Il confine tra verità storica e licenza narrativa


Quando si scrive partendo da fatti realmente accaduti – come nel caso dei miei saggi narrativi su Ed Gein, Lizzie Borden o i casi dimenticati dell’Inghilterra vittoriana – si cammina su una linea sottile: quella che separa la verità storica dalla necessità narrativa.
Una linea che può diventare lama, se non si maneggia con attenzione.

La verità: punto di partenza, non di arrivo

La Storia ci offre frammenti: atti processuali, testimonianze, articoli di giornale, verbali lacunosi, dettagli clinici. Ma non sempre ci racconta tutto. Non ci dice cosa provava un assassino nel silenzio della sua stanza, né quali parole non dette hanno cambiato il corso di una confessione.
È qui che interviene lo scrittore.

Quando affronto un personaggio storico come Ed Gein, parto da ciò che è verificabile: date, perizie, cronache. Ma dove la documentazione tace – ed è inevitabile che accada – scelgo di evocare, non di inventare. Creo verosimiglianza, non finzione pura.

Verosimile non significa falso

Un lettore attento percepisce la differenza tra chi inventa una scena per spettacolarizzare e chi invece costruisce un ponte narrativo dove le fonti non arrivano. Ad esempio, se riporto un dialogo tra Ed Gein e un investigatore, non lo sto “inventando”: sto traducendo in forma narrativa ciò che il contesto suggerisce, le emozioni ricostruite, la tensione psicologica reale.
La finzione, in questi casi, è uno strumento di comprensione, non una bugia.

Licenza narrativa: quando è legittima?

La licenza narrativa diventa legittima solo quando non altera i fatti storici fondamentali.
Non cambierei mai una data di omicidio, non inventerei mai un crimine non accaduto, né attribuirei a un personaggio reale parole che stravolgano il senso del suo vissuto.

Tuttavia, posso scegliere di ambientare una scena in una stanza vuota e silenziosa anche se il verbale non la descrive. Posso usare immagini, suoni, atmosfere, per far emergere una verità emotiva che i documenti non sanno raccontare. È questa la forza della narrazione storica fatta con rispetto.

Perché scrivo così?

Perché credo che la memoria vada tramandata, non archiviata.
Perché un lettore, leggendo Il Culto della Madre o i miei racconti gotici ambientati nel 1888, deve sentire l’odore del tempo, il peso delle decisioni, il sussurro delle parole non dette.

E anche perché il mio compito non è giudicare, ma riportare alla luce. Con rispetto, profondità, e – quando necessario – con la delicatezza dell’immaginazione.


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L’orrore del silenzio: cosa ci dice la casa di Ed Gein su di lui


Nel cuore rurale del Wisconsin, tra i campi ghiacciati di Plainfield, sorgeva una delle case più sinistramente celebri della storia americana. Non era un castello gotico, né una villa vittoriana infestata. Era una fattoria ordinaria, isolata, silenziosa. Eppure, al suo interno, il tempo si era fermato. Come un mausoleo, come un altare.
Era la casa di Ed Gein.

Le stanze chiuse: una madre che non muore mai

Dopo la morte di Augusta Gein, sua madre, Ed chiuse a chiave intere sezioni della casa: le stanze dove lei dormiva, leggeva la Bibbia, cucinava. Nessuno doveva toccarle. Nessuno doveva profanare quel tempio privato. Polvere, muffa, e un silenzio teso come una messa non celebrata. Il resto dell’abitazione invece divenne un cimitero vivo: resti umani trasformati in oggetti, pareti macchiate, odore di decomposizione e ammoniaca.

Non fu solo un gesto ossessivo: fu un tentativo di sospendere il lutto, di fermare la morte. Mummificare lo spazio per mummificare la madre.

La pelle come coperta: manipolare l’identità

All’interno della casa furono trovati oggetti che sfiorano il simbolico e sprofondano nell’indicibile: maschere di pelle umana, sedie rivestite di derma, ciotole ricavate da crani, labbra cucite su tende. Ogni oggetto parlava un linguaggio segreto, ancestrale.
Ed Gein non voleva solo uccidere. Voleva diventare qualcosa. Voleva indossare l’identità perduta della madre.
Un desiderio arcaico e cannibalico: non un travestitismo sessuale, ma un travestimento psichico.

Il linguaggio dell’orrore domestico

Tutto in quella casa urlava, ma nel più assoluto silenzio. Non vi erano scritte, né manifesti, né simboli esoterici. Solo oggetti.
Ogni oggetto aveva un posto preciso, come nel rituale di una liturgia. Ogni frammento umano sembrava non gettato a caso, ma disposto con devozione.
La casa divenne così un corpo, e Ed Gein il suo sacerdote.

Una domanda finale

Non c’è bisogno di inventare mostri quando l’orrore abita la casa accanto.
La vera domanda è: quanto silenzio possiamo sopportare prima che qualcosa si spezzi?


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