Ci sono crimini che non si esauriscono nei fatti, ma continuano a vivere nelle domande che lasciano dietro di sé. La figura del “mostro” affascina e spaventa da sempre, perché non rappresenta solo la devianza, ma anche il riflesso più oscuro dell’animo umano. Dietro l’orrore di un delitto c’è quasi sempre una mente che si è spezzata, un’identità che ha perso il confine tra realtà e delirio. È in quel momento che l’uomo oltrepassa il limite, trasformandosi in ciò che la società non riesce più a comprendere.
Molti dei casi più inquietanti della storia — da Jack lo Squartatore a Ed Gein — mostrano un filo invisibile che lega la violenza al bisogno di controllo, al trauma, alla solitudine e, spesso, a un’ossessione profonda verso la figura materna o verso il divino. Ed Gein, in particolare, rappresenta una frattura simbolica: l’uomo che ha trasformato la propria casa in un mausoleo, confondendo amore, colpa e fede. Dietro la cronaca, si nasconde una mente fragile e disorientata, incapace di distinguere peccato e purificazione.
Studiare il male non significa giustificarlo, ma comprenderlo. Ogni omicidio rituale, ogni gesto apparentemente inspiegabile, è il sintomo di un vuoto che si riempie di follia. E solo guardando dentro quel vuoto possiamo capire quanto sottile sia la linea che separa l’essere umano dal suo abisso.
Il mio saggio Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana nasce proprio da questa domanda: cosa spinge un uomo a credere che la morte possa essere un atto di redenzione?
Quando il Male mette radici, ha bisogno di un luogo in cui crescere. Spesso, quel luogo è una casa. Apparentemente normale. A volte isolata. A volte nel cuore del vicinato. Ma sempre, sempre diversa. In questo articolo esploriamo la dimensione domestica del crimine seriale, con particolare attenzione alla figura di Ed Gein — cuore del mio recente saggio Il Culto della Madre — ma anche in relazione ad altri casi reali e alle inquietanti somiglianze con le dimore gotiche del mio universo narrativo.
Non è solo un luogo: è un corpo vivente
Le case dei serial killer non sono semplici contenitori. Sono estensioni simboliche della mente del carnefice: ogni oggetto, ogni stanza, ogni odore racconta un bisogno, una frattura, un’ossessione.
Nel caso di Ed Gein, la casa di Plainfield divenne un vero e proprio teatro rituale, un santuario della madre morta e al tempo stesso un laboratorio della carne. Le stanze chiuse, i cadaveri sezionati, i trofei umani: tutto all’interno rifletteva la trasformazione di un lutto non elaborato in culto mortale.
La casa come psicodiagramma
In criminologia ambientale, lo spazio domestico viene spesso analizzato come “psicogeografia del crimine”: la disposizione degli ambienti, la scelta degli oggetti, la loro alterazione (o conservazione) offrono indizi sulla psiche del soggetto.
Nella stanza di Gein dove dormiva la madre, nulla era stato toccato.
Nella cucina, i resti umani erano stati trattati come utensili.
In cantina, si compivano atti al limite tra necrofilia e arte sacrificale.
Questa dicotomia tra conservazione del sacro e profanazione del corpo ritorna spesso anche nei miei romanzi: la stanza sigillata di una bambina morta, il laboratorio rituale sotto una chiesa, la biblioteca dove ogni scaffale contiene frammenti di dolore.
Narrativa gotica e verità disturbanti
Molti lettori mi chiedono se le case descritte nell’Archivio Blackwood siano ispirate a luoghi reali. La risposta è: sì, ma non solo. Ho preso spunto da documenti reali — come le foto dell’abitazione di Gein dopo l’arresto — ma anche da suggestioni letterarie, teologiche e simboliche: la casa non è solo luogo fisico, è sempre una porta verso qualcosa. Nel gotico, la casa è spesso corrotta, viva, malata, esattamente come lo è nella mente di un assassino.
Il passato non se n’è mai andato
Le case in cui sono avvenuti crimini orribili non perdono mai del tutto il loro carico. Non è solo superstizione. È psicologia dell’ambiente. Il trauma impregna i muri, e spesso chi entra dopo — vittima o lettore — lo sente.
È per questo che, in narrativa o nella realtà, il Male non muore mai davvero tra quelle pareti. Resta lì, in attesa. Di essere riscoperto. O riattivato.
Tratto da riflessioni nate durante la stesura del saggio “Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”, disponibile ora su Amazon.
Ho deciso di raccontare il dietro le quinte di questo saggio in una forma un po’ diversa dal solito: un’intervista immaginaria, ma realistica, per condividere meglio le motivazioni, le scelte e il percorso che mi hanno portato a scrivere Il Culto della Madre. Un modo diretto e sincero per chi mi segue dall’inizio – o mi scopre solo ora – per entrare con me nelle radici di un progetto nato dieci anni fa, e solo oggi finalmente compiuto.
Intervistatore – Claudio, sei conosciuto soprattutto per la tua narrativa gotica, per la saga dell’Archivio Blackwood. Ma stavolta hai sorpreso tutti con un saggio disturbante e affascinante. Perché Ed Gein?
Claudio Bertolotti – Perché incarna perfettamente il confine tra realtà e incubo. Chi mi segue sa che nei miei romanzi mi muovo sempre tra crimine, occulto e psicologia deviata. Ma Ed Gein non è una creazione letteraria. È esistito. E quello che ha fatto – o meglio, quello che ha rappresentato – va ben oltre l’horror. È stato l’archetipo del mostro moderno, la matrice nascosta dietro personaggi come Norman Bates, Leatherface, Hannibal Lecter. Volevo togliergli la maschera da cinema e riportarlo alla sua vera natura: un uomo solo, spezzato, vittima e carnefice al tempo stesso.
Intervistatore – Quando hai iniziato a lavorare a questo saggio?
Claudio Bertolotti – Dieci anni fa. Era il 2013, e stavo guardando American Horror Story: Asylum. Il personaggio di Bloody Face mi colpì come un pugno: inquietante, magnetico, terribilmente plausibile. Quando scoprii che era ispirato a Ed Gein, iniziai a fare ricerche. E da lì si aprì un mondo. Ho letto verbali processuali, articoli d’epoca, studi di criminologia, ma anche testi meno convenzionali. È stato un lavoro lungo, frammentato, che si è intrecciato con la mia scrittura narrativa. Ma non l’ho mai abbandonato.
Intervistatore – Cosa ti ha spinto a pubblicarlo proprio adesso?
Claudio Bertolotti – Era il momento giusto. Dopo aver pubblicato tre romanzi gotici – Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio – sentivo il bisogno di dire qualcosa di reale, di storico, ma che fosse comunque in linea con il mio mondo creativo. Ed Gein non è solo un fatto di cronaca. È una lente deformante sul concetto di madre, di fede, di identità. Il titolo, Il Culto della Madre, non è casuale. È un viaggio dentro una mente spezzata, ma anche dentro una cultura che ha prodotto quel tipo di mostro. E che forse continua a produrli.
Intervistatore – A chi è rivolto questo saggio?
Claudio Bertolotti – A chi ama il true crime, certo. Ma anche a chi cerca un approccio più profondo. Non troverete dettagli morbosi o macabri gratuiti: ho voluto scavare nella psicologia, nell’infanzia, nella religione e nel contesto culturale. Ho scritto questo saggio come se fosse un’indagine. Ma anche come una confessione. Perché alla fine, ogni autore scrive per capire qualcosa di sé. E in Ed Gein, per quanto paradossale possa sembrare, ho ritrovato il lato più oscuro del bisogno di appartenere, di amare, di non essere soli.
Intervistatore – Progetti futuri in ambito saggistico?
Claudio Bertolotti – Sì. Questo è solo l’inizio. Dopo aver rotto il silenzio con Il Culto della Madre, sto già lavorando a nuovi saggi sul rapporto tra crimine, mitologia e religione. Ma continuerò anche con la narrativa gotica. Le due cose non sono in contrasto, anzi: si alimentano a vicenda.
Intervistatore – Una frase per chi sta decidendo se leggere o meno il tuo saggio?
Claudio Bertolotti – Se pensi di sapere tutto su Ed Gein, ti sbagli. Se credi che sia solo un mostro, ti sbagli ancora di più. Solo entrando nella sua mente, capirai perché il vero orrore non è ciò che ha fatto… ma ciò che lo ha creato.
C’è un confine sottile, fragile come un filo di seta, tra amore e dominio. Lo si attraversa senza accorgersene, spesso con le migliori intenzioni. È un confine che ho imparato a conoscere studiando la storia di Ed Gein, e che continuo a esplorare nei miei romanzi gotici, dove la devozione si trasforma in prigione e la fede si piega all’ossessione.
Nel caso di Gein, tutto nasce in una casa isolata nel Wisconsin, dove una madre impone al figlio una religione privata, fatta di colpa e castigo. Gli insegna a temere il mondo, a diffidare delle donne, a rifugiarsi solo in lei. Quando quella figura muore, Ed resta solo con i suoi fantasmi… e con l’impossibilità di lasciarla andare. La madre diventa la sua voce interiore, il suo idolo e la sua condanna. L’amore si trasforma in idolatria necrotica.
Non è solo follia, è un meccanismo umano e universale: la paura di perdere il controllo sull’unica cosa che ci fa sentire vivi. Ecco perché storie come questa ci attraggono tanto: perché parlano, in fondo, della nostra fragilità più antica. Il bisogno di essere amati.
Nei miei romanzi, da Le Ombre di Whitechapel a Il Vangelo delle Ombre, la maternità, la fede e la protezione assumono spesso forme oscure. Dietro la luce dell’amore si nasconde sempre un’ombra che pretende obbedienza. E a volte, per liberarsi da essa, serve un atto di distruzione. È la stessa dinamica che muove Gein, ma anche molti dei miei personaggi: uomini e donne prigionieri di una voce che li chiama “figlio mio”, e che non permette loro di esistere da soli.
Perché l’amore, quando diventa possesso, non salva più. Divora.
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Quando ho iniziato a scrivere Il Culto della Madre oltre dieci anni fa, non avrei mai immaginato che sarebbe diventato il mio primo saggio pubblicato. È nato da un’urgenza di verità, da un fascino oscuro che mi ha accompagnato per anni, anche mentre iniziavo a muovere i primi passi nel mondo della narrativa gotica.
Sì, perché il mio primo romanzo l’ho scritto circa 5 anni fa, e da allora non mi sono più fermato. Ma quel saggio, iniziato molto prima, mi ha sempre seguito come un’ombra. E oggi capisco che questi due percorsi — il saggio e il romanzo — non sono così lontani come sembrano.
Il romanzo: evocare
Nella narrativa, il mio compito è evocare. Raccontare senza spiegare tutto, lasciare zone d’ombra, costruire un’atmosfera che dialoga con il lettore a livello emotivo. Un dettaglio descritto al momento giusto può valere più di mille analisi. Posso usare simboli, metafore, sogni, visioni. L’ambiguità è un alleato.
Il lettore, in fondo, è un complice. Legge perché vuole immergersi, perché vuole sentire il respiro di Edgar Blackwood nelle nebbie di Whitechapel o nelle cripte dimenticate di Hollowgate. Non devo convincerlo di nulla, devo solo farlo sentire.
Il saggio: dimostrare
Nel saggio, tutto cambia. Devo essere lucido, preciso, responsabile. Non si tratta più di evocare, ma di dimostrare. Le parole devono avere un peso documentale. Ogni affermazione dev’essere sostenuta da fonti, testimonianze, prove. Non posso lasciarmi andare alla suggestione, ma nemmeno scrivere un freddo resoconto tecnico. Devo raccontare una storia vera… senza tradirla, e senza ingannare il lettore.
È come camminare in equilibrio tra etica e stile. Tra cronaca e riflessione. Tra rispetto e narrazione.
Un horror vero fa più paura
Paradossalmente, scrivere un saggio come Il Culto della Madre è stato più disturbante che descrivere rituali occulti o possessioni letterarie. Perché stavolta, tutto ciò che raccontavo è accaduto davvero.
Non c’è metafora. Non c’è filtro gotico. C’è solo un uomo reale, fragile, disturbato, che ha vissuto con i cadaveri, che ha trasformato la follia in rituale, che ha fatto della madre il proprio culto personale.
Eppure, anche in quel delirio, ho sentito riecheggiare qualcosa dei miei romanzi: lo sguardo interiore, l’ombra come simbolo, il desiderio (fallito) di controllare la morte. Forse è proprio lì il punto di contatto tra il mio stile gotico e il saggio: la necessità di guardare il Male negli occhi, anche quando non possiamo spiegarlo.
Due linguaggi, un’unica voce
Alla fine, scrivere narrativa e scrivere saggistica non sono due mondi separati. Sono due strumenti diversi per raccontare ciò che ci ossessiona. Con uno costruisco mondi. Con l’altro, li decifro.
Ma in entrambi i casi, ciò che muove la mia scrittura è sempre la stessa cosa: la volontà di scavare nell’oscurità dell’essere umano, senza cercare risposte semplici. Solo domande vere.
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Quando si sente il nome Ed Gein, l’immaginario collettivo corre subito a film horror, maschere di pelle umana, case degli orrori. Ma quanto c’è di vero dietro la leggenda? E soprattutto: chi era davvero l’uomo dietro il mito? Per scrivere “Il Culto della Madre”, ho deciso di spogliarlo dai sensazionalismi, dalle fantasie morbose e dai filtri cinematografici. Quello che emerge è un individuo fragile, disturbato, vittima a sua volta di una madre manipolatrice e di un ambiente isolato e patologico.
Una figura lontana dal killer cinematografico
Contrariamente a quanto si pensa, Ed Gein non fu mai un serial killer nel senso tradizionale. Venne condannato per due omicidi accertati, ma il vero orrore fu ciò che si scoprì nella sua abitazione a Plainfield nel 1957: corpi dissepolti, resti umani manipolati, oggetti ricavati dalla pelle delle vittime. Gein non uccideva per piacere o per sadismo. Le sue azioni erano l’espressione tragica di una psicosi profonda, di un disturbo dell’identità sessuale, e soprattutto, del trauma mai risolto legato alla madre Augusta.
Un contesto di abbandono e silenzi
Il piccolo Ed crebbe in una fattoria isolata, in Wisconsin, con una madre fanatica religiosa, che lo convinceva che le donne (tutte tranne lei) erano creature malvagie, e che il peccato si annidava ovunque. Il padre, alcolizzato e assente, morì quando Ed era adolescente. Poco dopo, perse anche il fratello. Quando Augusta morì, il mondo di Gein collassò. Da quel momento, iniziò la deriva mentale: la casa venne trasformata in un tempio macabro dedicato alla madre, Ed conservava i suoi oggetti, chiudeva le stanze come reliquie, e si rifugiava in fantasie di resurrezione.
L’uomo che non voleva fare male… ma l’ha fatto
Molti lo descrissero come mite, gentile, quasi infantile. Non era il mostro urlante di Leatherface. Era uno spettro umano consumato dal delirio, dalla solitudine e da una sessualità repressa e contorta. Questo non lo giustifica. Ma lo umanizza, e ci pone una domanda difficile: Cosa genera davvero l’orrore? Una mente malata? Una società che non vede? O una combinazione di entrambe?
Perché è importante raccontare la verità
Scrivere di Ed Gein non è stato semplice. Ma era necessario. Il mio saggio nasce proprio da qui: dal desiderio di fare luce storica su un caso trasformato nel tempo in leggenda nera, restituendo alla realtà – cruda e disturbante – la sua complessità. Raccontare Gein non significa assolvere, ma capire. E in fondo, è proprio la comprensione ciò che più spaventa: perché ci costringe a guardarci dentro.
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Anticipazioni, ritorni e nuove discese nell’oscurità
Scrivere un romanzo gotico non è solo una scelta narrativa. È un rituale, un patto con l’ombra che ti osserva mentre scrivi. Ogni parola è una chiave, ogni libro un varco. Quando ho iniziato Le Ombre di Whitechapel, non immaginavo che mi avrebbe condotto tanto lontano. E ora, con Il Carnefice del Silenzio nelle mani dei lettori e Il Vangelo delle Ombre che ancora brucia come un’incisione nella carne, posso finalmente dirlo: l’Archivio Blackwood non si ferma. Anzi, si espande.
In tanti me lo chiedete: “Cosa verrà dopo?” E oggi voglio iniziare a rispondere.
Un Prequel – La Muta dei Santi
C’è un tempo prima di Whitechapel, prima che l’ispettore Edgar Blackwood diventasse ciò che è oggi. Quel tempo ha un nome: La Muta dei Santi. Un prequel ambientato anni prima, in una Londra ancora più cupa e violenta, in cui ritornerà un personaggio molto amato. Non posso dirvi chi, ma chi ha letto Le Ombre di Whitechapel potrà intuire…
Questa storia affonda nel passato più oscuro di Blackwood, un’indagine proibita che lo segnerà per sempre. Un viaggio nella Londra degli orfanotrofi sconsacrati, delle chiese murate e delle sette che strappano la voce a…
Un Sequel – Dopo Il Carnefice del Silenzio
Ci sono cose che nemmeno il silenzio può seppellire. E se avete letto Il Carnefice del Silenzio, sapete che qualcosa — o qualcuno — è rimasto in sospeso. Il sequel è già in fase di progettazione. Sarà un romanzo più maturo, più doloroso e ancora più inquietante. Un’indagine che porterà Blackwood a uscire dai confini di Londra e a scoprire che il Male non è mai solo in un luogo. A volte è dentro di noi.
Uno Spin-off – L’Ombra di un Altro (non è il titolo del romanzo)
Alcuni personaggi non escono mai davvero di scena. Anzi, sono loro a guardarti, in attesa che tu li riscriva. Sto lavorando a uno spin-off dedicato a un altro personaggio amato dai lettori, che in Il Vangelo delle Ombre ha lasciato un segno profondo. La storia avrà un tono diverso, più personale e malinconico, e mostrerà cosa succede quando l’orrore non viene più investigato, ma subito.
La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto
E poi c’è lei. La saga che non vi aspettate, ma che torna all’origine del gotico. La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto è il mio progetto parallelo: una saga gotica per ragazzi, ma non per questo meno inquietante. Orfanotrofio, magia, silenzi che diventano mostri, amicizie salvifiche e varchi nascosti dietro i muri. Una storia intensa, malinconica, piena di visioni e simboli, che parlerà ai lettori più giovani… e ricorderà agli adulti quello che avevano dimenticato.
Ogni libro che scrivo è un pezzo di un mosaico. E anche se ogni storia può essere letta da sola, tutto è connesso. Ogni personaggio, ogni simbolo, ogni frase non detta.
L’Archivio Blackwood non è mai stato solo una serie di romanzi. È un mondo. E vi assicuro: abbiamo appena iniziato a sfogliarlo.
Luoghi reali che sembrano usciti da un romanzo gotico
Londra non è solo la città che ospita le storie dell’Archivio Blackwood: è essa stessa una storia che si racconta da sola. Dietro ogni muro annerito dalla fuliggine, sotto ogni lastra di pietra, si nasconde un varco. Non verso l’inferno – quello è troppo semplice – ma verso i segreti dimenticati.
Scrivendo i miei romanzi, passo dopo passo, mi sono imbattuto in luoghi reali che sembrano inventati. E invece sono lì, in carne, pietra e polvere. Questo articolo è un viaggio. Non serve una lente d’ingrandimento, ma occhi che sappiano ancora vedere.
La cripta della chiesa di St. Bride – Dove il silenzio scrive ancora
Sotto l’elegante chiesa barocca di St. Bride’s, nel cuore di Fleet Street, c’è una cripta che pare respirare. Un tempo rifugio e ossario, oggi è uno dei pochi luoghi dove il tempo si è fermato. Le ossa che dormono lì non sono famose, ma forse proprio per questo inquietano. Alcuni parlano di un odore dolciastro che si diffonde in certe notti umide, e di una figura che si aggira tra le colonne.
Una delle scene del mio romanzo è nata proprio qui, in punta di piedi, con la torcia tremolante di uno dei custodi notturni che ancora ricorda un passo alle sue spalle…
I tunnel murati sotto Aldwych – Il cuore sigillato della città
Aldwych Station è chiusa da decenni. Ma il vero segreto non è il binario dimenticato. Sono i passaggi murati, i cunicoli in pietra che nessuno osa più aprire. Dicono portassero a magazzini, rifugi antiaerei, archivi. Ma c’è chi parla di celle monastiche, cappelle sotterranee e perfino stanze in cui si praticavano rituali esoterici durante il periodo vittoriano.
Uno degli ultimi esploratori urbani che ci è entrato, nel 2007, ha lasciato online una nota criptica: “C’erano tracce di cera. Ma non c’erano mai state candele.”
La casa abbandonata di Cock Lane – Il fantasma di Scratching Fanny
Cock Lane, vicino a Holborn, è uno di quei nomi che strappano un sorriso… finché non si scopre cosa è accaduto al numero 25. Nel 1762, una giovane serva chiamata Fanny morì in circostanze sospette. Qualche settimana dopo, iniziarono rumori, graffi, lamenti. Il caso fu tanto noto da coinvolgere perfino William Hogarth e Samuel Johnson. Il fenomeno venne poi etichettato come truffa… ma la casa, nei secoli, non fu mai più abitata a lungo. Oggi è murata. Nessuno ne parla, ma l’archivio cittadino ne segnala ancora l’esistenza, tra carte sbiadite e progetti mai approvati.
Il Club delle Ossa – Dove i vivi brindavano ai morti
A due passi da Piccadilly, in un edificio oggi anonimo, esisteva il cosiddetto Club delle Ossa, una società segreta vittoriana che si riuniva per cene commemorative… con ospiti molto particolari. Alcuni membri erano imbalsamatori, medici, altri semplici nobili eccentrici. La cena prevedeva un posto vuoto a tavola e un calice di vino versato in terra, seguito da un brindisi silenzioso. Ogni mese un nome veniva estratto e… scompariva. Nessun verbale è mai stato ritrovato, solo lettere anonime e una medaglia nera con inciso: “Viviamo per ricordare.”
Il passaggio nascosto dietro la libreria di Holborn – Una leggenda urbana?
C’è chi giura che in una vecchia libreria di Holborn – non più esistente – si trovasse una scala nascosta dietro un pannello. Un corridoio che portava sotto il Tamigi, verso il Temple. Ovviamente non ci sono prove, solo racconti tramandati da generazioni di antiquari. Ma uno dei miei contatti all’università mi mostrò una mappa del 1826, con una linea rossa senza nome, che partiva proprio da lì.
E se fosse vero?
In fondo, Londra non è cambiata.
Camminando per i suoi vicoli, ti accorgi che i muri non dimenticano. Che sotto i nostri piedi c’è un secondo mondo, fatto di silenzi, pietra umida e memorie sigillate. I romanzi gotici non li abbiamo inventati. Li abbiamo solo trascritti. Erano già lì.
Ci sono storie che non ti lasciano in pace. Non perché affascinino, ma perché inquietano, disturbano, costringono a guardare in fondo a ciò che normalmente scegliamo di ignorare. Così, quasi dieci anni fa, iniziai a scrivere un saggio su Ed Gein, un uomo la cui mente contorta e tragica ha ispirato alcuni dei personaggi più iconici dell’orrore: Norman Bates in Psycho, Leatherface in Non aprite quella porta, Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti.
L’occasione nacque guardando American Horror Story – Asylum: il personaggio di Bloody Face, liberamente ispirato a Gein, mi spinse a chiedermi cosa ci fosse davvero dietro la maschera del mostro. Da quel momento cominciai a raccogliere documenti, interviste, testimonianze e rapporti dell’epoca. Non volevo scrivere un libro sensazionalistico, ma un saggio d’indagine psicologica, capace di separare la realtà dai miti che il cinema aveva creato intorno a lui.
Mi fermai a poche pagine dalla fine, travolto da lavoro e vita quotidiana. Ma quella storia rimase lì, sospesa. Quando, qualche mese fa, Netflix ha annunciato la nuova serie su Ed Gein, ho sentito il bisogno di riprendere in mano quel manoscritto e completarlo. Rileggendolo, ho ritrovato l’emozione e il disagio di allora, ma anche la consapevolezza che dietro la follia di Gein c’era un contesto umano, familiare, religioso e culturale che meritava di essere compreso, non solo giudicato.
Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana è il risultato di quel percorso. Un lavoro che unisce ricerca, introspezione e analisi psicologica, per capire come un uomo comune possa trasformarsi nell’archetipo stesso del male.
I 7 autori più inquietanti della storia (e le loro morti oscure)
C’è un filo nero che collega la mente degli scrittori alla fine che li attende. Alcuni sembrano averlo saputo da sempre. Altri hanno solo raccontato l’oscurità… finché non li ha inghiottiti. Scrivendo Il Vangelo delle Ombre, mi sono chiesto più volte se il male narrato possa lasciare un’eco reale in chi scrive. Così ho scavato nei diari, nei giornali dell’epoca, nei testamenti. Quello che ho trovato è un elenco di autori che sembrano usciti dai miei romanzi, non per i libri, ma per la loro vita.
Ecco 7 scrittori realmente vissuti che potrebbero tranquillamente abitare le pagine dell’Archivio Blackwood.
1. Gérard de Nerval – impiccato con una gamba di donna
Poeta visionario, frequentatore di cimiteri e gatti neri. Nerval scriveva di sogni, allucinazioni, anime sdoppiate. Ma una notte del 1855 uscì di casa dicendo: “Sto per entrare nell’ignoto.” Il giorno dopo fu trovato impiccato con la bretella di un vestito da donna. Nessuno seppe mai spiegare se fu suicidio, delirio o rituale. Il medico che lo visitò annotò solo: “Aveva un volto sereno, ma era come se avesse già visto ciò che noi ignoriamo.”
2. August Strindberg – lo scrittore che vedeva i demoni
Strindberg è oggi celebrato come un drammaturgo svedese, ma pochi ricordano il suo periodo “alchemico”. Convinto di essere perseguitato da spiriti malvagi e da una setta segreta, passò anni a scrivere trattati esoterici. Dormiva con una pistola sotto il cuscino e affermava di vedere facce deformi apparire sui muri. Morì nel 1912, tra febbri, visioni e profezie mai chiarite.
3. Edgar Allan Poe – la morte perfetta per un suo racconto
Fu trovato a Baltimora nel 1849, con abiti non suoi, delirante, incapace di spiegare cosa gli fosse successo. Morì dopo quattro giorni di agonia. Mai saputo se fu omicidio, avvelenamento, o una di quelle “coincidenze troppo perfette” per sembrare reali. Poe aveva scritto spesso di sepolture premature, morte mentale, allucinazioni… Morì proprio come i suoi personaggi: da solo, parlando con fantasmi che nessuno vedeva.
4. Girolamo Segato – lo scienziato che pietrificava i cadaveri
Non era uno scrittore nel senso classico, ma i suoi diari e appunti sono tra i più macabri mai esistiti. Nel XIX secolo, Segato sviluppò un metodo per trasformare il corpo umano in pietra. I suoi “reperti” si trovano ancora oggi a Firenze. Quando morì, portò con sé il segreto, temendo che finisse nelle mani sbagliate. I suoi scritti sono stati studiati anche per Il Vangelo delle Ombre…
5. Robert E. Howard – autore di Conan, ma prigioniero della madre
Creatore del mitico Conan il Barbaro, Howard fu uno scrittore prodigioso. Ma anche un uomo tormentato da dipendenze, incubi e da un legame morboso con la madre malata. Quando capì che lei stava morendo, salì in macchina, si puntò la pistola alla tempia e sparò. Morì due giorni dopo… proprio mentre la madre esalava l’ultimo respiro.
6. Georg Trakl – poeta maledetto e il mistero della sorella
Trakl era poeta, farmacista… e forse qualcosa di più oscuro. Scriveva versi che parlavano di incesto, morte, angeli deformi. Venne trovato morto per overdose in un ospedale da campo durante la Prima Guerra Mondiale. Molti biografi sospettano una relazione ossessiva con la sorella Grete, anche lei morta in circostanze misteriose.
7. Thomas Ligotti – l’autore che vive come un fantasma
Ancora in vita, ma praticamente invisibile. Ligotti non appare in pubblico, non concede interviste. Nei suoi racconti, la realtà è solo una maschera appesa al nulla, e l’esistenza un errore cosmico. Se mai lo incontrassi, lo immaginerei in una stanza chiusa, con tende pesanti e una macchina da scrivere che sputa incubi. Molti credono che sia il vero erede di Lovecraft. Forse qualcosa di più.
Scrivere dell’orrore, a volte, è come evocarlo. Ma questi autori non si sono limitati a scriverlo. Lo hanno vissuto. Lo hanno subito. Alcuni, forse, non ne sono mai usciti.
E tu? Hai mai letto qualcosa che ti è rimasto dentro… troppo a lungo?