In molti pensano al gotico vittoriano come a una semplice estetica: edifici decadenti, nebbia, cimiteri, donne in corsetti e uomini in redingote. Ma il cuore di questo genere è molto più profondo, ed è ancora vivo. È un’eco che parla al nostro tempo, fatta di silenzi, paure sotterranee e ossessioni represse.
Nato in un’epoca di contrasti — la Londra industriale, la morale rigida della Regina Vittoria, l’avanzare della scienza contro la fede — il gotico vittoriano si nutre di ciò che non viene detto. Non urla: sussurra. Non mostra: allude. Le sue storie si muovono tra l’invisibile e il sospetto, tra il razionale e il disturbante.
Un romanzo gotico vittoriano non è solo una storia “oscura”. È una lente attraverso cui guardiamo il dolore, la colpa, la follia, la religione e la morte con occhi antichi ma domande attuali. Gli eroi sono spesso ambigui, tormentati, e mai del tutto puri. I luoghi stessi — case abbandonate, strade di periferia, manicomi, archivi nascosti — diventano personaggi a sé, carichi di memoria e presagi.
Oggi, chi scrive gotico vittoriano non sta solo rievocando il passato: sta usando quel linguaggio per parlare al presente. In un mondo che brucia di velocità, esposizione e iperconnessione, tornare al passo lento di un mistero sussurrato nella nebbia è un atto rivoluzionario.
È per questo che continuo a scrivere nel solco del gotico. Perché ogni nebbia contiene un segreto. E ogni ombra, una verità dimenticata.
C’è un luogo, in Italia, dove l’editoria digitale ha saputo raccogliere ciò che molti consideravano disperso: voci fuori dal coro, racconti disturbanti, narrativa di genere che non chiede il permesso. Quel luogo ha un nome che gli appassionati del fantastico conoscono bene: Delos Digital.
Fondata come evoluzione naturale dell’universo narrativo di Delos Books, questa realtà editoriale ha saputo imporsi nel panorama italiano con un’offerta ricca, specializzata e sorprendentemente accessibile. Ebook agili, curati, in grado di spaziare dal thriller al dark fantasy, dall’horror alla fantascienza più visionaria.
Ma la forza di Delos Digital non è solo nella varietà di collane. È nella sua capacità di dare spazio ad autori con una voce forte, spesso spigolosa, a volte scomoda, ma sempre autentica. È l’unica casa editrice, nel suo genere, capace di pubblicare ebook seriali che costruiscono universi narrativi coerenti, come accade con le grandi collane anglosassoni. E di farlo senza snaturare l’identità dell’autore.
Per me, come autore, è un onore annunciare che una delle mie prossime opere vedrà la luce proprio all’interno di questo catalogo. Un libro che si addentra nei meandri più inquieti della mente umana. Ma per ora, non aggiungerò altro. Solo questo: restate sintonizzati.
Nel frattempo, vi invito a esplorare il mondo di Delos Digital: scoprirete antologie visionarie, saggi coraggiosi, racconti che lasciano cicatrici. Non è solo intrattenimento: è una forma di esplorazione del lato oscuro della letteratura.
Molti lettori mi chiedono quanto ci sia di vero nell’ambientazione dei miei romanzi. La risposta è semplice: tutto… e niente.
Sì, perché la Londra che incontrate tra le pagine dell’Archivio Blackwood nasce da una fusione accurata tra ricostruzione storica e immaginazione gotica. Passeggiare con Edgar Blackwood tra le nebbie di Limehouse, o attraversare i corridoi silenziosi di una casa signorile a Kensington, significa entrare in un mondo dove la documentazione e l’atmosfera si fondono senza soluzione di continuità.
Un tempo sospeso tra 1888 e l’eternità
La mia Londra è quella del 1888, ma non quella da cartolina. È una città che pulsa nel fango, nei vicoli dimenticati, nei sussurri dei quartieri dove la modernità fatica ad avanzare. Dove i lampioni rischiarano più ombre che volti, e il confine tra superstizione e verità è sottile come una lama.
Ogni luogo che descrivo esiste o potrebbe esistere. Ho letto vecchi giornali, mappe, atti ufficiali, ma anche testimonianze popolari, leggende urbane, documenti dell’epoca e lettere personali. Lì dove il documento tace, interviene l’immaginazione.
I luoghi che ritornano
Limehouse, con le sue lanterne giallastre, i moli nascosti e le voci confuse nelle bettole.
Kensington, elegante ma attraversato da silenzi troppo perfetti.
Soho, con il suo cuore doppio: mondano in superficie, inquieto nei sotterranei.
E poi le cripte, gli archivi, le chiese sconsacrate e le stanze dove il tempo sembra non passare mai.
Tutto è progettato per costruire un mondo coerente, dove ogni casa, ogni simbolo, ogni rituale ha una sua storia. Una mappa invisibile che si compone libro dopo libro.
Realtà o finzione?
La verità è che ogni elemento nasce da una domanda: e se fosse andata davvero così? È questa la forza del gotico: prendere la realtà e piegarla fino a farle sussurrare qualcosa di più oscuro, più inquietante… ma anche più profondo.
Se hai letto uno dei miei romanzi, forse ti sei già perso in questa Londra. Se non l’hai ancora fatto… i lampioni sono accesi. Ti aspetto tra le ombre.
Certe città sembrano fatte per il mistero. Londra, nel 1888, non era soltanto la metropoli più moderna del mondo: era anche un labirinto di fumo, sangue e superstizione. Una città bifronte, dove il progresso e l’oscurità camminavano a braccetto. Ecco dieci fatti storicamente verificati accaduti proprio in quell’anno, ognuno più inquietante del precedente.
1. Jack lo Squartatore firmava con lettere piene di odio
Nel 1888 la polizia ricevette diverse lettere firmate “Jack the Ripper”, ma una in particolare — la celebre “From Hell” — conteneva metà di un rene umano conservato in alcol. Il mittente sosteneva di averlo rimosso da una delle vittime. Non fu mai identificato.
2. I becchini rubavano cadaveri per venderli alle scuole mediche
Nonostante la legge del 1832, il commercio illegale di corpi restava attivo. Nel 1888 fu scoperta una rete sotterranea di “resurrezionisti” che dissotterravano salme fresche nei cimiteri di periferia.
3. L’invenzione dell’illuminazione elettrica fece esplodere l’industria degli specchi spiritici
Molti credevano che le prime lampade elettriche attirassero presenze ultraterrene. In quegli anni nacquero circoli esoterici che usavano specchi anneriti per evocare i morti, tra cui la Società degli Osservatori Notturni.
4. A Whitechapel esisteva davvero un “club del sangue”
Nei registri del 1888 si parla di un gruppo elitario chiamato Red Veil Society, che si riuniva in un bordello dismesso. I rituali prevedevano il consumo simbolico di sangue animale. La stampa lo ignorò, Scotland Yard no.
5. Gli ospedali avevano sale separate per i “posseduti”
Al London Hospital e al Bethlem Royal (il famigerato Bedlam) venivano segregati pazienti con disturbi dissociativi. Nei rapporti clinici, alcuni casi furono descritti come “infestazioni dell’anima”.
6. Un’intera famiglia scomparve a Limehouse senza lasciare traccia
I coniugi Lambert e i loro tre figli svanirono in pieno giorno. La casa fu ritrovata vuota, il tavolo apparecchiato. Nessun segno di effrazione. Nessuna spiegazione. Né allora, né oggi.
7. Una pioggia di vermi colpì Camberwell la notte del 2 novembre
Fenomeno meteorologico documentato: testimoni riferirono che il cielo notturno si oscurò, poi iniziarono a cadere vermi vivi dal nulla. I giornali locali parlarono di punizione divina. I naturalisti non seppero spiegare l’accaduto.
8. Il Club Diogenes non era solo invenzione di Conan Doyle
Una versione reale del “club per misantropi” esisteva davvero. Si trovava a Pall Mall, era frequentato da aristocratici e accademici, e i suoi membri firmavano un patto di silenzio. Letteralmente.
9. Londra aveva una fitta rete di tunnel sotto i cimiteri
In caso di epidemie future, si erano scavati tunnel sotto i camposanti per trasportare cadaveri senza passare in superficie. Alcuni vennero chiusi dopo strani “incidenti” con operai spariti nel nulla.
10. Nel 1888 fu ritrovato un libro rilegato in pelle umana
All’interno della biblioteca privata di un collezionista defunto, la polizia scoprì un tomo rilegato in dermatochiria. Conteneva trattati di stregoneria e annotazioni in latino. Il libro fu sequestrato e mai restituito.
Londra, in quell’anno, sembrava davvero il prologo di un romanzo gotico. Non stupisce che ancora oggi, per molti autori come me, sia la culla naturale dell’orrore.
Hai trovato affascinanti questi fatti storici? Scrivimi nei commenti quale ti ha inquietato di più… o quale vorresti leggere in un prossimo racconto dell’Archivio Blackwood.
“Non era pazzo. O almeno non nel modo in cui lo intendiamo.” Questa è una delle frasi più inquietanti pronunciate da uno psichiatra chiamato a valutare Ed Gein, l’uomo che, con la sua follia rurale e il culto morboso per la madre, ha ispirato decine di figure dell’orrore moderno: Norman Bates, Leatherface, Buffalo Bill.
Ma al di là del sensazionalismo, chi era davvero Ed Gein?
Dissociazione e rituale
Secondo i referti psichiatrici redatti dopo il suo arresto nel 1957, Gein soffriva di schizofrenia paranoide con forti componenti dissociative. Ma ciò che colpì gli analisti non fu solo la patologia, bensì la struttura rituale che permeava ogni sua azione:
la scelta delle vittime
l’uso dei corpi per creare “oggetti” (maschere, abiti, arredi)
la conservazione ossessiva dei resti
Tutto in lui obbediva a una logica simbolica disturbata, non a un impulso caotico. Ed Gein non uccideva per godimento. Uccideva per ricostruire un altare alla madre. Perché lei tornasse.
La madre come centro del cosmo
Augusta Gein era tutto per lui: figura religiosa fanatica, ossessiva, manipolatrice. Le sue parole — “tutte le donne sono peccatrici” — si scolpirono nella mente del figlio come un dogma ineluttabile. Quando morì, Ed Gein restò solo con Dio e con i cadaveri.
Nel tempo, cominciò a ricostruire un mondo materno fatto di pelle, ossa, abiti ricuciti. Voleva rivestirsi della madre, diventare la madre. In questo senso, il delitto per Gein non era fine a sé stesso, ma un mezzo per colmare un’assenza cosmica, una ferita metafisica.
Il significato profondo dell’orrore
Gein non è un semplice assassino. È un simbolo. Un archetipo dell’uomo che, di fronte alla perdita, cerca di manipolare la morte attraverso riti, oggetti e simboli. Un uomo che, privato di identità, usa il corpo dell’altro per tentare di ritrovare sé stesso.
Nella sua follia, non c’è disordine. C’è struttura, c’è culto. Un culto privato, oscuro, in cui la madre diventa divinità, e l’omicidio un’offerta sacra.
Vuoi approfondire?
Queste e altre riflessioni si trovano all’interno del mio Libro: “Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”, disponibile qui:
Negli ultimi anni — e in particolare nell’ultimo — stiamo assistendo a un cambio di paradigma nel mondo dell’editoria italiana. Secondo dati aggiornati al 2024, l’autopubblicazione in Italia ha registrato una crescita del 6-7% rispetto all’anno precedente. Un dato tutt’altro che marginale, che evidenzia una tendenza ormai consolidata: gli autori cercano nuove strade per raccontare le proprie storie, senza più attendere i lunghi tempi, le logiche opache e le dinamiche a volte scoraggianti delle case editrici tradizionali.
Le dinamiche che stanno cambiando
Per molto tempo, pubblicare con una CE era l’unico modo per dare legittimità a un’opera. Ma oggi le cose sono cambiate. Troppe case editrici non offrono più un reale supporto all’autore:
Editing superficiale o assente.
Distribuzione limitata.
Nessun piano promozionale.
Nessuna comunicazione costante con l’autore.
Nessun investimento concreto nella costruzione di un’identità editoriale.
In molti casi, il libro viene lanciato con una semplice scheda su Amazon o IBS, magari con una copertina poco curata e senza un vero lancio. Spesso, gli stessi autori si ritrovano a dover fare tutto da soli: marketing, social media, contatti con blogger, eventi. Il tutto, senza neppure ricevere percentuali di guadagno dignitose.
L’autopubblicazione come scelta consapevole
Al contrario, l’autopubblicazione offre oggi strumenti sempre più evoluti:
Piattaforme come Amazon KDP, StreetLib, Youcanprint permettono una pubblicazione rapida, professionale e autonoma.
L’autore mantiene il pieno controllo del proprio libro, dall’impaginazione alla copertina, dai contenuti alle strategie di marketing.
È possibile creare una vera identità autoriale, coltivare una community, comunicare direttamente con i lettori e costruire nel tempo un catalogo personale di qualità.
Inoltre, l’autore guadagna di più per ogni copia venduta, e questo lo incentiva a promuovere attivamente il proprio lavoro. Il lettore, dal canto suo, percepisce spesso maggiore autenticità, e apprezza il legame diretto con chi ha scritto il libro.
Il problema delle CE che non valorizzano
Non tutte le CE sono uguali, questo è importante dirlo. Ma molte, purtroppo, funzionano ancora secondo schemi obsoleti, dove l’autore è visto come un “contenitore” da riempire e mettere in catalogo, senza una reale valorizzazione. Non c’è costruzione di brand attorno al nome dell’autore, non c’è progetto di lungo periodo, e la comunicazione spesso si ferma alla pubblicazione del libro. Il risultato? Libri invisibili, abbandonati a sé stessi dopo pochi mesi.
Verso il futuro: identità, libertà e consapevolezza
Credo che il futuro dell’editoria appartenga a chi ha una visione chiara, e il coraggio di portarla avanti. Che si tratti di autopubblicazione, crowdfunding o nuove forme ibride, il vero valore oggi risiede nella capacità dell’autore di credere nel proprio progetto.
Non si tratta più solo di “essere pubblicati”, ma di costruire qualcosa che abbia un’identità, una voce e una presenza concreta nel mondo. E chi meglio dell’autore stesso può guidare questo processo?
Dietro le quinte dell’Archivio Blackwood e delle future trilogie
Nel cuore di ogni saga gotica c’è un elemento invisibile, eppure fondamentale: la coerenza dell’universo narrativo. Non basta creare atmosfere cupe, personaggi inquieti o misteri irrisolti. Serve una struttura invisibile ma solida, fatta di regole, riferimenti interni, luoghi ricorrenti e cronologie condivise. Solo così il lettore potrà sentirsi dentro un mondo, non semplicemente davanti a una storia.
L’Archivio Blackwood: un mosaico di oscurità
Nato con Le Ombre di Whitechapel e sviluppato in Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio, l’Archivio Blackwood è molto più di una semplice trilogia. È una rete di indagini, eventi, alleanze e segreti, distribuita su più anni, più casi e più livelli. Ogni volume ha una sua autonomia, ma tutti contribuiscono a un quadro più ampio:
le apparizioni ricorrenti di determinati simboli
le connessioni sotterranee tra personaggi
gli eventi passati che tornano a tormentare il presente
i riferimenti a “dossier”, “documenti interdetti” e “interludi” che ampliano la narrazione
Ogni dettaglio — anche il più piccolo — viene archiviato, etichettato e ripreso al momento giusto. Come in un vero archivio segreto.
Le nuove trilogie: espandere senza contraddirsi
L’universo si espande con nuove linee temporali, nuovi protagonisti, nuove derive del Male. Ma la regola rimane: coerenza totale. Ogni trilogia futura avrà una sua anima — epica, religiosa, medica, folklorica — ma resterà compatibile con l’atmosfera, lo stile e le implicazioni dell’universo Blackwood.
Ad esempio:
Il Sangue… (no spoiler!) esplorerà le origini del mito di Dracula, ma filtrate attraverso lo sguardo di un medico ossessionato, legato a un ordine segreto.
L’Abisso… sarà una spirale temporale in una casa “affamata di tempo”, con apparizioni e cronologie impazzite.
La Muta… tornerà indietro nel tempo per raccontare il primo caso mai affrontato da Edgar Blackwood, e i traumi che lo hanno segnato.
Il dietro le quinte: come si costruisce tutto questo?
Timeline centralizzata: ogni evento è collocato su una mappa temporale principale. Nulla è casuale.
Archivio dei personaggi: ogni figura, anche secondaria, ha una scheda evolutiva. Così può tornare (o scomparire) in modo credibile.
Lessico coerente: certi nomi, certi concetti, certi oggetti ricorrono. Sono le “parole chiave” di un mondo.
Simboli e mitologie originali: come nei miti antichi, il linguaggio del Male (e del Bene) ha codici visivi e rituali precisi. Viene creato a monte, e poi declinato nei romanzi.
Vuoi seguire le prossime uscite, contenuti esclusivi, e bozzetti dal dietro le quinte?
Storia vera o invenzione? La rubrica che insinua dubbi nella nebbia
La rubrica “Un giorno nel 1888” nasce da una domanda semplice ma potente: e se ti raccontassi un fatto oscuro realmente accaduto… senza dirti se è vero o falso?
In una Londra vittoriana avvolta da fumo, pioggia e superstizione, le cronache nere erano spesso più inquietanti della narrativa. Negli archivi si nascondono notizie di bambini scomparsi, bare riesumate, sonnambuli incatenati, volti senza nome riemersi dal Tamigi. Episodi accaduti in realtà… oppure no?
Ed è proprio qui che si inserisce il cuore di questa rubrica: giocare sul confine.
Una realtà più inquietante della fantasia
Nell’autunno del 1888, la città era già piegata dal terrore per gli omicidi dello Squartatore. Ma parallelamente, i giornali riportavano storie incredibili:
Un becchino colto a parlare con un teschio.
Un ospedale che bruciò dall’interno, senza segni d’incendio esterno.
Un bambino ritrovato vivo in una bara da riesumazione.
Molti di questi casi sono documentati, altri sono leggenda urbana, tramandata nei sobborghi più poveri. Ma in un tempo dove la cronaca si mescolava facilmente alla superstizione, cosa può dirsi davvero falso?
Come nascono gli episodi
Ogni episodio della rubrica viene costruito partendo da:
Un fatto reale (tratto da giornali, atti, diari o processi dell’epoca).
Un dettaglio anomalo che rimane inspiegato nei documenti.
Un innesto narrativo che lo rende ancora più inquietante, lasciando il dubbio se sia autentico o manipolato.
Il testo viene scritto in stile evocativo e gotico, volutamente ambiguo. Alla fine, viene sempre posta la domanda: “È vero o falso?”
Questo coinvolge il lettore, stimolando curiosità, interazione e ricerca personale.
Perché il 1888?
Perché è l’anno chiave della saga di Edgar Blackwood. È l’anno dello Squartatore, certo, ma anche del declino di molte illusioni vittoriane:
Crolla la fiducia cieca nella scienza.
La città esplode di contraddizioni sociali.
E il Male assume volti sempre più quotidiani.
“Un giorno nel 1888” non è solo una rubrica: è un progetto narrativo trasversale, che alimenta l’universo dell’Archivio Blackwood e prepara il terreno per nuovi casi, nuovi indizi e nuovi incubi.
Prossimi episodi
La rubrica continua ogni settimana sui social. A volte saranno veri, a volte falsi, a volte… semplicemente dimenticati dalla storia.
Hai già letto gli episodi precedenti? Scoprili e prova a indovinare:
Vuoi proporre una storia? Se hai trovato un fatto oscuro dell’epoca vittoriana (o anche italiana) che merita di essere trasformato in un episodio, scrivimi nei commenti o su Facebook. Potrebbe diventare il prossimo mistero pubblicato.
“La storia è fatta di ciò che viene ricordato… ma i suoi echi più oscuri abitano ciò che è stato dimenticato.”
In un’epoca in cui la scienza muoveva i primi passi verso la modernità, Londra era ancora un luogo di nebbia, superstizione e terrore quotidiano.
Non si trattava solo di paura dell’ignoto: nella Londra vittoriana, l’invisibile era ovunque. In ogni scricchiolio del pavimento, in ogni finestra illuminata dopo la mezzanotte, in ogni croce appesa nelle stanze dei poveri, c’era la sensazione concreta che qualcosa — o qualcuno — potesse osservare da un’altra dimensione.
La casa infestata non era un mito
Nel XIX secolo, centinaia di case londinesi erano ufficialmente considerate “infestate”, tanto da influenzare il valore degli immobili. Le cronache dell’epoca parlano di ombre nei corridoi, oggetti che si muovevano da soli e, soprattutto, “colpi alle pareti senza causa apparente”. Molti appartamenti venivano benedetti da preti o svuotati dopo notti troppo lunghe.
Alcune famiglie arrivavano a murare le stanze, pur di non sentire più le voci.
Il fazzoletto nero sullo specchio
Una delle superstizioni più diffuse riguardava gli specchi: quando qualcuno moriva in casa, lo specchio veniva coperto o voltato verso il muro. Si credeva che l’anima potesse restarvi imprigionata, oppure che l’entità della morte potesse “passare” attraverso il riflesso.
Un gesto semplice, quotidiano, ma profondamente simbolico.
Il sangue dei morti parlava
Nel folklore inglese, il sangue delle vittime di omicidio non giaceva mai in silenzio. Secondo una credenza popolare, se l’assassino si avvicinava al corpo, il sangue avrebbe “ribollito”, emettendo un suono sordo. In alcuni villaggi, questo era sufficiente per accusare qualcuno, ben prima dell’arrivo della polizia scientifica.
Candele, sali e protezioni
In molte abitazioni, venivano lasciate candele accese alle finestre per “illuminare la via ai defunti”, soprattutto in novembre. Altre famiglie spargevano sale agli angoli della casa o sotto il letto, convinte che potesse fermare spiriti erranti o entità maligne. In certi casi, si dormiva con una Bibbia sotto il cuscino o una chiave d’argento al collo.
Ancora oggi, nei romanzi gotici ambientati nell’Inghilterra ottocentesca — come L’Archivio Blackwood — queste credenze non sono solo dettagli d’epoca: sono il cuore pulsante della paura. Perché l’orrore più potente nasce quando il passato non smette di parlare.
Non basta un crimine efferato per creare un mostro. A volte, il mostro non nasce: si costruisce nel silenzio di una casa isolata, tra parole sussurrate all’orecchio da una madre possessiva e il lento disfacimento della realtà.
Questa è la premessa inquietante da cui prende vita il viaggio psicologico e narrativo de Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana. Ma al di là del caso Gein, resta aperta una domanda che continua ad affascinare e inquietare lettori, criminologi e narratori: come si arriva a compiere l’orrore?
Il mostro non nasce: si plasma
Ogni serial killer ha una storia. Ma non tutte le storie portano al sangue.
Nel caso di Ed Gein, l’origine del male sembra annidarsi in un ambiente familiare chiuso, claustrofobico, dove la religione veniva usata come strumento di colpa e controllo, e dove il mondo esterno era considerato impuro. È l’infanzia il terreno fertile in cui attecchisce la radice del delirio: quando il legame con la madre diventa assoluto, totalizzante, insostituibile.
Il bambino Ed cresce in un mondo dove tutto è peccato, tranne la devozione a colei che ha il potere di benedire o maledire. Un mondo in cui le emozioni vengono represse, la sessualità demonizzata, la libertà annientata.
Isolamento e rimozione
La fattoria dei Gein non è solo un luogo fisico, ma una prigione mentale. Il progressivo isolamento da tutto e da tutti genera una frattura interiore. La realtà diventa elastica, sostituibile. La morte non è più un limite, ma un’interruzione temporanea del legame.
È così che, nel tempo, la mente può arrivare a colmare l’assenza con il rituale, il delirio, la ricostruzione dell’amato perduto. Non per sadismo, non per crudeltà, ma per necessità simbolica.
Il delirio come unico linguaggio
Ciò che per l’osservatore è follia, per chi la vive può diventare coerenza. Nel caso di Gein, il culto della madre si trasforma in azione concreta: non per uccidere, ma per “riportare ordine” nella propria visione distorta del mondo.
Questo meccanismo di rielaborazione patologica della perdita, unito a disturbi psicotici gravi e all’assenza di qualsiasi rete sociale o affettiva, porta alla costruzione del “mostro” che la cronaca ha reso famoso. Ma il vero orrore non è nel sangue: è nella logica contorta ma perfetta che guida la sua mente.
Una domanda senza risposta
Alla fine, resta l’interrogativo che accompagna ogni lettura di true crime: può succedere ancora? E può succedere ovunque? Finché esisteranno solitudini, silenzi e infanzie negate, forse sì.
Il Culto della Madre non offre risposte, ma accompagna il lettore in un viaggio disturbante dove l’orrore non è solo nel crimine… ma nel contesto che lo ha generato.