A partire da settimana prossima, inauguriamo una nuova rubrica dedicata a voi lettori, curiosi, appassionati e investigatori dell’oscuro: “Domande all’Archivista”.
Ogni giovedì pubblicherò sulla mia pagina Facebook un post dedicato, dove potrete scrivere domande, curiosità, teorie o anche semplici riflessioni sul mondo di Blackwood, sulla Londra vittoriana, sulla scrittura gotica, sui personaggi o su qualsiasi elemento che vi abbia colpito tra le mie opere.
Alcuni esempi:
“Blackwood è ispirato a un personaggio reale?”
“Ci sono documenti autentici dietro i racconti?”
“Qual è stata la scena più difficile da scrivere?”
“Perché quel simbolo appare sempre nei tuoi racconti?”
Ogni settimana sceglierò 3 domande, quelle che più mi colpiranno o stimoleranno una riflessione, e risponderò direttamente sotto al post.
Regole semplici ma importanti:
No offese.
No contenuti volgari o fuori tema.
Chi non rispetta le prime due regole verrà cancellato e bannato.
Sarà un modo per dialogare, approfondire, e magari… scoprire nuovi indizi nascosti tra le pagine.
Londra, 1888. L’aria sa di carbone e nebbia, i lampioni a gas crepitano nella notte, le carrozze sferragliano tra vicoli sconnessi e portoni serrati. Scrivere una storia ambientata in quel mondo significa — prima di ogni cosa — entrarci in punta di piedi. Non basta conoscere i fatti. Bisogna imparare a vivere con loro.
Per chi scrive narrativa gotica e investigativa, il 1888 non è solo un anno: è una soglia. È l’anno di Jack lo Squartatore, l’anno in cui la metropoli vittoriana rivela il suo volto più oscuro. Ma è anche l’anno in cui tecnologia e occulto, razionalismo e superstizione convivono nello stesso respiro. È un equilibrio fragile, affascinante, e difficilissimo da ricreare.
Le difficoltà
Documentazione accurata Ogni parola sbagliata rischia di spezzare l’incanto. Serve conoscere non solo la cronologia degli eventi, ma anche i dettagli minimi: come si vestiva un ispettore di Scotland Yard? Come si pagava un biglietto del treno? Quali parole erano in uso nel parlato quotidiano? Ogni anacronismo è un rumore che rompe il silenzio della pagina.
Lingua e stile Non si può scrivere come nel 2025. Ma nemmeno come nel 1888. Serve un compromesso. Uno stile evocativo, ricercato, ma accessibile. Una lingua che sappia accarezzare la carta come farebbe una piuma d’oca in un archivio impolverato. Non è semplice, ma è proprio lì che nasce la magia.
Mentalità d’epoca Il vero ostacolo? Entrare nella testa di chi viveva allora. Il dolore, l’onore, la colpa, la fede, la paura: tutto aveva un altro peso. Un personaggio del 1888 non reagisce come noi. Non pensa come noi. E lo scrittore deve accettarlo, anche quando fa male.
Il fascino
Atmosfere dense Il 1888 è un teatro perfetto per storie di mistero, occultismo e indagini impossibili. Ogni strada nasconde un segreto, ogni edificio ha una storia. La nebbia non copre: sussurra.
Il tempo come alleato Raccontare un mondo senza cellulari, GPS o Internet obbliga il lettore (e l’autore) a rallentare. Ogni indizio viene cercato a lume di candela, ogni messaggio viaggia per posta o telegramma. E ogni decisione pesa di più.
Libertà narrativa L’assenza di tecnologia permette di scavare in ciò che conta davvero: gli occhi, le parole, le ombre nei gesti. Il mistero non è risolto da un algoritmo, ma da un’intuizione, da un diario bruciato, da una pagina strappata che non voleva essere letta.
Scrivere nel 1888 è un viaggio. A volte frustrante. Spesso complesso. Ma quando tutto si incastra, quando la carta odora davvero di fumo e la voce del detective sembra provenire da una stanza vera… allora sì, vale ogni fatica.
Benvenuti nell’Archivio Blackwood. Le sue porte sono sempre aperte. Ma attenzione: non sempre vi faranno uscire.
Nel cuore dei racconti dell’Archivio Blackwood si nascondono simboli, rituali e riferimenti oscuri che affondano le radici in documenti reali. Ma quanto c’è di vero nei testi inquisitoriali, nei grimori citati, nei rituali descritti nelle pagine di Il Vangelo delle Ombre o Le Ombre di Whitechapel?
La risposta è disturbante: più di quanto si pensi.
I manuali dell’Inquisizione
Molti dialoghi tra Blackwood e padre Quinn sono ispirati direttamente al Malleus Maleficarum, al Directorium Inquisitorum e ai processi originali della Santa Inquisizione. Nei miei appunti ho spesso consultato testi latini che elencano formule per riconoscere i “posseduti“, interrogatori sui “segni del demonio“, e perfino modalità rituali per “chiudere i varchi“. Alcune frasi presenti nei romanzi sono citazioni quasi letterali, tradotte per essere comprese nel racconto.
I riti (non sempre) inventati
Non tutti i rituali descritti sono frutto di fantasia. Alcuni provengono da testi come il Clavicula Salomonis o il Lemegeton, usati realmente da alchimisti e occultisti tra Medioevo e Ottocento. Altri sono mescolanze, rielaborati per dare coerenza alla narrazione gotica.
La paura del corpo, il mistero dell’anima
L’orroredell’epoca non era solo nella superstizione, ma anche nella scienzaprimitiva. Molte possessioni erano in realtà crisi epilettiche, isteria o traumi psichici. Ma l’Inquisizione, e gran parte della popolazione, vi vedeva la mano del diavolo. Nei miei romanzi ho cercato di mantenere questa ambiguità: non tutto è spiegabile, ma nulla è puramente fantastico.
Perché usare fonti reali?
Perché la paura più potente nasce dal dubbio. Se leggendo un rituale ti chiedi: “E se fosse esistito davvero?”, allora l’immaginazione è già in trappola. E Blackwood sa bene che il confine tra realtà e incubo è sottile come un filo di cera sciolta.
Ci sono immagini che ti attraversano senza bussare.
Non chiedono permesso, non si annunciano con logica: arrivano come un sussurro nella notte, una lama sotto pelle, e restano lì. Impossibili da ignorare. E spesso, sono proprio quelle che finiscono nei racconti di Blackwood.
Molti mi chiedono: “Come nascono certe scene?”
Quelle della bambola con la bocca cucita, della donna in vestaglia che parla in latino davanti al camino o della scala che sale nel nulla tra la nebbia. E la risposta è sempre la stessa: non le creo. Le osservo.
L’origine di una visione
Di solito accade la sera, quando il rumore del mondo rallenta. Il cervello smette di costruire e comincia a raccogliere. Ed è lì che compaiono.
Una frase. Un’ombra. Un suono.
Una volta mi sono svegliato con una frase precisa in testa, come se me l’avessero detta nel sogno:
“L’unica porta che non dovresti aprire è quella che hai dentro.”
Da lì, è nata la scena della chiave nello sterno. Non sapevo ancora chi fosse il cadavere sul tavolo, né chi l’avesse aperto, ma la chiave era lì. Conficcata nel centro del petto. E ho iniziato a scrivere.
Luce fioca e simboli antichi
Altre volte, è tutto più razionale. Studio libri sul folklore, su culti oscuri, sulla simbologia medievale, e poi la mente fa il resto. Un simbolo trovato in un grimorio del XVII secolo può finire inciso nel muro di una camera da letto. Una formula latina antica diventa un sussurro blasfemo nella bocca di una posseduta.
SPOILER: Anche il Viaggiatore dell’Ombra, apparso per la prima volta ne Il Vangelo delle Ombre, è nato così. Non volevo descriverlo in modo chiaro. Era troppo potente per essere limitato in una forma. Ma avevo un’immagine: un’ombra alta, senza occhi, che si piega sulle vittime come un velo unto.
Il tempo come alleato
Non tutte le idee arrivano complete. A volte ci mettono mesi a maturare. SPOILER: La scena dell’orfanotrofio nel racconto Hollowgate (in stesura) è nata da un incubo fatto nel 2024, che ho annotato nel telefono. Solo un anno dopo ho capito dove andava collocato: nel passato di Elias, il bambino con il simbolo tracciato sul muro.
Scrivere horror gotico non significa solo spaventare. Significa riportare a galla tutto ciò che la società moderna ha dimenticato. Le paure primordiali, le ombre interiori, il bisogno di dare un volto al male.
E quando non arriva nulla?
Non scrivo. Mai forzare l’oscurità. Aspetto. Leggo. Cammino nella nebbia. A volte la scena che cercavi arriva quando smetti di inseguirla.
E quando lo fa… la riconosci subito. È quella che ti fa abbassare gli occhi dopo averla scritta.
Vuoi scoprire da dove arrivano le altre visioni?
Allora tuffati nei racconti dell’Archivio Blackwood. Ma attento: alcune porte, una volta aperte… non si richiudono.
Nell’epoca degli algoritmi e dei contenuti istantanei, scrivere un libro gotico non significa più solo sedersi alla scrivania e battere parole sulla tastiera. È un lavoro che si ramifica, che chiede occhi su più dimensioni: narrativa, estetica, visiva, emotiva. E ogni dimensione ha bisogno di tempo, cura e disciplina. Oggi voglio raccontarti come gestisco tutto questo universo oscuro chiamato Archivio Blackwood.
La scrittura come ossessione organizzata
Scrivo ogni giorno, o almeno ci provo. Il mio metodo è semplice: fissare una scaletta dettagliata, con capitoli, sottotrame e scene chiave. Non inizio mai un racconto senza sapere dove voglio arrivare, anche se poi mi concedo deviazioni impreviste. Ogni scena che leggi è il frutto di una progettazione precisa: atmosfere, ritmo, struttura del dialogo e “densità gotica”. Niente è lasciato al caso. Ogni parola deve trasmettere qualcosa. Se non vibra, la riscrivo.
Controllo ossessivo della coerenza narrativa
Ogni libro dell’Archivio Blackwood è connesso agli altri. Questo significa che tutto deve combaciare: date, personaggi, eventi. Tengo un archivio interno con cronologie, mappe, genealogie e simboli. Lo consulto spesso, perché basta un dettaglio fuori posto per far crollare la magia dell’universo narrativo. Quando inizio un nuovo capitolo, rileggo quello precedente per assicurarmi che ci sia continuità fluida e coerenza emotiva.
Le immagini: non solo illustrazioni, ma estensione del testo
Le immagini che vedi su Instagram o nei reel non sono solo promozione: sono parte della narrazione. Ogni immagine è pensata per evocare un frammento del racconto. Lavoro ogni giorno con un sistema di prompt, revisioni e generazioni grafiche per ottenere una palette coerente, atmosfere realistiche e suggestioni disturbanti. Il logo cambia a seconda della scena, dei colori, del tono. L’estetica gotica è un linguaggio a sé: non può essere fissa, deve mutare, insinuarsi.
La promozione: costante, senza mai diventare invasiva
Non amo l’autopromozione fine a sé stessa. Preferisco raccontare. Ogni post sui social è un’estensione del mio mondo: un estratto, un’immagine, un simbolo, una frase.Uso il blog, Instagram, Facebook e Substack per creare connessioni, non per vendere. Eppure funziona. Quando un lettore sente che lo stai coinvolgendo in qualcosa di più grande, che lo stai guidando in un mondo, sarà lui a volerci restare.
Come tengo tutto insieme
Il segreto? Organizzazione maniacale.
Ogni settimana creo una lista di cose da fare, divisa per categorie: scrittura, immagini, articoli, correzioni, post, contatti editoriali.
Uso cartelle nominate per data e progetto, così trovo tutto subito.
Dedico una giornata fissa a settimana per la promozione. Gli altri giorni scrivo.
Tengo sempre un file Word con idee nuove, scene da recuperare e nomi da usare in futuro.
In sintesi
Scrivere oggi è un mestiere complesso, ma se hai una visione e non la tradisci, tutto si incastra. Ogni storia è un corpo. Ogni dettaglio è carne. Ogni immagine è pelle. E ogni post, se fatto bene, è una ferita aperta sul mondo reale, un invito per chi vuole entrare.
Tra simboli ricorrenti, luoghi che ritornano e verità mai dette
C’è chi legge L’Archivio Blackwood come una raccolta di racconti separati. E, in parte, lo è. Ogni storia può vivere da sola. Ogni volume può essere letto indipendentemente. Ma chi legge con attenzione – chi si lascia immergere fino in fondo – comincia a notare connessioni. Segni. Echi.
Non è un caso. L’Archivio Blackwood non è solo una serie di racconti gotici. È un universo narrativo coerente. Un mondo fatto di simboli, luoghi, nomi e presenze che si intrecciano, a volte apertamente, più spesso in silenzio.
La coerenza invisibile
Non c’è bisogno di mappe o cronologie per orientarsi nei miei racconti. La coerenza è fatta di dettagli: un cognome che riappare, un oggetto ricorrente, una frase identica sussurrata da due personaggi vissuti a chilometri di distanza.
Il mondo dell’Archivio funziona come un ecosistema chiuso: le sue regole non vengono spiegate, ma rispettate. E i lettori più attenti se ne accorgono. Non c’è bisogno di dichiarare “è un universo condiviso”: lo si intuisce dal modo in cui tutto vibra alla stessa frequenza.
Luoghi che parlano tra loro
Alcuni edifici ritornano. Non sempre con lo stesso nome. A volte sono case, altre volte istituti,archivi, cliniche. Ma dentro custodiscono lo stesso odore di cera, lo stesso silenzio.
Londra è il punto fermo, certo. Ma una Londra filtrata dal mito e dalla paura, in cui non esistono certezze spaziali. È la città stessa ad adattarsi al tono della storia, come se fosse parte viva del racconto.
Oggetti, non citazioni
Mi piace disseminare ogni storia di oggetti ricorrenti. Non come citazioni nostalgiche, ma come elementi vivi. A volte cambiano nome. Altre non vengono mai nominati, ma si intuiscono dalla forma o dal gesto.
Chi li riconosce non ottiene risposte. Ma sa di essere sulla strada giusta. È una ricompensa silenziosa per chi legge non solo con gli occhi, ma con l’ombra.
Perché tutto questo?
Perché scrivo come se stessi riempiendo uno stesso archivio, stanza dopo stanza. Non tutte le cartelle sono etichettate. Alcune sono strappate. Altre contengono due verità che si contraddicono. Ma sono tutte nello stesso luogo. E quel luogo è l’Archivio Blackwood.
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Ci sono giorni in cui Londra sembra decidere da sola dove farti andare. Oggi fu uno di quelli.
Era un pomeriggio umido, appiccicoso. La nebbia aveva un odore ferroso, come se gocciolasse ruggine anziché pioggia. Stavo camminando lungo Ashcroft Lane, un vicolo stretto di cui non ricordavo l’esistenza. Né sulle mappe né nei miei ricordi.
Le case ai lati erano tutte murate. Finestre inchiodate, porte annerite, come occhi chiusi da troppo tempo.
Poi la vidi. Una porta rossa.
Non c’era nel tratto che avevo appena percorso. Ne sono certo. Eppure adesso era lì: incastonata in un muro cieco, con la vernice sfogliata, ma ancora viva. Sembrava… aspettarmi.
Mi fermai. La strada era silenziosa. Troppo silenziosa. Nessun passo, nessun cigolio, nessun odore se non quello — metallico — della nebbia.
Alzai una mano e bussai. Tre colpi secchi. Lo feci senza pensarci. Come se il mio corpo sapesse qualcosa che la mia mente ignorava.
La porta si aprì. Non cigolò. Non si spalancò. Semplicemente non c’era più.
Davanti a me, un corridoio lungo. Pieno di specchi, uno dopo l’altro. Tutti coperti da lenzuola grigie. C’era odore di cera bruciata e fiori marci. Il pavimento era bagnato, ma non pioveva. Non lì dentro.
Entrai. Dietro di me, nessun rumore. Solo i miei passi. Eppure lo giuro: sentivo il fiato di qualcuno sul collo.
Alla fine del corridoio, una porta identica alla prima. Rossa. Ma con qualcosa inciso sopra. Un simbolo che avevo già visto — in un incubo.
Posai la mano sulla maniglia. Fredda.
Aprii.
E non vi dirò cosa vidi. Non oggi.
Ma da quel giorno, ho cominciato a ritrovare la porta. A Limehouse. A Kensington. A due passi dalla mia casa. Sempre identica. Sempre non presente. Finché non la cerchi davvero.
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Ci sono luoghi a Londra in cui il silenzio pesa più del rumore. Dove il passo dell’uomo si smorza nella nebbia, e ogni strada sembra condurre a una verità taciuta. Uno di questi è Bethnal Green, incastonata tra le maglie fatiscenti dell’East End, quartiere operaio e violento, abitato da spettri in carne e ossa.
Nel 1885, l’anno in cui si svolgono i fatti de Il Macellaio di Bethnal Green, questa zona era già nota per i suoi vicoli infestati, le bettole maledette e i locali opachi che odoravano di alcool, sangue e disperazione. Chi ci abitava diceva che certe notti non appartenevano più agli uomini, ma a qualcosa che camminava sotto pelle, nei muri, nei condotti dell’acqua, nei battiti accelerati di chi si accorgeva troppo tardi di essere seguito.
Il quartiere che inghiotte
Bethnal Green non si limita a nascondere: inghiotte. Persone, voci, memorie. E quando restituisce qualcosa, non è mai ciò che si era perso, ma una versione distorta. Molti riferiscono ancora oggi di un odore dolciastro, simile a carne lasciata troppo a lungo sul banco. E quel tanfo compare solo in alcune strade, vicino a porte murate da tempo o botole arrugginite. Nessuno le apre. Nessuno ha mai voluto sapere.
Il caso del Macellaio
Nel racconto, una serie di sparizioni e ritrovamenti mutilati scuote l’intera città, ma la verità sembra volersi nascondere proprio sotto il suolo di Bethnal Green. E non è una metafora. Nei documenti dell’epoca – alcuni autentici, altri deformati dalle leggende – si parla di un certo “uomo dalla giacca macchiata”, che portava con sé sacchi di iuta gocciolanti e che scendeva ogni notte nei sotterranei di un magazzino dismesso.
I bambini lo chiamavano “il Cuocitore”, e chi osava nominarlo, finiva col non dormire più.
Il silenzio è un personaggio
Bethnal Green ha un’anima. Nel mio racconto, non è solo un’ambientazione: è il testimone muto di eventi troppo indicibili per restare nei registri della polizia. È il palcoscenico insanguinato di un male che non si annuncia con grida, ma con assenze.
Perché il vero orrore, spesso, non fa rumore. E continua a tagliare anche quando le lame sono sparite da un pezzo.
“Ci sono quartieri in cui le ombre si limitano a seguire i passi. E altri, come Spitalfields, in cui decidono la direzione del tuo cammino.”
Non avevo motivo per essere lì a quell’ora. Eppure, qualcosa mi attirava tra le strade umide di Spitalfields, come un cappio sottile stretto al collo dei pensieri. Era l’ora che precede l’alba, quando anche il vento sembra incerto, e i gatti si muovono guardinghi, come messaggeri di qualcosa che noi umani fingiamo di non vedere.
Il vecchio mercato era immobile. Le bancarelle, coperte da teli luridi, sembravano cadaveri in attesa di sepoltura. Nessuna voce, nessun passante. Solo io, e l’eco distante di qualcosa che… respirava. Sì, respirava. Lentamente. Da sotto il pavimento.
Mi fermai accanto a una colonna spezzata, là dove un tempo si vendevano mele candite e carne di agnello. Ora, il legno marcito mostrava intagli che non avevo mai visto prima. Simboli… grezzi, ma antichi. Alcuni simili a quelli rinvenuti nei dossier dell’Archivio. Ne tracciavo uno col dito quando un tonfo improvviso squarciò il silenzio: un telo era caduto. E sotto di esso, una figura curva, coperta di stracci neri, stava fissa davanti a una gabbia vuota.
«Ha lasciato l’odore», sussurrò. «Chi?» chiesi, più con il fiato che con la voce. «L’ultimo che ha provato a raccontare cosa ha visto qui sotto. Ma ora non ha più lingua.»
Mi voltai, ma nessuno mi seguiva. E quando mi rigirai, la figura non c’era più. Solo la gabbia, e dentro… Un biglietto.
“Chi scava nel mercato, trova ciò che Londra voleva dimenticare.”
Lo conservo ancora. È scritto con una grafia che non ho mai saputo identificare, e con un inchiostro che sa di ruggine e salamoia.
Spitalfields non è un luogo. È una ferita aperta della città. Un diaframma tra il visibile e il proibito.
Rubrica: Dossier Segreti n. 24 – Kensington, 12 dicembre 1888 A cura dell’Archivio Blackwood – Materiale riservato
Nella notte tra l’11 e il 12 dicembre 1888, durante l’ispezione nella casa signorile della famiglia Fairweather a Kensington, l’ispettore Edgar Blackwood e padre Marcus Quinn scoprirono un passaggio occulto dietro a una libreria nel vecchio studio dei padroni di casa.
Il passaggio conduceva a una stretta scala di servizio in pietra, la cui cima portava a una soffitta dimenticata, soffocata dalla polvere e dall’odore di carta bruciata. Lì, celati tra travi annerite e scatole di legno inchiodate, furono rinvenuti cinque disegni rituali incisi a mano su fogli di pergamena.
Descrizione dei disegni
I documenti, danneggiati dal tempo e da tentativi evidenti di distruzione (angoli strappati, cera fusa, fori da bruciature), riportano simboli non riconducibili a culti cristiani, e anzi in aperto contrasto con ogni dottrina teologica.
1. Il Nodo dell’Offerta Un intreccio di linee concentriche che rappresentano il legame tra il corpo umano e ciò che vive “sotto”, come descritto nel Codex Tenebris.
2. Il Cuore Rovesciato Un organo stilizzato con lettere latine scritte al contrario, contornato da croci capovolte e da una frase incompleta: “Et sanguis eius fiet apertura…”
3. La Chiave della Bocca Disegno disturbante di una bocca cucita, simile a quella delle bambole rituali, con tre chiavi pendenti da una linea sottile come un capello.
4. Il Viaggiatore Figura umanoide schematica, priva di volto, ma con un simbolo circolare sul petto (già comparso nei casi di possessione).
5. Schema per un’offerta viva Un corpo umano steso su un altare di pietra. La testa è cerchiata tre volte, e l’annotazione a lato recita: “Non il corpo, ma la parola. Non la vita, ma la voce.”
L’ipotesi
Secondo padre Quinn, questi disegni farebbero parte di un vecchio rituale interrotto, che il reverendo Whitmore avrebbe tentato di ricostruire. Ma da dove ha tratto questi simboli? E perché conservarli in un luogo così segreto?
Note dell’Archivio
I simboli combaciano parzialmente con quelli rinvenuti in una missione giovanile di Whitmore in Scozia, nel 1872, durante l’episodio conosciuto come “La Veglia Nera di Glamis”, finora classificato come leggenda. Ciò indicherebbe una lunga pianificazione, e forse una rete più estesa di adepti.
Il caso resta aperto nei fascicoli riservati dell’Archivio Blackwood. Chi desidera ricevere le immagini originali in formato riservato (per uso narrativo o illustrativo), può iscriversi al canale Telegram ufficiale.