Perché Dracula? La scelta di un nemico immortale

Nel costruire il primo volume Le Ombre di Whitechapel ci si è trovati davanti a una domanda antica quanto la narrativa stessa: contro cosa combatte davvero il nostro protagonista?

Non bastava un assassino. Non bastava un rituale.
Occorreva un’ombra più grande, più profonda. Qualcosa che fosse insieme reale e irreale, concreta ma avvolta nel mistero. Un male che non si limitasse a colpire il corpo, ma che potesse insinuarsi nelle pieghe della mente e nella memoria stessa di una civiltà.

È qui che nasce la scelta: evocare Dracula.

Non il Dracula da manuale, non il mostro da cinema, ma il simbolo di ciò che l’Ottocento temeva di più: la decadenza mascherata da nobiltà, la superstizione che ritorna, la contaminazione dell’invisibile.
Dracula diventa, in questo contesto, un’eco. Non serve vederlo per sapere che c’è. Come un sussurro nei corridoi del potere o una goccia d’inchiostro nero versata su un documento classificato.

In Le Ombre di Whitechapel, primo dei due dossier raccolti nel volume L’Archivio Blackwood Volume I – Le Origini, la sua presenza è un’influenza, un’infezione sotterranea. L’ispettore Blackwood non insegue solo degli indizi: insegue un pensiero antico, una minaccia senza volto che si riflette nei simboli, nei culti, nei riti.

Ecco perché Dracula.
Perché più di ogni altro rappresenta il nemico definitivo di un uomo razionale.
Perché sopravvive ai secoli, muta, si adatta e torna.
E perché ogni archivio, prima o poi, contiene qualcosa che sarebbe dovuto restare sepolto.

Libro Brossura B/N disponibile su Amazon

Libro copertina rigida a colori disponibile su Amazon

Una lettera mai inviata

Dal fondo di un dossier impolverato, è riemersa una lettera che non fu mai spedita. Non è firmata, né datata, ma il tono e la calligrafia appartengono a Edgar Blackwood. Destinatario: Declan O’Connor. Contenuto: una confessione.

Declan,

scrivere il tuo nome è come scalfire il ghiaccio con le dita nude. Fa male.
Non perché non voglia ricordarti, ma perché ogni sillaba che ti riguarda sembra ferire la pelle più sottile che mi resta: quella dell’anima, quella della colpa.

Ti sei sempre fatto carico del peso degli altri. Hai scherzato anche nel fango, hai stretto mani che io non avrei mai toccato, hai seguito la mia ombra nei vicoli peggiori di Londra senza chiedermi mai “perché”.
E io, maledetto me, ti ho lasciato fare. Ti ho tenuto accanto come si tiene una lanterna accesa in un corridoio buio: non per affetto, ma per non inciampare. E ora, senza di te, ogni passo è un colpo secco contro il pavimento.

Non c’eri alla mia destra quando ho aperto il fascicolo successivo. Non c’eri a stringere il sigaro tra le dita, a borbottare che “questo caso puzza peggio del Tamigi”. Non c’eri, ed è lì che ho capito quanto fossi necessario.
Non per il lavoro.
Per me.

Mi è rimasta la tua voce nelle orecchie. Il tuo modo di chiamarmi, con quel tono che non era né rispetto né scherno, ma una via di mezzo perfetta che solo tu sapevi usare.
Mi è rimasto il tuo sangue sulle mani, e non riesco a lavarlo. Non ancora.

Ti prometto una cosa, vecchio amico: non dimenticherò.
E non perdonerò.
Il Viaggiatore pagherà.

Con o senza Dio, con o senza redenzione, verrà il momento in cui la tua morte sarà vendicata.
E allora potrai finalmente riposare.

E io forse… respirare.

— E.B.

Glossario proibito dell’Archivio

Parole che non andrebbero pronunciate

Vi sono sillabe che non appartengono a nessuna lingua, eppure da secoli vengono sussurrate tra le crepe della storia. Non parole. Fratture.”
— Dal taccuino di Edgar Blackwood, dicembre 1888

Ci sono parole che nessun rituale dovrebbe contenere. Frasi sussurrate in lingue morte, nomi che non esistono nei registri della Chiesa né nei codici degli antichi. Nell’Archivio Blackwood, certi termini non sono solo suggestioni gotiche: sono chiavi. E, come tutte le chiavi, aprono. O richiudono troppo tardi.

Questo è un glossario incompleto — volutamente. Alcuni nomi sono stati cancellati. Altri sono leggibili solo a lume di candela. Non è una lista di definizioni: è un avvertimento.

1. Ad umbra

Comparsa per la prima volta nel Vangelo delle Ombre, questa parola è apparsa incisa su una lapide spezzata nel cimitero di St. Jude. In latino corrotto, potrebbe significare “coprire d’ombra” o “essere annullati dalla tenebra”. Quando viene pronunciata in certi contesti rituali, il silenzio nella stanza si fa totale. Persino i topi sembrano fermarsi.

2. Lux in Cruore

Luce nel sangue” — incisa su un breviario ritrovato nella canonica di Whitmore. Apparentemente innocua, questa frase è stata letta da un ragazzo posseduto durante il caso Fairweather. Dopo averla pronunciata, perse la vista per 48 ore. Quando la recuperò, parlava in una lingua sconosciuta anche a padre Quinn.

3. Tertium Vocat

Tradotta come “Il Terzo chiama”, è apparsa nel diario liturgico maledetto (intermezzo del secondo romanzo). Si ipotizza che si riferisca a un’entità senza nome, invocata nei rituali interrotti. Nessun sacerdote ha mai trovato un riferimento canonico a questa formula.

4. Requiem Somnium

Tradotta arbitrariamente come “il sogno che uccide”. Frase riportata in uno dei manoscritti rituali bruciati da padre Quinn. Si ipotizza che possa essere una “parola-chiave” capace di innescare visioni o regressioni. È presente su alcune pareti dell’orfanotrofio abbandonato, scritta con una calligrafia infantile e ossessiva.

Nota finale

Questo glossario non serve per comprendere. Serve per riconoscere.
Quando questi termini compaiono, non siamo più nel campo della fede, della logica o dell’indagine. Siamo oltre.

E in quel territorio, anche Edgar Blackwood sa che certe parole — una volta pronunciate — non si possono ritirare.

Topografia dell’incubo: come costruisco i luoghi dell’orrore

Non tutti i luoghi sono solo spazi.
Alcuni, nell’Archivio Blackwood, respirano.
Altri ricordano.

Quando costruisco un’ambientazione non cerco solo un posto. Cerco una ferita nello spazio. Un punto sulla mappa dove il tempo si è distorto, dove qualcosa è rimasto imprigionato… o dimenticato. Le mie scene non si limitano a essere “gotiche”: devono disturbare, insinuarsi sotto pelle.

È così che nascono gli orfanotrofi abbandonati, gli archivi sotterranei, le cripte dimenticate, i confessionali marciti. Ogni luogo ha una storia non detta. E ogni dettaglio – una ragnatela, una croce spaccata, un letto svuotato – è un indizio che prepara l’orrore.

Uso cinque elementi per costruirli:

1. La rovina: ogni ambiente è segnato da una decadenza che parla da sola.

2. Il suono: gocce, scricchiolii, passi che non dovrebbero esserci.

3. La memoria: ogni stanza ha assistito a qualcosa. E lo trattiene.

4. Il simbolo: croci, rune, incisioni. Segni che non sempre puoi leggere.

5. La trappola: ogni luogo è un teatro. Ma chi è davvero lo spettatore?

Nell’orfanotrofio de Il Carnefice del Silenzio (senza spoilerare) , ad esempio, ogni corridoio è pensato per condurre e ingannare, ogni camera per custodire un’assenza. Ma anche una domanda.

Perché lì?
Perché così?
Chi ha lasciato quel simbolo sulla parete?
E soprattutto… è ancora lì?

Costruire i luoghi dell’orrore, per me, è come scavare una cripta.
So quando inizio. Ma non sempre cosa troverò.

Il lato umano del male: come nascono gli antagonisti nell’Archivio Blackwood

Quando immaginiamo il male, lo vestiamo spesso di artigli, oscurità e poteri occulti. Ma l’orrore più potente non viene da fuori. Viene da dentro. Da qui nasce ogni antagonista dell’Archivio Blackwood: non come mostri mitologici, ma come esseri umani deformati da desideri, fallimenti, paure e – a volte – fede.

Il Viaggiatore: il volto oscuro dell’anima

Il Viaggiatore non ha un volto, né un corpo. Ma non è meno reale. È il riflesso di ciò che temiamo di diventare: un’ombra che entra solo dove trova spazio. Non possiede, risuona. In ogni personaggio in cui si insinua, il vero orrore è la resa: uomini e donne che, pur sapendo, lo lasciano entrare.

Non è un demone canonico. È un’idea che prende forma. E funziona perché si appoggia sulla fragilità interiore. Il male, in fondo, entra da una porta lasciata socchiusa.

Aldous Whitmore: la fede che brucia

Whitmore è il più inquietante, perché non agisce per potere. Agisce per convinzione. La sua deriva non nasce da un patto con l’oscurità, ma da una preghiera non ascoltata. È un uomo spezzato che ha fatto un passo troppo oltre nel tentativo di salvare. E così ha dannato.

Whitmore è ciò che accade quando il bene diventa fanatismo. Quando l’obbedienza cieca cancella il dubbio e la colpa viene giustificata dal fine. È un prete, sì, ma lo è anche quando sacrifica. E questa ambiguità lo rende spaventoso.

Dorian Gray (il futuro antagonista): la corruzione dell’immortalità

In un futuro prossimo volume, Dorian sarà l’antagonista. Ma non sarà quello di Wilde. Sarà qualcosa che Wilde non ha voluto mostrare: cosa accade quando l’anima resta imprigionata per decenni nel peccato senza mai morire. Il suo male non sarà estetico, sarà spirituale.

Dorian sarà il volto del vizio senza conseguenze. L’orrore non sta nei suoi gesti – seppur orribili – ma nel vuoto con cui li compie. Perché quando nulla ci può punire, nulla ci può più salvare.

Il segreto è l’umanità

Tutti i nemici di Blackwood – anche i più occulti – hanno qualcosa di umano. Ecco il vero nucleo della saga: il male non è un’entità esterna, ma una possibilità. Un errore che compiamo. Un dolore che ci cambia. Un abisso che ci guarda, sì, ma solo se prima lo abbiamo guardato noi.

L’Archivio Blackwood non è un bestiario dell’orrore. È una cartella clinica dell’animo umano. E ogni antagonista ne è una pagina malata.

Come scrivo un capitolo dell’Archivio Blackwood

Un viaggio tra scalette, nebbia e presenze invisibili

Spesso mi viene chiesto:
Come nasce un capitolo dell’Archivio?”
La risposta più sincera è: inizia con un’immagine.
Ma prima dell’immagine, c’è un vuoto.
E il vuoto è ciò che deve essere colmato con tensione, dettagli e silenzi.

Scrivere un capitolo della saga di Blackwood non è solo raccontare una scena: è evocare una presenza.
Ecco quindi, passo per passo, come nasce (e prende forma) ogni frammento dell’Archivio.

1. La struttura invisibile: la scaletta ragionata

Ogni capitolo nasce dentro una mappa narrativa precisa.
So cosa deve accadere, cosa deve evolversi nei personaggi, quali elementi devono insinuarsi.
Ma lascio spazio all’imprevisto: spesso, un oggetto non previsto o un odore descritto per caso cambia l’equilibrio dell’intero episodio.

2. L’atmosfera prima della trama

Prima ancora della scena, immagino l’aria.
È umida?
Sa di muffa? Di cera consumata? Di legno antico?
L’atmosfera viene prima dell’azione, perché nei miei romanzi l’ambiente è vivo, e può opporsi alla volontà dei personaggi.

3. L’oggetto centrale della scena

In quasi ogni capitolo c’è un oggetto chiave:
una lettera, un simbolo, una finestra, una bottiglia, un crocifisso spezzato.
Quel singolo elemento guida l’intera narrazione.
Lo osservo attraverso gli occhi di Blackwood, ne scruto la posizione, l’impatto emotivo, l’effetto che genera.

4. La voce di Blackwood

Blackwood non parla molto, ma pensa molto.
Quando scrivo i suoi pensieri, scelgo frasi secche, precise, a volte taglienti.
Non è un eroe. È un uomo ferito che analizza il male per tenerlo a distanza.
Scrivere dal suo punto di vista significa filtrare ogni dettaglio con dubbio e memoria.

5. Il “non detto” come tecnica narrativa

Nel gotico, ciò che non viene detto conta più di ciò che viene mostrato.
In ogni capitolo, lascio qualcosa sospeso:
un rumore mai spiegato, un oggetto fuori posto, una frase interrotta.
Questo lascia al lettore una sensazione di incompletezza inquieta, e alimenta la tensione.

6. Il finale del capitolo: mai una chiusura vera

I capitoli raramente si chiudono in modo netto.
Preferisco terminare con una domanda, un dubbio, una scoperta parziale.
Il lettore deve sentire che qualcosa è stato toccato… ma non ancora compreso.
L’Archivio, dopotutto, non consegna verità.
Consegna frammenti.

Scrivere Archivio Blackwood è come camminare al buio con una candela tremolante.
Non sai mai se quello che hai visto era reale…
…ma sai che è stato sufficiente per non dormire quella notte.

Lettera mai consegnata – Padre Quinn a Edgar Blackwood

Ritrovata tra le pagine consunte del breviario, custodita in una tasca interna del mantello logoro. La calligrafia è tremante, incisa come confessione ultima o speranza estrema.

Ispettore Edgar,

scrivo queste righe senza la certezza che ti raggiungeranno.
Forse saranno consumate dalla cenere, forse dimenticate in fondo a una cassa di legno marcito. Ma scrivere mi aiuta. A non cedere.

Stanotte il vento ha fatto tremare le finestre della canonica. Ogni candela si è spenta nello stesso istante, come se qualcosa – o qualcuno – avesse attraversato i corridoi.
Non lo vedo, ma lo sento. È vicino. Non più un’ombra, ma un respiro. Non più un sussurro, ma un nome.

Ti dirò la verità, Edgar: prego senza certezza.
Le mie mani tracciano i segni, ma il cuore dubita. Quanti rituali ho condotto invano? Quante volte ho invocato luce e ho ricevuto silenzio?
Eppure… c’è una voce dentro che mi dice di non fermarmi. Non per fede, ma per necessità. Se falliamo, non ci sarà un dopo. Non per noi. Non per Londra.

Ho rispolverato testi che giacevano sotto polvere e vergogna. Letti solo a metà, perché neanche i santi hanno avuto il coraggio di terminarli.
Eppure adesso li leggo. Rileggo. Studio ogni sigillo, ogni nota, ogni frammento che possa rivelarci un punto debole. Perché ce n’è sempre uno. Ogni male, per antico che sia, ha la sua crepa.

Mi domando se anche tu lo senti, nelle ossa, nei sogni. Quel tempo che stringe, quel confine che si assottiglia.
Siamo stati scelti, non perché siamo pronti… ma perché non possiamo più voltarci indietro.

Che Dio ci guardi, se ancora ci guarda.

Con rispetto, timore e fratellanza,
Padre Marcus Quinn
12 dicembre 1888

Blackwood e Quinn: alleanza tra dubbio e fede

Due uomini diversi, una sola battaglia contro ciò che non si può spiegare

In un mondo narrativo dove la ragione vacilla e l’invisibile si insinua tra i margini delle indagini, la forza dell’Archivio Blackwood non risiede solo nei misteri da risolvere, ma nei legami che si formano nel buio.
Uno dei più emblematici è quello tra Edgar Blackwood e Padre Marcus Quinn.

L’uno razionale, metodico, logico fino all’ossessione.
L’altro mistico, tormentato, fedele a qualcosa che non sempre comprende.
Ma entrambi legati da una certezza: il male esiste, e non sempre ha un volto visibile.

Un incontro inevitabile

Dopo gli eventi di Le Ombre di Whitechapel, Blackwood si ritrova orfano di certezze e alleati.
La razionalità scientifica che l’aveva sempre guidato inizia a incrinarsi.
È lì che entra in scena Padre Quinn: un ex missionario irlandese, un uomo spezzato dal passato, ma ancora saldo nella sua missione.

L’incontro tra i due non è semplice.
Blackwood diffida dei simboli. Quinn diffida della logica senz’anima.
Ma entrambi sanno leggere il mondo attraverso i dettagli — e capiscono che le loro strade, pur diverse, portano allo stesso abisso.

Il dubbio come metodo, la fede come resistenza

Quello tra Blackwood e Quinn non è un rapporto tra scienza e religione.
È qualcosa di più profondo.
È l’alleanza tra due forme di resistenza:

Il dubbio di Blackwood non è debolezza: è disciplina. Un modo per non arrendersi all’irrazionale, ma anche per accettare che l’inspiegabile esiste.

La fede di Quinn non è cieca: è una ferita aperta, portata avanti con dolore, con domande mai risolte, con silenzi lunghi come preghiere spezzate.

Insieme, affrontano riti, segreti sepolti, culti deformi.
E se non sempre trovano le risposte… trovano il coraggio di guardare l’orrore negli occhi.

Due modi di cadere, due modi di restare in piedi

Blackwood teme il passato. Quinn è perseguitato dal proprio.
Entrambi hanno perso qualcosa — e lo portano addosso come un rosario fatto di colpa e memoria.
Ma è proprio questo che li rende forti.
Non si salvano da soli. Non possono.

Quello che li unisce non è la somiglianza, ma il rispetto.
Un rispetto silenzioso, nato tra una reliquia bruciata e una frase in latino pronunciata da una bocca posseduta.

Una lotta che continua, anche oltre la vita

Padre Quinn ha lasciato un vuoto, ma non è scomparso del tutto.
Come ogni vero alleato nell’Archivio, ha lasciato tracce.
Lettere, simboli, memorie.
E Blackwood — pur restando solo — non è più lo stesso uomo di prima.
La fede di Quinn ha lasciato un’eco.
E anche il dubbio, da allora, ha imparato a pregare.

Il Viaggiatore: specchio o abisso?

Riflessioni su un’entità che non si fa vedere… ma lascia tracce ovunque

Non ha un volto.
Non ha una voce.

Eppure, nel mondo dell’Archivio Blackwood, il Viaggiatore è una presenza che inquieta, deforma, attraversa.

Non si manifesta con apparizioni plateali.
Non lascia dietro di sé sangue o urla — lascia silenzio, sogni disturbati, parole scritte da mani che non ricordano di aver scritto.
E forse, proprio per questo, è ancora più pericoloso.

Non è un demone. È una forma

Chi cerca di catalogarlo cade subito in errore.
Il Viaggiatore non è una “figura malvagia” nel senso classico.
Non ha uno scopo lineare, non vuole distruggere il mondo.
È qualcosa che attraversa: corpi, luoghi, epoche, ordini religiosi, simboli liturgici corrotti.
È movimento senza pace.
Come una preghiera interrotta che continua a risuonare.

Specchio dell’umano

Ma ciò che lo rende più inquietante è che non viene da fuori.
Non arriva “da un altro mondo” nel senso tradizionale.
Il Viaggiatore si nutre di ciò che già esiste nel nostro.
Del dolore non espresso.
Della colpa non confessata.

Del silenzio rituale usato come scudo.
È un riflesso. Uno specchio.
E guardarlo troppo a lungo significa rischiare di vedere se stessi, ma privati di ogni maschera.

Abisso narrativo

Dal punto di vista della scrittura, il Viaggiatore è un “non-personaggio” che però plasma tutto.
La sua forza narrativa sta nella sottrazione: non compare, ma lascia segni.
Simboli. Sussurri. Distorsioni della realtà.
È un abisso che si allarga a ogni volume.
Più i personaggi cercano risposte, più lui si frammenta, si divide, si annida dove non dovrebbe.

Una minaccia che ci riguarda

Nel cuore della saga non c’è un nemico da sconfiggere.
C’è una domanda che ritorna, sempre uguale:
che cosa siamo disposti a sacrificare pur di restare razionali?

Il Viaggiatore non uccide.
Ma chi lo ospita… spesso non torna più lo stesso.

Il diario liturgico maledetto

Frasi che non sono state scritte per essere lette

Tra i documenti più disturbanti mai raccolti nell’Archivio Blackwood, ve n’è uno che non compare in nessun registro ufficiale.
È noto solo come “il diario liturgico maledetto”, un testo frammentario, corroso, ritrovato nel fondo di una cappella sconsacrata nei pressi di Clerkenwell.
Non reca autore, data, né titolo. Solo pagine sparse, molte delle quali scritte a mano, a volte da mani diverse.
Alcune righe sembrano preghiere, altre ordini, altre ancora deliri.

Ma tutte hanno una cosa in comune:
non sono fatte per essere lette.
Chi ha provato a trascriverle, racconta sogni spezzati, perdita di memoria, o improvvisi attacchi di panico.
Eppure, una selezione è stata decifrata. Ecco alcuni frammenti.


Frammento I – Folio XVII

Non omnia verba sunt nata.
Quaedam descendunt.”
(Non tutte le parole nascono. Alcune… discendono.)

Nota d’archivio:
Questa frase compare anche incisa su una parete nel monastero abbandonato di St. Wulfstan.
Il concetto di “eco sacra” ricorre nei rituali di inversione. Non si prega per fede, ma per evocare memoria liturgica.


Frammento III – Folio XXXVIII

Non omnis silentium est absentia.
Sunt scripta quae non scribuntur,
et verba quae nascuntur in ossibus, non in voce.”
(Non ogni silenzio è assenza.
Ci sono scritti che non vengono scritti,
e parole che nascono nelle ossa, non nella voce.)

Nota d’archivio:
Considerato uno dei passaggi più inquietanti. Rilevato anche da Padre Quinn, che rifiutò di continuare la lettura.
Il testo suggerisce l’idea che esistano messaggi biologici, trasmessi attraverso il corpo, non la lingua.


Frammento IV – Folio XLII (parzialmente bruciato)

…e quando si aprirà la terza bocca,
non udrai parole.
Ma ti mancherà il fiato.”

Nota d’archivio:
Rituale legato alla liturgia del “terzo sigillo”? L’espressione “terza bocca” potrebbe riferirsi a un’entità evocata o a un passaggio interiore.
Alcuni leggono il verso come una metafora del trauma.


Frammento V – Non classificato (scritto in rosso)

Quello che chiami ‘perdono’
è solo una forma del silenzio rituale.”

Nota d’archivio:
Ultima frase presente nel diario. Scritta con inchiostro rosso molto denso, forse sangue.
Il concetto di “perdono deformato” ricorre in Il Vangelo delle Ombre e anticipa i rituali corrotti descritti nei documenti esorcistici di padre Marcus Quinn.

Il diario liturgico maledetto non è mai stato tradotto per intero.
Alcune pagine sono considerate pericolose. Altre… non leggibili. Non perché mancanti, ma perché resistono alla lettura.
Ogni parola è un invito.
O un avvertimento.

Chi lo legge, sa che non può più tornare indietro.