Quando il corpo diventa testo: anatomia del macabro da Jack lo Squartatore a Ed Gein


Ci sono figure criminali che non si limitano a commettere un atto violento: scrivono sul corpo delle vittime, imprimono un messaggio, trasformano la scena del crimine in un linguaggio disturbante e inevitabile.
È ciò che accomuna – pur con enormi differenze storiche, psicologiche e culturali – due nomi scolpiti nell’immaginario del macabro: Jack lo Squartatore e Ed Gein.

Il corpo come narrazione del male

In criminologia, il corpo della vittima viene analizzato come un testo: ogni ferita, ogni mancanza, ogni postura racconta qualcosa dell’autore.
Non è solo anatomia, è semiotica del delitto.

  • Jack lo Squartatore usava il corpo per inviare prove di superiorità, dominare l’investigazione, dimostrare controllo.
  • Ed Gein, al contrario, trasformava il corpo in materia rituale, parte di un mondo interiore deformato da ossessione materna, religione distorta e isolamento sociale.

In entrambi i casi, il cadavere non è più un corpo: diventa un messaggio.

Jack: la chirurgia improvvisata del terrore

Londra, 1888. Nebbia, vicoli, lampioni tremolanti.
Jack lo Squartatore non uccideva soltanto: incideva, apriva, esponeva.
La disposizione dei corpi, la precisione delle mutilazioni, la scelta delle aree anatomiche… tutto suggeriva un rituale di potere.

Il messaggio era chiaro:
“Io vedo. Io decido. Io sfido.”

La narrativa gotica dell’epoca, da Stevenson a Wilde, non era distante: raccontava lo stesso conflitto tra identità e ombra, tra normalità e pulsione inconfessabile.

Gein: quando il corpo diventa oggetto

Salto di mezzo secolo e migliaia di chilometri: Wisconsin, 1957.
La casa di Ed Gein non è una scena del crimine, ma un museo dell’ossessione.
Qui il corpo smette di essere messaggio per diventare strumento:
maschere, cinture, coppe, rivestimenti, reliquie.

Non c’è sfida alla polizia.
Non c’è messinscena pubblica.
C’è un uomo che usa il corpo come materia prima per ricostruire la figura della madre e placare una solitudine che ha divorato la sua mente.

In criminologia, questo passaggio è decisivo:
Jack comunica col mondo;
Gein comunica con se stesso.

Due epoche, un’unica domanda: perché?

Narrativa e criminologia si incontrano proprio qui:
nella necessità di capire cosa spinge un essere umano a trasformare un altro essere umano in un testo, un trofeo o un simbolo.

Per Jack, il corpo era un palco.
Per Gein, un altare.
Per entrambi, però, il corpo delle vittime è diventato l’unico linguaggio possibile per esprimere ciò che non poteva essere detto.

E forse per questo, ancora oggi, queste storie ci inquietano più di qualsiasi romanzo:
perché mostrano un male che non parla…
scrive.

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Librerie, tomi e codici – I libri dentro i miei libri


Nel cuore dell’universo narrativo dell’Archivio Blackwood non ci sono solo omicidi rituali, sette oscure e simboli indecifrabili. C’è qualcosa di più antico, più fragile e allo stesso tempo più potente: i libri.

Spesso, nei miei racconti, i libri non sono semplici oggetti di scena. Sono strumenti di potere, portatori di verità scomode, porte verso l’indicibile. A volte bastano poche righe vergate su pergamena per cambiare il corso della storia. Altre volte, è la sola esistenza di un volume proibito a far vacillare la mente di chi lo trova.

Ecco alcuni dei volumi più emblematici comparsi nei miei romanzi.


Il Vangelo delle Ombre

Il più noto e allo stesso tempo il più temuto. Non è solo il titolo di un libro: è un oggetto reale nel mondo di Blackwood, un manoscritto rilegato in pelle annerita, segnato da croci antiche e lettere consumate. Le sue pagine non sono tutte leggibili. Alcune mutano, altre scompaiono. È un libro che sceglie chi può leggerlo, e che cambia chi osa farlo.


Il Diario di Vivian Ashcroft (Racconto inedito non ancora pubblicato)

Comparso ne Le Ultime Stanze di Millburn Asylum, è un quaderno pieno di schizzi, poesie deliranti e pagine strappate. Ma ogni frammento custodisce indizi sottili. Le sue annotazioni, scritte con grafia sempre più irregolare, raccontano una discesa nell’incubo. Un diario che è anche un testamento.


Codex Inversus

Citato di sfuggita in più racconti, si dice sia un libro scritto al contrario, da destra a sinistra, le cui frasi diventano comprensibili solo se lette allo specchio. Alcuni credono sia solo leggenda, altri che sia il testo originale da cui nacquero i rituali della Muta dei Santi. Nessuno sa dove si trovi. Forse è meglio così.


Lettere Nere

Non un libro, ma un insieme di messaggi mai spediti, raccolti in un fascicolo rilegato in cuoio, rinvenuto in un convento sconsacrato. I mittenti? Bambini scomparsi. I destinatari? Nessuno. Le parole? Piene di simboli, giochi fonetici, paure infantili. Un libro che non parla a chi lo legge, ma a chi lo ascolta.


Archivio B – Sezione Eretica

Nascosto tra i dossier ufficiali di Scotland Yard, questa sezione è ufficialmente inesistente. Ma esiste. È lì che Blackwood custodisce i casi più anomali, i documenti più impuri, le prove che nessun tribunale accetterebbe, ma che nessuna coscienza dovrebbe ignorare.

In un mondo dove la verità è spesso sepolta sotto veli di cenere e sangue, i libri restano testimoni silenziosi. Ma attenti: nei miei racconti, leggere può essere pericoloso. Perché alcune pagine non si limitano a raccontare. Alcune… osservano.


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Scrivere per Immagini: Come Nascono le Illustrazioni dell’Archivio


“Alcuni pensieri sono troppo bui per essere detti. Così li disegno.”

Nel cuore dell’Archivio non ci sono solo parole. Ci sono immagini. Ombre fissate su carta, evocazioni visive che sussurrano quello che la scrittura, a volte, non osa dire.
Molti lettori mi chiedono: come nascono queste visioni? Le bambole cucite al contrario, i corridoi pieni di figure appese, le biblioteche coperte di muffa…
Non esistono. Eppure esistono. Eccome se esistono.

Il punto di partenza: una frase interrotta

Spesso tutto nasce da una sola immagine mentale. O meglio, da una frase non detta.
Una scena che non ho inserito nei libri, o che si muove dietro le quinte di un personaggio.
Ad esempio, la “Bambola a Rovescio” nasce da una riflessione su un bambino che non ha mai ricevuto carezze. Così, l’unica cosa che può amare è qualcosa di sbagliato. Una bambola costruita all’inverso. Un errore d’affetto.

La costruzione visiva: atmosfera, simboli, omissione

Quando creo un’immagine, non penso solo a cosa si vede.
Penso a cosa manca.
Il gotico, per me, è arte dell’ellissi. Il dettaglio che non si mostra. L’ombra che sembra guardarti ma non ha volto.
Ecco perché in molte immagini il soggetto è senza volto, girato di spalle, o nascosto. Come Blackwood stesso: sempre presente, eppure sempre sfuggente.

La simbologia: ogni immagine ha un significato nascosto

I cerchi rossi sulle mappe, le pagine che fluttuano nell’aria, i libri non aperti
Nulla è messo a caso. Ogni illustrazione è una stanza dell’Archivio. Ogni stanza ha una chiave.
A volte la chiave è nascosta nel libro. A volte, solo nel tuo sguardo.

Il processo tecnico: tra ispirazione e scelta

Tecnicamente, uso strumenti che mi permettono di descrivere ogni dettaglio: dalla luce fioca di una candela, alla muffa che cola dagli scaffali.
Il prompt iniziale è una frase gotica. Poi correggo, rifinisco, elimino.
Ogni immagine passa almeno tre revisioni prima di essere pubblicata. Deve appartenere all’Archivio. Deve avere il tono giusto. Deve inquietare, non solo piacere.

Un universo che si costruisce con parole e visioni

L’obiettivo è sempre lo stesso: creare un mondo coerente e profondo.
Non immagini casuali, non orrore estetico.
Ma visioni che continuano il racconto.
Anche quando chiudi il libro.


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Declan non dimentica – Il racconto mai scritto (parte 1)

Un frammento perduto dai diari di Blackwood

Mi voltai. Non era una visione. Declan O’Connor era lì.”
Londra, 2 dicembre 1888 – ore 04:12
Bloomsbury, stanza 7

C’è una storia che non è mai stata scritta.
Una notte che non compare in nessun dossier ufficiale.
Un ritorno impossibile, mai raccontato.
Eppure… quella notte, qualcosa è accaduto davvero.

Il frammento

Il fuoco nel camino stava morendo.
Blackwood era seduto in silenzio. Il bicchiere di assenzio ancora intatto.
Una goccia di cera colò lenta dalla candela sul tavolo.
Fu allora che la porta si aprì.

Nessun rumore. Nessun vento. Nessun passo.

Solo la figura di un uomo in controluce.
Cappotto irlandese. Cappello consumato.
E una cicatrice sulla guancia sinistra.

Declan.

Blackwood si alzò di scatto, ma la voce si bloccò in gola.
Il bicchiere si rovesciò. Il liquore verde corse sul legno come sangue antico.

Non ti lascerò da solo, Edgar.»

Declan si avvicinò. Le pupille erano vuote, ma lucide. Vive e morte insieme.
Sul petto, cucito nel tessuto lacerato del cappotto, un simbolo. Quello che nessuno era mai riuscito a decifrare.
Una lingua dimenticata, forse.
Un avvertimento.

Blackwood lo guardò senza parlare.
Declan sorrise.
Poi sussurrò:

Non tutti i morti riposano.»

E svanì.

Annotazione a margine del diario (trovata nel 1903)

Quella notte mi svegliai senza sapere se avessi sognato.
Ma trovai un’impronta sul tappeto bagnata di pioggia.
E Declan non aveva mai sbagliato porta.”

Cosa c’è dietro questo frammento?

La scena fa parte di una serie di episodi alternativi o scarti narrativi che ho scritto per testare la voce di Declan dopo la sua morte.
Non erano previsti. Ma si sono imposti da soli.
Come se lui non volesse essere dimenticato.

La parte 2 sarà rilasciata prossimamente, con un dettaglio inquietante:
una lettera scritta da Declan dopo la sua morte, inviata con timbro autentico da Edimburgo il 4 dicembre 1888.

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Le vere lettere dei condannati a morte nell’Ottocento: confessioni, minacce, silenzi

Nel cuore delle prigioni vittoriane, dove il tempo era scandito dal cigolio dei ferri e dai passi lenti delle guardie, esistevano documenti che nessun archivista avrebbe voluto leggere. Le ultime lettere dei condannati a morte.

Scritti con mani tremanti, su carta spesso macchiata di sangue o lacrime, questi messaggi sono tra le testimonianze più disturbanti e umane mai lasciate nei secoli. Alcune implorano perdono. Altre maledicono. Altre ancora… non dicono nulla. Il foglio è bianco, ma conservato come se parlasse.

Lettera n.1 – “Non sarò solo”

Londra, 14 ottobre 1857
“Il mio nome lo avete cancellato, ma il mio corpo tornerà. Mi avete chiamato assassino, ma io ero solo uno specchio. E nei vostri occhi… ho visto lo stesso. Quando mi troveranno domani con la gola aperta, ricordate: io non sarò solo.”
– firmata “T.J.” – impiccato a Newgate

Lettera n.2 – Il silenzio del boia

Bristol, 1862
“Non ho mai parlato in vita mia. Non comincerò ora. Portatela a mia sorella. Dirle che è finita sarebbe troppo. Solo questo: l’uomo che mi uccide domani porta la croce al contrario.”
– firmata con un disegno a carboncino: un occhio cucito

Lettera n.3 – Frammento di un rituale

York, 1881
“Io accetto la punizione. Ma non per quel che ho fatto, per ciò che ho visto. Il sangue era vecchio. Il coltello era già in mano a qualcun altro. Dite loro che a mezzanotte il canto tornerà. Che le tre note aprono la porta. Che il primo nome era il mio.”
– Lettera mai consegnata, trovata sotto il materasso nella cella 17.

Perché conservarle?

Molti storici ignorano o minimizzano il valore di queste lettere. Ma nell’universo dell’Archivio Blackwood, nulla è casuale. Ogni parola scritta da chi sta per morire può diventare profezia, chiave, o maledizione.

Chi studia questi documenti sa che le lettere non vanno solo lette: vanno interpretate. Alcune riportano simboli criptici, inchiostri alterati, frasi palindromiche o segni tracciati a sangue. Alcune sembrano scritte in trance. Come se l’autore non fosse del tutto umano.

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Il fascino delle lettere perdute: perché amo inserire documenti nei miei romanzi

C’è qualcosa di magnetico in una lettera dimenticata, in una pagina ingiallita nascosta tra le pieghe del tempo. Nei romanzi dell’Archivio Blackwood, non è raro imbattersi in una corrispondenza segreta, in appunti logori o in simboli annotati in fretta, con la paura di essere scoperti. Non si tratta solo di espedienti narrativi: sono ponti verso un passato che torna a vivere.

Quando ho iniziato a scrivere Le Ombre di Whitechapel, ho capito subito che non volevo una narrazione lineare. Volevo stratificare il mistero, lasciare che i lettori scoprissero la verità un frammento alla volta, proprio come fa Blackwood. Le lettere, i diari, le pagine strappate da manoscritti proibiti servono a costruire un mondo che sembra respirare da solo, dove il lettore si trasforma in investigatore.

Ne Il Vangelo delle Ombre, i documenti sparsi diventano ancora più centrali. Ci sono confessioni scritte con la mano tremante, pagine in latino macchiate di cera, disegni inquietanti. Non sono solo “pezzi di trama”. Sono voci. Echi. Tracce che raccontano più di quanto possano fare le azioni. In alcuni casi, quei documenti dicono verità che i personaggi non ammetterebbero mai ad alta voce.

Il mio obiettivo è semplice: far sì che ogni lettore senta di tenere tra le mani un frammento di storia maledetta. Come se ogni pagina potesse celare un enigma, un avvertimento, o il testamento di chi non ha mai potuto raccontare la verità. Perché in fondo, anche le ombre hanno una memoria. Basta saperla leggere.


Lettere dall’Archivio – La voce dell’ombra

A volte scrivo non per ricordare, ma per non impazzire.”
— annotazione marginale, archivio privato dell’Ispettore Blackwood

Tra le pagine consumate dall’inchiostro e dal silenzio, esiste un archivio che nessun protocollo riconosce, nessuna procedura ufficiale contempla.
È lì che Edgar Blackwood affida ciò che non può essere detto, ciò che resta quando l’indagine si ferma e i fantasmi rimangono.

Un diario. Una lettera mai spedita. Una frase scritta di notte sul retro di un biglietto d’indagine.

L’Archivio Blackwood non è solo una raccolta di casi. È anche un luogo interiore, fatto di tracce, sospetti, sogni, rimorsi e segreti. Non tutto ciò che viene scoperto può essere spiegato. Non tutto ciò che si combatte ha un nome.

Un frammento (inedito):

Questa notte ho sentito tre passi sulle scale. Il pavimento della canonica era freddo, eppure mi sembrava di percepire un respiro nell’aria, come se qualcosa trattenesse fiato.
Ho acceso la candela, ma nessuno era lì.
Soltanto un segno tracciato sul muro. Lo stesso che trovammo a Limehouse. Lo stesso che Declan disegnava senza accorgersene, nei suoi appunti.
Mi sto perdendo, oppure mi stanno osservando.”

Queste note, frammenti non ordinati, costituiscono una dimensione parallela ai romanzi: non raccontano i fatti, ma l’inquietudine. Non chiariscono i casi, ma lasciano filtrare le crepe dell’uomo dietro l’ispettore.

Per ora restano inedite, come una corrente sotterranea che attraversa la saga.
Ma forse, un giorno, emergeranno alla luce.
Con le loro macchie, le contraddizioni, e il peso dell’oscurità.

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Una lettera antica scritta a mano su un tavolo in legno scuro, con macchie d'inchiostro, cera colata e ombre profonde. Atmosfera gotica, come un frammento dal diario dell’ispettore Blackwood.

Una lettera mai inviata

Dal fondo di un dossier impolverato, è riemersa una lettera che non fu mai spedita. Non è firmata, né datata, ma il tono e la calligrafia appartengono a Edgar Blackwood. Destinatario: Declan O’Connor. Contenuto: una confessione.

Declan,

scrivere il tuo nome è come scalfire il ghiaccio con le dita nude. Fa male.
Non perché non voglia ricordarti, ma perché ogni sillaba che ti riguarda sembra ferire la pelle più sottile che mi resta: quella dell’anima, quella della colpa.

Ti sei sempre fatto carico del peso degli altri. Hai scherzato anche nel fango, hai stretto mani che io non avrei mai toccato, hai seguito la mia ombra nei vicoli peggiori di Londra senza chiedermi mai “perché”.
E io, maledetto me, ti ho lasciato fare. Ti ho tenuto accanto come si tiene una lanterna accesa in un corridoio buio: non per affetto, ma per non inciampare. E ora, senza di te, ogni passo è un colpo secco contro il pavimento.

Non c’eri alla mia destra quando ho aperto il fascicolo successivo. Non c’eri a stringere il sigaro tra le dita, a borbottare che “questo caso puzza peggio del Tamigi”. Non c’eri, ed è lì che ho capito quanto fossi necessario.
Non per il lavoro.
Per me.

Mi è rimasta la tua voce nelle orecchie. Il tuo modo di chiamarmi, con quel tono che non era né rispetto né scherno, ma una via di mezzo perfetta che solo tu sapevi usare.
Mi è rimasto il tuo sangue sulle mani, e non riesco a lavarlo. Non ancora.

Ti prometto una cosa, vecchio amico: non dimenticherò.
E non perdonerò.
Il Viaggiatore pagherà.

Con o senza Dio, con o senza redenzione, verrà il momento in cui la tua morte sarà vendicata.
E allora potrai finalmente riposare.

E io forse… respirare.

— E.B.

Lettera mai consegnata – Padre Quinn a Edgar Blackwood

Ritrovata tra le pagine consunte del breviario, custodita in una tasca interna del mantello logoro. La calligrafia è tremante, incisa come confessione ultima o speranza estrema.

Ispettore Edgar,

scrivo queste righe senza la certezza che ti raggiungeranno.
Forse saranno consumate dalla cenere, forse dimenticate in fondo a una cassa di legno marcito. Ma scrivere mi aiuta. A non cedere.

Stanotte il vento ha fatto tremare le finestre della canonica. Ogni candela si è spenta nello stesso istante, come se qualcosa – o qualcuno – avesse attraversato i corridoi.
Non lo vedo, ma lo sento. È vicino. Non più un’ombra, ma un respiro. Non più un sussurro, ma un nome.

Ti dirò la verità, Edgar: prego senza certezza.
Le mie mani tracciano i segni, ma il cuore dubita. Quanti rituali ho condotto invano? Quante volte ho invocato luce e ho ricevuto silenzio?
Eppure… c’è una voce dentro che mi dice di non fermarmi. Non per fede, ma per necessità. Se falliamo, non ci sarà un dopo. Non per noi. Non per Londra.

Ho rispolverato testi che giacevano sotto polvere e vergogna. Letti solo a metà, perché neanche i santi hanno avuto il coraggio di terminarli.
Eppure adesso li leggo. Rileggo. Studio ogni sigillo, ogni nota, ogni frammento che possa rivelarci un punto debole. Perché ce n’è sempre uno. Ogni male, per antico che sia, ha la sua crepa.

Mi domando se anche tu lo senti, nelle ossa, nei sogni. Quel tempo che stringe, quel confine che si assottiglia.
Siamo stati scelti, non perché siamo pronti… ma perché non possiamo più voltarci indietro.

Che Dio ci guardi, se ancora ci guarda.

Con rispetto, timore e fratellanza,
Padre Marcus Quinn
12 dicembre 1888