Ed Gein: cosa ci racconta davvero la sua mente?


Psicopatologia e simbolismo tra realtà e abisso

“Non era pazzo. O almeno non nel modo in cui lo intendiamo.”
Questa è una delle frasi più inquietanti pronunciate da uno psichiatra chiamato a valutare Ed Gein, l’uomo che, con la sua follia rurale e il culto morboso per la madre, ha ispirato decine di figure dell’orrore moderno: Norman Bates, Leatherface, Buffalo Bill.

Ma al di là del sensazionalismo, chi era davvero Ed Gein?

Dissociazione e rituale

Secondo i referti psichiatrici redatti dopo il suo arresto nel 1957, Gein soffriva di schizofrenia paranoide con forti componenti dissociative. Ma ciò che colpì gli analisti non fu solo la patologia, bensì la struttura rituale che permeava ogni sua azione:

  • la scelta delle vittime
  • l’uso dei corpi per creare “oggetti” (maschere, abiti, arredi)
  • la conservazione ossessiva dei resti

Tutto in lui obbediva a una logica simbolica disturbata, non a un impulso caotico. Ed Gein non uccideva per godimento. Uccideva per ricostruire un altare alla madre. Perché lei tornasse.

La madre come centro del cosmo

Augusta Gein era tutto per lui: figura religiosa fanatica, ossessiva, manipolatrice. Le sue parole — “tutte le donne sono peccatrici” — si scolpirono nella mente del figlio come un dogma ineluttabile. Quando morì, Ed Gein restò solo con Dio e con i cadaveri.

Nel tempo, cominciò a ricostruire un mondo materno fatto di pelle, ossa, abiti ricuciti. Voleva rivestirsi della madre, diventare la madre.
In questo senso, il delitto per Gein non era fine a sé stesso, ma un mezzo per colmare un’assenza cosmica, una ferita metafisica.

Il significato profondo dell’orrore

Gein non è un semplice assassino. È un simbolo.
Un archetipo dell’uomo che, di fronte alla perdita, cerca di manipolare la morte attraverso riti, oggetti e simboli. Un uomo che, privato di identità, usa il corpo dell’altro per tentare di ritrovare sé stesso.

Nella sua follia, non c’è disordine. C’è struttura, c’è culto.
Un culto privato, oscuro, in cui la madre diventa divinità, e l’omicidio un’offerta sacra.

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LE MADRI DEL MALE


Augusta Gein, Catherine Knight e il volto oscuro della maternità

Ci sono madri che generano la vita.
E ci sono madri che, nel nome dell’amore, la soffocano.

Nel nostro immaginario, la figura materna è sacra: fonte di accudimento, protezione, origine e cura. Ma quando il legame si spezza e si trasforma in possesso, controllo, o puro fanatismo, allora la madre può diventare la prima cella di una prigione invisibile.

In questo articolo esploro tre casi diversi — due reali, uno simbolico — in cui la maternità diventa incubatrice del Male. Madri che non solo hanno fallito nel proteggere… ma hanno dato origine all’orrore stesso.


Augusta Gein – La madre che generò un mostro

Augusta Gein non ha mai ucciso nessuno.
Eppure, è considerata la radice psicologica dell’orrore generato da suo figlio: Ed Gein, il “macellaio di Plainfield”, colui che avrebbe ispirato personaggi come Psycho, Leatherface e Buffalo Bill.

Fanatica religiosa, misantropa e misogina, Augusta allevò Ed in un clima di terrore spirituale e colpa sessuale. Gli insegnava che le donne erano creature impure, che il corpo era peccato, che il mondo era corrotto. Quando morì, Ed crollò. E tentò — in tutti i modi — di riportarla in vita.

Ogni oggetto ricavato dai cadaveri, ogni gesto di “taxidermia umana”, ogni vestito fatto di pelle… era parte di un rituale disperato. Un culto privato, con una sola divinità: la Madre.


Catherine Knight – La madre che uccise, cucinò e servì

Catherine Knight è il volto più feroce della maternità distorta.
Australiana, madre di quattro figli, protagonista di una delle pagine più oscure della cronaca criminale mondiale.

Nel 2000 uccise il compagno, John Price, lo scorticò completamente, cucinò alcune parti del suo corpo e apparecchiò la tavola per i suoi figli… con cartellini coi loro nomi davanti ai piatti. L’intenzione era chiara. Un pasto simbolico. Una “offerta” familiare.

Diagnosticata con disturbo borderline e psicopatia, Catherine aveva un passato di violenza, ossessioni e manipolazioni. Ma ciò che colpì fu proprio la sua maschera materna, alternata a furia cieca e crudeltà rituale.


La Madre come simbolo disturbante

Non sempre il Male ha la forma del coltello.
A volte è uno sguardo. Una preghiera imposta. Un abbraccio che toglie l’aria.

Molti culti e racconti gotici — inclusi alcuni presenti nella mia saga Archivio Blackwood — pongono la madre come figura ambivalente: salvifica e demoniaca, fertile e cannibale, luce e tenebra. Un’icona potente, antica, capace di nutrire… o divorare.

Nel saggio-narrativo Il Culto della Madre ho voluto esplorare questo nodo oscuro: non solo la biografia di Ed Gein, ma il suo culto interiore. Quella devozione cieca e malata per una madre assente, che continua a parlare anche da morta.


In conclusione

Le madri del Male non sono solo donne crudeli.
Sono figure simboliche che mettono in crisi le nostre certezze. Ci obbligano a chiederci: fino a che punto l’amore può diventare una gabbia? E cosa resta, di un figlio, quando la voce della madre è l’unica che ha mai ascoltato?


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Quando la realtà supera l’incubo: 5 case dell’orrore che hanno ispirato libri e film


C’è qualcosa nelle case abbandonate che ci attrae e ci respinge allo stesso tempo. Forse è la promessa di un mistero sepolto sotto il pavimento, o quel silenzio pesante che sembra nascondere grida lontane. Ma alcune abitazioni non hanno bisogno della fantasia per essere spaventose. Sono reali, documentate, teatro di indicibili atrocità. E proprio per questo, sono diventate il cuore pulsante di romanzi, film e leggende.

Ecco cinque case dell’orrore realmente esistite, dove la cronaca ha incontrato l’incubo. Luoghi dove la morte ha lasciato il segno, ispirando intere generazioni di scrittori, registi e lettori.


1. La casa di Ed Gein – Plainfield, Wisconsin (USA)

Un’abitazione isolata in mezzo ai campi. All’apparenza anonima, quasi banale. Ma al suo interno, gli agenti di polizia scoprirono uno degli orrori più profondi della psiche umana: teschi trasformati in ciotole, maschere di pelle umana, organi essiccati, mobili rivestiti con resti umani.
Gein, affetto da delirio religioso e complesso materno ossessivo, ha ispirato personaggi iconici come Norman Bates, Leatherface e Buffalo Bill.

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2.  La casa di Lizzie Borden – Fall River, Massachusetts

«Lizzie Borden took an axe…» inizia così una filastrocca popolare. L’assassinio del padre e della matrigna con una quarantina di colpi di ascia sconvolse l’America puritana del 1892.
Lizzie fu processata ma mai condannata. La casa, oggi trasformata in B&B, conserva ancora il letto insanguinato e i mobili originali.
Un luogo impregnato di non detti, isteria collettiva e fantasmi del patriarcato.


3.  Il Castello di H. H. Holmes – Chicago

Durante l’Expo del 1893, Henry Howard Holmes costruì un “hotel” pieno di passaggi segreti, stanze senza uscite, botole e camere a gas.
Il primo serial killer “ingegnere del male”, Holmes progettò un edificio pensato per la tortura, la morte e la dissoluzione dei corpi.
La stampa dell’epoca lo battezzò “The Murder Castle”.
L’edificio venne demolito, ma la sua ombra aleggia ancora su Chicago e nelle pagine di molti romanzi gotici americani.


4. La casa di Amityville – New York

Resa celebre dai Warren e dalla serie di film horror, la casa di Amityville fu teatro di un massacro nel 1974, quando Ronald DeFeo Jr. uccise tutta la sua famiglia.
Successivamente, i nuovi inquilini dichiararono di aver vissuto fenomeni paranormali: voci, odori nauseanti, crocifissi capovolti.
Molti elementi furono poi contestati o rivelati come invenzioni, ma la casa è diventata il simbolo moderno della casa infestata per eccellenza.


5. La prigione di Moorside – Yorkshire, Regno Unito

Non una casa, ma una villa-prigione trasformata da Ian Brady e Myra Hindley in luogo di sevizie, torture e omicidi su minori.
Tra gli anni ’60 e ’70, i due portarono avanti una serie di crimini che ancora oggi scuotono l’Inghilterra.
La casa fu demolita per volontà pubblica, ma le registrazioni delle confessioni e le fotografie degli ambienti restano nei fascicoli della polizia come prova vivente del Male banale.


Conclusione

Queste case non fanno paura per ciò che promettono… ma per ciò che è realmente accaduto.
Non servono demoni o fantasmi quando l’essere umano è capace di generare l’orrore più profondo.
Ed è proprio in questo spazio ambiguo tra realtà e finzione che nasce la mia scrittura: laddove il crimine diventa specchio dell’anima, e l’orrore è reale.


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Dentro la casa degli orrori – Un viaggio nella mente di Ed Gein


C’è odore di umido, di chiuso. Di qualcosa che marcisce.
La porta si apre con un cigolio lungo e lento, come se stesse cercando di avvisarmi che qui, in questa casa, nulla è rimasto davvero morto. Neanche la polvere.

La luce fioca della torcia disegna contorni slabbrati sulle pareti annerite. Il pavimento scricchiola sotto i miei passi, ma non è solo il legno a muoversi. È come se ci fosse qualcos’altro, appena fuori dalla vista, che trattiene il respiro assieme a me.
Un sussurro che non è vento. Un lamento che non ha voce.

Cammino in silenzio tra vecchi giornali ingialliti, sedie senza gambe, scatole di latta, oggetti senza nome.
È una casa, dicono. Ma non lo è più.
Qui non c’è memoria domestica, non ci sono ricordi normali. Solo rituali. Solo ossessioni. Solo fantasmi.

Entro nella cucina. Il tavolo è ricoperto da una cerata logora. Sopra, resti arrugginiti di utensili, lame, e… qualcosa che non voglio identificare subito.
Guardo a sinistra. Il lavandino è sporco, con tracce che sembrano vecchie ma ancora umide. E sopra, appeso come un trofeo che nessuno dovrebbe mai mostrare, c’è un volto. Una maschera. Pelle umana, cucita.
Inspiegabilmente conservata.

Mi fermo. Il cuore mi batte forte.
Lo so, razionalmente. So dove sono.
La paura è reale.

Salgo le scale. Una porta è chiusa.
La stanza della madre.

Qui il tempo si è fermato. Il letto è rifatto, la Bibbia è ancora sul comodino. Le tende bloccano la luce, ma qualcosa filtra ugualmente.
Non la toccherei mai, quella stanza.
Ed Gein non l’ha mai fatto. La adorava troppo.
O forse ne aveva troppa paura.

Scendo.
C’è un capanno sul retro. Il cuore mi dice di non aprirlo.
La mente mi urla che devo farlo. Che dentro ci sono le risposte.

Lo spalanco.
Il tanfo è insopportabile.
E non serve immaginazione. I giornali lo raccontano. I rapporti lo confermano. Qui sono stati ritrovati teschi usati come ciotole. Organi. Parti del corpo femminile trasformate in oggetti.
Un grembiule fatto con seni.
Una cintura fatta di capezzoli.

Non è una leggenda.
Non è un horror hollywoodiano.
È accaduto.
Qui.

Ed Gein non era solo un assassino.
Era un uomo spezzato, consumato da una madre che aveva idolatrato fino a volerne ricreare la presenza con la carne di altre donne.
Un uomo che viveva in una dimensione alterata, tra fede malata e delirio.
Un uomo che ha ispirato Psycho, Non aprite quella porta, Il Silenzio degli innocenti.

Chiudo gli occhi.
Respiro piano.
E penso: non ho visto un mostro. Ho camminato nella sua mente.


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Quando l’orrore è reale: perché leggere true crime oggi?


Viviamo in un’epoca in cui l’intrattenimento si nutre di paura, e la paura – paradossalmente – ci attrae. Ma mentre fiction, horror e thriller ci offrono una via di fuga nell’immaginario, esiste un genere che invece ci costringe a restare nella realtà, a guardarne il volto più disturbante, più crudo, più autentico: il true crime.

Non è una moda. Non è solo voyeurismo.
È qualcosa di più profondo.


Lettori dell’abisso

Chi legge true crime non è necessariamente attratto dalla violenza, ma dalla necessità di capire.
Capire perché accade l’orrore.
Capire come una mente possa frantumarsi fino al punto di non ritorno.
Capire dove la società ha fallito, nascosto, ignorato.

C’è chi guarda queste storie con sospetto, come se leggessimo per compiacere un gusto morboso. Ma la verità è che il true crime non coccola il lettore.
Lo mette a disagio. Lo sfida. Lo obbliga a confrontarsi con domande scomode.
E a volte, lo cambia.


Il fascino del reale

Il successo di documentari come Making a Murderer, Don’t F**k With Cats o podcast come Serial dimostra che oggi abbiamo fame di verità, anche quando è disturbante.
Perché leggere un libro sul caso Ed Gein – ad esempio – è diverso dal guardare un film ispirato a lui.
Nella narrazione romanzata puoi chiudere gli occhi.
Nel true crime no.

Quando l’orrore è reale, ogni dettaglio ha un peso.
Ogni omissione conta. Ogni parola pronunciata in tribunale è una fessura nella coscienza collettiva.


Leggere per ricordare

Leggere true crime significa anche ricordare chi è stato dimenticato.
Le vittime che non hanno avuto voce.
Le famiglie lasciate nel vuoto.
Le epoche che hanno preferito l’oblio alla verità.

E allora leggere questi libri – anche se faticosi, anche se spiazzanti – diventa un atto di memoria, di responsabilità.
Non si tratta di glorificare il male.
Si tratta di interrogarlo.
Di conoscerlo per riconoscerlo, quando tenta di tornare sotto nuove forme.


Il culto della madre. Ed Gein e l’orrore nella mente umana

Questo è il motivo per cui ho scritto questo libro.
Non per raccontare l’ennesimo “mostro”, ma per entrare in quel vuoto psicologico e culturale che ha permesso a una storia del genere di accadere.

Perché Ed Gein non è solo un nome da cinema.
È il prodotto di una solitudine malata, di un’educazione distorta, di una devozione spinta all’estremo.
E, purtroppo, non è un caso isolato.


Leggere true crime, oggi, non è un vezzo. È una scelta consapevole.
È affrontare le paure del mondo reale con la mente aperta, il cuore saldo, e il desiderio di non ignorare.
Perché finché continueremo a raccontare l’orrore, forse, potremo impedirgli di diventare silenzio.


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Dalla cronaca alla leggenda: come Ed Gein ha cambiato la cultura horror


C’era una volta un uomo silenzioso, schivo, ai margini di una comunità già isolata nel cuore del Wisconsin. Il suo nome era Ed Gein, e la sua storia avrebbe cambiato per sempre non solo la cronaca nera americana, ma l’immaginario dell’orrore mondiale.

Un caso isolato, un’eco infinita

Nel novembre del 1957, la polizia di Plainfield entrò nella fattoria di Gein per cercare una donna scomparsa. Quello che trovarono fu oltre ogni possibilità di previsione: resti umani conservati in modi impensabili, maschere fatte con pelle umana, teschi trasformati in ciotole, organi conservati nei barattoli. E una realtà psicologica ben più disturbante.

La fattoria di Gein divenne subito il nuovo castello di Dracula, ma reale, tangibile, americana. Da quel momento, l’horror non sarebbe stato più lo stesso.


L’alba di un nuovo incubo: il cinema cambia volto

Non c’era bisogno di inventare mostri: Gein lo aveva dimostrato. Bastava guardare l’umanità più disturbata.

Tra gli anni ’60 e ’80, il caso Gein diventò ispirazione diretta per personaggi iconici:

  • Norman Bates in Psycho (Robert Bloch – 1959, Hitchcock – 1960): come Gein, vive con l’ombra ossessiva della madre morta, incapace di distinguere realtà e allucinazione.
  • Leatherface in Non aprite quella porta (Tobe Hooper – 1974): ispirato all’uso che Gein faceva dei corpi, compresa la maschera di pelle umana.
  • Buffalo Bill in Il silenzio degli innocenti (Jonathan Demme – 1991): come Gein, si veste con pelle umana, cercando una trasformazione identitaria estrema.

Da qui, il filone del serial killer disturbato dalla madre, immerso in un’ambientazione claustrofobica e rurale, diventò un sottogenere.


Oltre il sangue: l’eredità psichica

Quello che fa paura non è la violenza in sé. È la normalità che la precede. Ed Gein non era un assassino seriale nel senso classico: ha ucciso solo due persone (accertate), ma ha profanato decine di tombe per motivi che univano trauma, psicosi, superstizione e delirio religioso.

In lui, il confine tra malattia mentale e male assoluto si fa sottile. Ed è proprio qui che il cinema, la letteratura e il true crime hanno trovato la loro linfa: nella zona d’ombra tra follia e colpa, tra dolore e depravazione.


Gein oggi: tra verità e mito

Nel mio libro “Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”, ho cercato di fare chiarezza, andando oltre le leggende.

Ho studiato i documenti originali, le perizie, le interviste e i rapporti ufficiali. Quello che emerge non è un mostro, ma un uomo devastato, cresciuto sotto l’influenza totalizzante di una madre fanatica e in un isolamento patologico.

Ed è proprio questo che ci inquieta: non il sangue. Ma il fatto che potrebbe succedere ancora. In una casa qualunque, dietro una porta chiusa. Basta un seme malato in un terreno già fragile.


Conclusione

Ed Gein ha cambiato la cultura horror perché ci ha costretti a guardare il male senza maschere sovrannaturali, ma con la carne della realtà. Il suo caso ha generato miti, ma soprattutto ha creato una nuova paura: quella di ciò che si nasconde nell’ordinario.


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I casi criminali che ispirarono (o vennero ispirati da) Ed Gein


Il Culto della Madre

Nel vasto panorama del crimine americano, pochi nomi risuonano con l’eco disturbante di Ed Gein. Ma se è vero che il “Macellaio di Plainfield” ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura pop e nella cronaca nera, è altrettanto vero che Gein stesso non fu un’isola. I suoi atti disumani si collocano in un contesto più ampio di influenze reciproche tra realtà e finzione, tra mitologia del male e carne viva.

Prima di Gein: chi ha ispirato l’orrore?

Alcuni studiosi e profiler criminali ritengono che Gein, pur vivendo in un isolamento rurale quasi totale, abbia assorbito suggestioni dell’immaginario gotico e della cronaca nera locale. I racconti orali, i pulp magazine dell’epoca e le leggende sul body-snatching (il furto di cadaveri) avevano già contribuito a creare un’atmosfera malata in certe aree del Midwest.

Tra le figure più vicine al suo immaginario, anche se molto anteriori, possiamo citare:

  • Albert Fish: il “Vampiro di Brooklyn”, che nei primi decenni del ‘900 compì orrendi crimini legati a pulsioni sessuali e religiose. Sebbene diverso per modalità, Fish creò un precedente nella costruzione di un mostro che usava la propria “fede” come giustificazione per atti indicibili.
  • H.H. Holmes: il costruttore del famigerato “Castello degli Orrori” a Chicago, che nel 1893 trasformò un albergo in un labirinto mortale. La struttura mentale deviata e manipolativa di Holmes può essere vista come un lontano predecessore di certi aspetti del controllo materno subito da Gein.

Dopo Gein: il mostro genera altri mostri

Ma è soprattutto dopo Gein che il suo nome diventa seme oscuro per nuove mostruosità. I suoi crimini, come narrato nel Libro Il Culto della Madre, hanno ispirato decine di personaggi letterari e cinematografici, ma anche – e tristemente – altri assassini reali.

Alcuni casi emblematici:

  • Jerry Brudos: collezionista di scarpe femminili e feticista necrofilo, attivo negli anni ’60, mostrava una forte ossessione per il corpo femminile “conservato”, in modalità non troppo distanti da Gein.
  • Ted Bundy: sebbene molto diverso per intelligenza e modus operandi, è interessante notare come Bundy abbia letto avidamente di Gein durante i suoi anni di formazione criminale. Alcuni suoi comportamenti con i cadaveri sembrano echeggiare una fascinazione necrofila, anche se più “raffinata”.
  • Gary Heidnik: sequestrava donne nel seminterrato, costruendo una realtà parallela fatta di controllo, punizione e ossessione. La sua casa, come quella di Gein, divenne un santuario del delirio.

Quando il male diventa specchio

La figura di Ed Gein è, in un certo senso, uno specchio oscuro in cui molti altri criminali hanno proiettato le proprie fantasie. Un nome che è diventato quasi un archetipo, il “prototipo” del serial killer prima ancora che questa figura venisse definita scientificamente.

Nel mio Libro, Il Culto della Madre, ho analizzato in dettaglio come Gein sia stato ispirato dalla madre, dalla Bibbia, dalla psicosi… ma anche da un tessuto culturale e narrativo che non è mai innocente.

E forse è proprio questo il punto più inquietante: la linea tra l’invenzione e la realtà è molto più sottile di quanto vogliamo credere.


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Nella mente del Mostro: cosa spinge un uomo a oltrepassare il limite


Ci sono crimini che non si esauriscono nei fatti, ma continuano a vivere nelle domande che lasciano dietro di sé. La figura del “mostro” affascina e spaventa da sempre, perché non rappresenta solo la devianza, ma anche il riflesso più oscuro dell’animo umano.
Dietro l’orrore di un delitto c’è quasi sempre una mente che si è spezzata, un’identità che ha perso il confine tra realtà e delirio. È in quel momento che l’uomo oltrepassa il limite, trasformandosi in ciò che la società non riesce più a comprendere.

Molti dei casi più inquietanti della storia — da Jack lo Squartatore a Ed Gein — mostrano un filo invisibile che lega la violenza al bisogno di controllo, al trauma, alla solitudine e, spesso, a un’ossessione profonda verso la figura materna o verso il divino.
Ed Gein, in particolare, rappresenta una frattura simbolica: l’uomo che ha trasformato la propria casa in un mausoleo, confondendo amore, colpa e fede. Dietro la cronaca, si nasconde una mente fragile e disorientata, incapace di distinguere peccato e purificazione.

Studiare il male non significa giustificarlo, ma comprenderlo. Ogni omicidio rituale, ogni gesto apparentemente inspiegabile, è il sintomo di un vuoto che si riempie di follia. E solo guardando dentro quel vuoto possiamo capire quanto sottile sia la linea che separa l’essere umano dal suo abisso.

Il mio saggio Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana nasce proprio da questa domanda: cosa spinge un uomo a credere che la morte possa essere un atto di redenzione?

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La casa come tempio del Mostro


Anatomia delle abitazioni dei killer seriali

Quando il Male mette radici, ha bisogno di un luogo in cui crescere.
Spesso, quel luogo è una casa. Apparentemente normale. A volte isolata. A volte nel cuore del vicinato. Ma sempre, sempre diversa.
In questo articolo esploriamo la dimensione domestica del crimine seriale, con particolare attenzione alla figura di Ed Gein — cuore del mio recente saggio Il Culto della Madre — ma anche in relazione ad altri casi reali e alle inquietanti somiglianze con le dimore gotiche del mio universo narrativo.


Non è solo un luogo: è un corpo vivente

Le case dei serial killer non sono semplici contenitori. Sono estensioni simboliche della mente del carnefice: ogni oggetto, ogni stanza, ogni odore racconta un bisogno, una frattura, un’ossessione.

Nel caso di Ed Gein, la casa di Plainfield divenne un vero e proprio teatro rituale, un santuario della madre morta e al tempo stesso un laboratorio della carne. Le stanze chiuse, i cadaveri sezionati, i trofei umani: tutto all’interno rifletteva la trasformazione di un lutto non elaborato in culto mortale.


La casa come psicodiagramma

In criminologia ambientale, lo spazio domestico viene spesso analizzato come “psicogeografia del crimine”: la disposizione degli ambienti, la scelta degli oggetti, la loro alterazione (o conservazione) offrono indizi sulla psiche del soggetto.

  • Nella stanza di Gein dove dormiva la madre, nulla era stato toccato.
  • Nella cucina, i resti umani erano stati trattati come utensili.
  • In cantina, si compivano atti al limite tra necrofilia e arte sacrificale.

Questa dicotomia tra conservazione del sacro e profanazione del corpo ritorna spesso anche nei miei romanzi: la stanza sigillata di una bambina morta, il laboratorio rituale sotto una chiesa, la biblioteca dove ogni scaffale contiene frammenti di dolore.


Narrativa gotica e verità disturbanti

Molti lettori mi chiedono se le case descritte nell’Archivio Blackwood siano ispirate a luoghi reali.
La risposta è: sì, ma non solo.
Ho preso spunto da documenti reali — come le foto dell’abitazione di Gein dopo l’arresto — ma anche da suggestioni letterarie, teologiche e simboliche: la casa non è solo luogo fisico, è sempre una porta verso qualcosa.
Nel gotico, la casa è spesso corrotta, viva, malata, esattamente come lo è nella mente di un assassino.


Il passato non se n’è mai andato

Le case in cui sono avvenuti crimini orribili non perdono mai del tutto il loro carico. Non è solo superstizione. È psicologia dell’ambiente.
Il trauma impregna i muri, e spesso chi entra dopo — vittima o lettore — lo sente.

È per questo che, in narrativa o nella realtà, il Male non muore mai davvero tra quelle pareti.
Resta lì, in attesa.
Di essere riscoperto.
O riattivato.


Tratto da riflessioni nate durante la stesura del saggio
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INTERVISTA A CLAUDIO BERTOLIOTTI


“Perché ho scritto un saggio su Ed Gein”

Ho deciso di raccontare il dietro le quinte di questo saggio in una forma un po’ diversa dal solito: un’intervista immaginaria, ma realistica, per condividere meglio le motivazioni, le scelte e il percorso che mi hanno portato a scrivere Il Culto della Madre.
Un modo diretto e sincero per chi mi segue dall’inizio – o mi scopre solo ora – per entrare con me nelle radici di un progetto nato dieci anni fa, e solo oggi finalmente compiuto.


Intervistatore – Claudio, sei conosciuto soprattutto per la tua narrativa gotica, per la saga dell’Archivio Blackwood. Ma stavolta hai sorpreso tutti con un saggio disturbante e affascinante. Perché Ed Gein?

Claudio Bertolotti – Perché incarna perfettamente il confine tra realtà e incubo. Chi mi segue sa che nei miei romanzi mi muovo sempre tra crimine, occulto e psicologia deviata. Ma Ed Gein non è una creazione letteraria. È esistito. E quello che ha fatto – o meglio, quello che ha rappresentato – va ben oltre l’horror. È stato l’archetipo del mostro moderno, la matrice nascosta dietro personaggi come Norman Bates, Leatherface, Hannibal Lecter. Volevo togliergli la maschera da cinema e riportarlo alla sua vera natura: un uomo solo, spezzato, vittima e carnefice al tempo stesso.


Intervistatore – Quando hai iniziato a lavorare a questo saggio?

Claudio Bertolotti – Dieci anni fa. Era il 2013, e stavo guardando American Horror Story: Asylum. Il personaggio di Bloody Face mi colpì come un pugno: inquietante, magnetico, terribilmente plausibile. Quando scoprii che era ispirato a Ed Gein, iniziai a fare ricerche. E da lì si aprì un mondo. Ho letto verbali processuali, articoli d’epoca, studi di criminologia, ma anche testi meno convenzionali. È stato un lavoro lungo, frammentato, che si è intrecciato con la mia scrittura narrativa. Ma non l’ho mai abbandonato.


Intervistatore – Cosa ti ha spinto a pubblicarlo proprio adesso?

Claudio Bertolotti – Era il momento giusto. Dopo aver pubblicato tre romanzi gotici – Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio – sentivo il bisogno di dire qualcosa di reale, di storico, ma che fosse comunque in linea con il mio mondo creativo. Ed Gein non è solo un fatto di cronaca. È una lente deformante sul concetto di madre, di fede, di identità. Il titolo, Il Culto della Madre, non è casuale. È un viaggio dentro una mente spezzata, ma anche dentro una cultura che ha prodotto quel tipo di mostro. E che forse continua a produrli.


Intervistatore – A chi è rivolto questo saggio?

Claudio Bertolotti – A chi ama il true crime, certo. Ma anche a chi cerca un approccio più profondo. Non troverete dettagli morbosi o macabri gratuiti: ho voluto scavare nella psicologia, nell’infanzia, nella religione e nel contesto culturale. Ho scritto questo saggio come se fosse un’indagine. Ma anche come una confessione. Perché alla fine, ogni autore scrive per capire qualcosa di sé. E in Ed Gein, per quanto paradossale possa sembrare, ho ritrovato il lato più oscuro del bisogno di appartenere, di amare, di non essere soli.


Intervistatore – Progetti futuri in ambito saggistico?

Claudio Bertolotti – Sì. Questo è solo l’inizio. Dopo aver rotto il silenzio con Il Culto della Madre, sto già lavorando a nuovi saggi sul rapporto tra crimine, mitologia e religione. Ma continuerò anche con la narrativa gotica. Le due cose non sono in contrasto, anzi: si alimentano a vicenda.


Intervistatore – Una frase per chi sta decidendo se leggere o meno il tuo saggio?

Claudio BertolottiSe pensi di sapere tutto su Ed Gein, ti sbagli. Se credi che sia solo un mostro, ti sbagli ancora di più. Solo entrando nella sua mente, capirai perché il vero orrore non è ciò che ha fatto… ma ciò che lo ha creato.


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