La sofferenza non è un espediente narrativo.
Non è nemmeno una punizione.
È il prezzo da pagare per essere reali.
Nella mia saga L’Archivio Blackwood, ogni personaggio – che sia un detective, un sacerdote, una bambina o un assassino – attraversa il proprio inferno. Non perché io, come autore, voglia condannarli. Ma perché non credo nella salvezza senza l’ombra della caduta.
Declan O’Connor, ad esempio, non è morto per stupire il lettore. È morto perché quella era l’unica strada coerente con la sua storia, con la sua lealtà e con ciò che la sua presenza significava per Blackwood.
E Blackwood stesso non è l’eroe invincibile. È il risultato di ciò che ha perso.
La sofferenza come verità
Viviamo in un’epoca in cui spesso si scrivono personaggi “giusti”, “forti”, “risolti”. Ma io credo che il dolore sia l’unico elemento narrativo in grado di dire la verità.
Quando Elias Monroe sbaglia, quando Padre Quinn vacilla, quando la bambina de Il Vangelo delle Ombre pronuncia parole che non le appartengono… lì, in quei momenti, smettono di essere personaggi. Diventano persone.
La sofferenza li umanizza. Li spezza e li scolpisce.
E se non soffrissero, sarebbero solo funzioni nella trama. Non anime.
Il dolore ha un prezzo. Anche per chi legge.
Chi legge i miei libri lo sa: nessuno è al sicuro.
Non perché io voglia scioccare. Ma perché la vita vera non protegge chi amiamo, e quindi nemmeno la narrativa dovrebbe farlo, se vuole restare sincera.
C’è chi ha pianto per la fine di un personaggio. Chi mi ha scritto di aver rivisto sé stesso in una crisi di fede.
Chi ha sentito che, forse, anche lui stava lottando contro un “Viaggiatore”.
La sofferenza dei miei personaggi è un patto.
Io la scrivo, tu la attraversi. Insieme ne usciamo un po’ più sporchi.
Ma anche un po’ più vivi.
Soffrono. Ma non smettono di cercare la luce.
Questa è l’unica cosa che non tolgo mai.
Una candela, una voce, un simbolo inciso nel legno.
Un gesto piccolo, inutile forse. Ma umano.
Perché se è vero che i miei personaggi soffrono… è altrettanto vero che nessuno di loro accetta di spegnersi completamente.
Ed è in quella resistenza silenziosa che, forse, si trova l’unico spiraglio di salvezza.
Per loro.
E per noi che li leggiamo.
IL CARNEFICE DEL SILENZIO
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