quinte di questo saggio in una forma un po’ diversa dal solito: un’intervista immaginaria, ma realistica, per condividere meglio le motivazioni, le scelte e il percorso che mi hanno portato a scrivere Il Culto della Madre.
Un modo diretto e sincero per chi mi segue dall’inizio – o mi scopre solo ora – per entrare con me nelle radici di un progetto nato dieci anni fa, e solo oggi finalmente compiuto.


Intervistatore – Claudio, sei conosciuto soprattutto per la tua narrativa gotica, per la saga dell’Archivio Blackwood. Ma stavolta hai sorpreso tutti con un saggio disturbante e affascinante. Perché Ed Gein?

Claudio Bertolotti – Perché incarna perfettamente il confine tra realtà e incubo. Chi mi segue sa che nei miei romanzi mi muovo sempre tra crimine, occulto e psicologia deviata. Ma Ed Gein non è una creazione letteraria. È esistito. E quello che ha fatto – o meglio, quello che ha rappresentato – va ben oltre l’horror. È stato l’archetipo del mostro moderno, la matrice nascosta dietro personaggi come Norman Bates, Leatherface, Hannibal Lecter. Volevo togliergli la maschera da cinema e riportarlo alla sua vera natura: un uomo solo, spezzato, vittima e carnefice al tempo stesso.


Intervistatore – Quando hai iniziato a lavorare a questo saggio?

Claudio Bertolotti – Dieci anni fa. Era il 2013, e stavo guardando American Horror Story: Asylum. Il personaggio di Bloody Face mi colpì come un pugno: inquietante, magnetico, terribilmente plausibile. Quando scoprii che era ispirato a Ed Gein, iniziai a fare ricerche. E da lì si aprì un mondo. Ho letto verbali processuali, articoli d’epoca, studi di criminologia, ma anche testi meno convenzionali. È stato un lavoro lungo, frammentato, che si è intrecciato con la mia scrittura narrativa. Ma non l’ho mai abbandonato.


Intervistatore – Cosa ti ha spinto a pubblicarlo proprio adesso?

Claudio Bertolotti – Era il momento giusto. Dopo aver pubblicato tre romanzi gotici – Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio – sentivo il bisogno di dire qualcosa di reale, di storico, ma che fosse comunque in linea con il mio mondo creativo. Ed Gein non è solo un fatto di cronaca. È una lente deformante sul concetto di madre, di fede, di identità. Il titolo, Il Culto della Madre, non è casuale. È un viaggio dentro una mente spezzata, ma anche dentro una cultura che ha prodotto quel tipo di mostro. E che forse continua a produrli.


Intervistatore – A chi è rivolto questo saggio?

Claudio Bertolotti – A chi ama il true crime, certo. Ma anche a chi cerca un approccio più profondo. Non troverete dettagli morbosi o macabri gratuiti: ho voluto scavare nella psicologia, nell’infanzia, nella religione e nel contesto culturale. Ho scritto questo saggio come se fosse un’indagine. Ma anche come una confessione. Perché alla fine, ogni autore scrive per capire qualcosa di sé. E in Ed Gein, per quanto paradossale possa sembrare, ho ritrovato il lato più oscuro del bisogno di appartenere, di amare, di non essere soli.


Intervistatore – Progetti futuri in ambito saggistico?

Claudio Bertolotti – Sì. Questo è solo l’inizio. Dopo aver rotto il silenzio con Il Culto della Madre, sto già lavorando a nuovi saggi sul rapporto tra crimine, mitologia e religione. Ma continuerò anche con la narrativa gotica. Le due cose non sono in contrasto, anzi: si alimentano a vicenda.


Intervistatore – Una frase per chi sta decidendo se leggere o meno il tuo saggio?

Claudio BertolottiSe pensi di sapere tutto su Ed Gein, ti sbagli. Se credi che sia solo un mostro, ti sbagli ancora di più. Solo entrando nella sua mente, capirai perché il vero orrore non è ciò che ha fatto… ma ciò che lo ha creato.


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Dal Saggio al Romanzo: due lingue, una sola voce


Quando ho iniziato a scrivere Il Culto della Madre oltre dieci anni fa, non avrei mai immaginato che sarebbe diventato il mio primo saggio pubblicato. È nato da un’urgenza di verità, da un fascino oscuro che mi ha accompagnato per anni, anche mentre iniziavo a muovere i primi passi nel mondo della narrativa gotica.

Sì, perché il mio primo romanzo l’ho scritto circa 5 anni fa, e da allora non mi sono più fermato. Ma quel saggio, iniziato molto prima, mi ha sempre seguito come un’ombra. E oggi capisco che questi due percorsi — il saggio e il romanzo — non sono così lontani come sembrano.


Il romanzo: evocare

Nella narrativa, il mio compito è evocare. Raccontare senza spiegare tutto, lasciare zone d’ombra, costruire un’atmosfera che dialoga con il lettore a livello emotivo. Un dettaglio descritto al momento giusto può valere più di mille analisi. Posso usare simboli, metafore, sogni, visioni. L’ambiguità è un alleato.

Il lettore, in fondo, è un complice. Legge perché vuole immergersi, perché vuole sentire il respiro di Edgar Blackwood nelle nebbie di Whitechapel o nelle cripte dimenticate di Hollowgate. Non devo convincerlo di nulla, devo solo farlo sentire.


Il saggio: dimostrare

Nel saggio, tutto cambia. Devo essere lucido, preciso, responsabile. Non si tratta più di evocare, ma di dimostrare. Le parole devono avere un peso documentale. Ogni affermazione dev’essere sostenuta da fonti, testimonianze, prove. Non posso lasciarmi andare alla suggestione, ma nemmeno scrivere un freddo resoconto tecnico. Devo raccontare una storia vera… senza tradirla, e senza ingannare il lettore.

È come camminare in equilibrio tra etica e stile.
Tra cronaca e riflessione.
Tra rispetto e narrazione.


Un horror vero fa più paura

Paradossalmente, scrivere un saggio come Il Culto della Madre è stato più disturbante che descrivere rituali occulti o possessioni letterarie. Perché stavolta, tutto ciò che raccontavo è accaduto davvero.

Non c’è metafora. Non c’è filtro gotico.
C’è solo un uomo reale, fragile, disturbato, che ha vissuto con i cadaveri, che ha trasformato la follia in rituale, che ha fatto della madre il proprio culto personale.

Eppure, anche in quel delirio, ho sentito riecheggiare qualcosa dei miei romanzi: lo sguardo interiore, l’ombra come simbolo, il desiderio (fallito) di controllare la morte. Forse è proprio lì il punto di contatto tra il mio stile gotico e il saggio: la necessità di guardare il Male negli occhi, anche quando non possiamo spiegarlo.


Due linguaggi, un’unica voce

Alla fine, scrivere narrativa e scrivere saggistica non sono due mondi separati. Sono due strumenti diversi per raccontare ciò che ci ossessiona. Con uno costruisco mondi. Con l’altro, li decifro.

Ma in entrambi i casi, ciò che muove la mia scrittura è sempre la stessa cosa:
la volontà di scavare nell’oscurità dell’essere umano, senza cercare risposte semplici. Solo domande vere.


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Perché ho scelto di scrivere un saggio su Ed Gein

Ci sono storie che non ti lasciano in pace. Non perché affascinino, ma perché inquietano, disturbano, costringono a guardare in fondo a ciò che normalmente scegliamo di ignorare.
Così, quasi dieci anni fa, iniziai a scrivere un saggio su Ed Gein, un uomo la cui mente contorta e tragica ha ispirato alcuni dei personaggi più iconici dell’orrore: Norman Bates in Psycho, Leatherface in Non aprite quella porta, Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti.

L’occasione nacque guardando American Horror Story – Asylum: il personaggio di Bloody Face, liberamente ispirato a Gein, mi spinse a chiedermi cosa ci fosse davvero dietro la maschera del mostro.
Da quel momento cominciai a raccogliere documenti, interviste, testimonianze e rapporti dell’epoca.
Non volevo scrivere un libro sensazionalistico, ma un saggio d’indagine psicologica, capace di separare la realtà dai miti che il cinema aveva creato intorno a lui.

Mi fermai a poche pagine dalla fine, travolto da lavoro e vita quotidiana. Ma quella storia rimase lì, sospesa.
Quando, qualche mese fa, Netflix ha annunciato la nuova serie su Ed Gein, ho sentito il bisogno di riprendere in mano quel manoscritto e completarlo.
Rileggendolo, ho ritrovato l’emozione e il disagio di allora, ma anche la consapevolezza che dietro la follia di Gein c’era un contesto umano, familiare, religioso e culturale che meritava di essere compreso, non solo giudicato.

Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana è il risultato di quel percorso.
Un lavoro che unisce ricerca, introspezione e analisi psicologica, per capire come un uomo comune possa trasformarsi nell’archetipo stesso del male.

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Accanto a Padre Quinn


L’ho seguito nel buio senza parlare.
Le sue mani tremavano appena, ma non per paura. Per il peso.

Quel genere di peso che non si vede, ma si avverte, come il freddo di una cripta che non si è mai richiusa del tutto.
Padre Marcus Quinn camminava davanti a me, il passo deciso di chi ha già perso tutto eppure continua. Il mantello frustava il vento e nella destra stringeva il rosario, annerito dal tempo, rigido come un’arma. Non era più un prete. Era qualcos’altro. Qualcuno che ha guardato nell’abisso e ha deciso di rientrare, pur sapendo che non ne uscirà.

Voltò lo sguardo una volta sola. Non disse nulla. Non doveva.
Davanti alla casa — quella casa — l’aria era densa di ceneri invisibili.
Il rituale lo stava aspettando.

Io?
Ero lì per assisterlo, ma anche per non farlo restare solo. Perché a volte l’unica difesa contro il Male… è non combatterlo da soli.

Nella stanza dove il soffitto si piegava e il legno scricchiolava come un lamento, Quinn tracciò i simboli con mano ferma. Bruciò una pagina antica, recitò in latino versi che suonavano come minacce. E poi si inginocchiò.
Ma non per pregare.

Per sfidare.

Il Viaggiatore lo stava guardando. E io lo seppi. Non c’era bisogno di vederlo. Lo sentivo in ogni fibra.

Ci sono momenti in cui la fede non è un atto di devozione.
È un’arma.
E Quinn… era pronto a usarla.

Quando uscii da quella casa, qualcosa era cambiato.
Dentro di me.
Dentro di lui.
E dentro il lettore che troverà il coraggio di aprire Il Vangelo delle Ombre.

Perché questo libro non si legge.
Si affronta.


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5 Oggetti Reali Inquietanti Trovati in Case Vittoriane


Certe case non parlano. Sussurrano soltanto… attraverso gli oggetti che vi abitano ancora.

La Londra vittoriana era un teatro di ombre, superstizioni e stranezze. In quel mondo, nulla era davvero solo un oggetto: tutto poteva nascondere un segreto, una maledizione o un ricordo impossibile da cancellare. Nel mio lavoro di ricerca per l’universo di Blackwood, mi sono imbattuto in alcuni reperti davvero esistiti, oggi conservati in musei, collezioni private o semplicemente… dimenticati nei diari del tempo.

Ecco 5 oggetti reali e documentati trovati in abitazioni dell’epoca, oggetti che potrebbero benissimo appartenere all’Archivio Blackwood.


1. Il cuscino con denti da latte cuciti

Nel 1879, a Bethnal Green, durante il restauro di un’abitazione abbandonata, venne trovato un piccolo cuscino imbottito… non di piume, ma di denti da latte cuciti con filo nero. Secondo alcune credenze popolari, cucire i denti proteggeva l’anima del bambino dalla possessione.
O forse, la intrappolava.


2. La Bibbia incisa con capelli umani

Nella zona di Clerkenwell, nel 1883, fu rinvenuta una Bibbia da viaggio le cui pagine recavano incisioni sottili eseguite con capelli intrecciati a punta d’ago. Ogni versetto riportava una data di lutto familiare. Un vero libro del cordoglio privato, dove la fede si confondeva con l’occulto.


3. Lo specchio che non rifletteva le donne

A Whitechapel, un vecchio specchio ottagonale conservato oggi al Museum of London fu al centro di una credenza straziante: non rifletteva il volto delle donne, solo degli uomini. Si scoprì che, in realtà, lo specchio era stato inclinato leggermente verso l’alto per anni. Ma i racconti delle inquiline lo descrivevano come “uno specchio che conosce il peccato”.


4. La bambola cieca con palpebre cucite

Trovata in una soffitta a Limehouse, nel 1891: una bambola di stoffa dai bottoni rimossi e le palpebre cucite con filo rosso. Nessuna spiegazione fu mai trovata, se non una nota: “Non deve guardare”. Alcuni ipotizzarono che appartenesse a un rituale per tenere lontani spiriti maligni.
O per tenerli dentro.


5. Il baule delle ossa

Scoperto nel 1902 durante una demolizione a Seven Dials: un piccolo baule chiuso da due lucchetti arrugginiti, contenente ossa animali miste a resti umani infantili, secondo il referto dell’epoca. Non venne mai aperto pubblicamente: fu confiscato dalla polizia e… sparì.


Perché inserirli nei tuoi racconti?

Ogni oggetto è un frammento narrativo in potenza. Ognuno contiene:

  • Un simbolo (la bambola cieca = ignorare la verità)
  • Un enigma (lo specchio = percezione selettiva)
  • Un trauma (la Bibbia incisa = lutto e colpa)
  • Una possibilità per fare paura senza mostri.

Nel mio romanzo Il Vangelo delle Ombre, questi elementi non sono solo suggestione: diventano porta d’accesso a un altro mondo, e danno forma al Male stesso.
Perché il Male, spesso, indossa il volto dell’abitudine.


Hai mai trovato un oggetto inquietante in una casa antica?

Scrivilo nei commenti o raccontamelo su Instagram o Telegram: potresti ispirare il prossimo caso dell’Archivio…


IL VANGELO DELLE OMBRE
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