Le donne dell’Archivio Blackwood

Sante, vittime o streghe? Il ruolo delle donne nell’orrore gotico

Nel mondo dell’Archivio Blackwood, le donne non sono mai semplici comparse.
Sono anime spezzate, corpi in preghiera, volti scolpiti dal dolore.
Sono le prime a percepire l’ombra.
E spesso, sono le prime a cadere.

Ma non sono deboli.
Sono il confine sottile tra il sacro e il profanato.

La voce spezzata di Fairweather

Fairweather non è solo un personaggio secondario. È uno specchio.
Riflette il trauma di chi osserva il Male e sopravvive.
Nel secondo volume, Il Vangelo delle Ombre, la vediamo oscillare tra la fede e il dubbio, tra la razionalità e il terrore.
Ma ciò che la rende memorabile non è ciò che dice.
È ciò che non osa più dire.

La sua voce, come molte donne nell’universo di Blackwood, è interrotta. Ma è lì che vive la forza: in ciò che resiste, anche nel silenzio.

Possedute. Ma da chi?

Le donne possedute sono una costante.
Non solo nel romanzo, ma nella tradizione letteraria gotica.

Ma cosa possiede davvero queste figure? Un’entità oscura? Il peccato? Il giudizio?
O forse è solo la disperazione mai ascoltata?
L’Archivio Blackwood, senza predicare, lo suggerisce:
A volte il Male entra da porte che la società stessa ha lasciato aperte.

La strega e la martire

Tra le pagine dell’Archivio emergono anche figure quasi mitologiche:

donne rinchiuse perché “visionarie”

suore che custodiscono segreti

madri che compiono sacrifici impensabili

bambine che parlano lingue antiche nel sonno

Tutte, in fondo, incarnano una verità ancestrale:
la donna è sempre sospesa tra venerazione e condanna.

E in questo equilibrio spettrale, si annida il cuore dell’orrore.

Il corpo femminile come luogo sacro e profanato

In Il Vangelo delle Ombre, il corpo della donna diventa territorio rituale.
Strumento e simbolo.
Reliquia e minaccia.

Ma è anche, nella sua sofferenza, l’unico baluardo contro l’annientamento.

Chi ha letto con attenzione sa che spesso, mentre gli uomini indagano, le donne ricordano.
Mentre i sacerdoti parlano, le madri tacciono.
Ma nel silenzio, scrivono la storia vera.

Conclusione

Nell’Archivio Blackwood, le donne sono vittime, sì.
Ma sono anche vessilli, portali, ferite aperte che rivelano verità dimenticate.
Sono quelle che vegliano sul Male… anche quando nessuno ha il coraggio di guardare.

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I casi mai risolti: la sezione segreta dell’Archivio Blackwood

Due fascicoli sepolti, mai chiusi. Forse un giorno… torneranno alla luce.

Nascosti tra le ultime pagine logore del fascicolo personale dell’ispettore Edgar Blackwood, vi sono documenti che nessuno osa aprire. Si tratta di casi mai risolti, chiusi in fretta, archiviati sotto il peso della paura o dell’opportunità politica. Ma l’inchiostro, si sa, non dorme. E quelle storie… vivono ancora.

Oggi, per la prima volta, l’Archivio Blackwood ne riporta alla luce due.

Caso 14-B: Il Volto nel Vetro

Località: Stepney Green, Londra Est
Data: Novembre 1887
Status: Incompleto – Testimone irreperibile

Una bambina affermava di vedere ogni sera, allo stesso orario, “un volto che non è riflesso” nel vetro di una finestra murata da anni. Nessun passante, nessun interno. Solo un volto che piange, grida, poi sparisce.

Blackwood annotò:
Il vetro è opaco. Eppure ogni sera, a mezzanotte, qualcuno dall’altro lato urla il mio nome. Non so cosa voglia. Ma non è umano.”

Il caso fu archiviato dopo la misteriosa scomparsa della piccola testimone. L’intero edificio è oggi abbandonato, murato con ordine del Comune. Nessuno indaga più.

Caso 22-D: L’Uomo che non dormiva mai

Località: Croydon, periferia sud
Data: Maggio 1886
Status: Non documentato ufficialmente – Fascicolo occultato

Un uomo affermava di non dormire da 19 anni. Ogni medico consultato lo dichiarò sano. Ogni notte sedeva in giardino, immobile. Finché i vicini iniziarono a raccontare che, col passare dei mesi, la sua ombra si muoveva da sola.

Blackwood, dopo un sopralluogo, scrisse:
C’è un errore nella cronologia del tempo. L’uomo vive tra le pieghe di qualcosa che non comprendo. L’ombra lo ha lasciato. E ora lo guarda.”

Il caso fu archiviato senza verbali ufficiali. Tutti i documenti cartacei sono stati ritrovati solo anni dopo, nascosti in una cartellina senza intestazione, legata con filo nero.

Forse un giorno…

Sono storie come queste a nutrire l’oscurità dell’Archivio Blackwood. Storie mai raccontate fino in fondo. Frammenti che non hanno avuto conclusione…
Ma forse, un giorno, troveranno il loro spazio. Una pagina. Un libro.
Una notte giusta.

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I nomi della paura: perché uso “Il Viaggiatore”, “Il Carnefice”, “Il Traditore”

Chi legge i miei libri lo ha notato.
Ne Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio, il Male non si presenta quasi mai con un nome proprio.
Non lo chiamo per nome.
Non lo voglio chiamare.

Eppure, ha un’identità.
La do attraverso un titolo. Un epiteto. Un’etichetta che non descrive… ma evoca.

Perché non uso nomi classici?

Perché un nome umano normalizza.
Dà contorni. Dà origine. Dà fine.

Il Viaggiatore, invece, non ha tempo.
Non sai se è uomo, spirito, dio o altro.
Sai solo che arriva, passa, osserva.
Il Carnefice non ha volto.
È una funzione. È un rituale che si compie.
Non agisce per odio. Agisce perché deve.
E il Traditore… non ha nemmeno bisogno di agire.
Gli basta esistere. È colui che ha aperto la porta. Anche se dice di non ricordare.

I nomi raccontano senza spiegare

Mi affascina l’idea di raccontare l’orrore senza bisogno di spiegare tutto.
Un titolo è come una cicatrice: dice che qualcosa è accaduto, ma non ti mostra il momento esatto.
Sta al lettore riempire quel vuoto.
Ed è proprio in quel vuoto che nasce la tensione.

È il lettore a decidere chi è chi

Molti lettori mi scrivono teorie.
“Il Viaggiatore è il Diavolo?”
“Il Traditore è Quinn stesso?”
“Il Carnefice… è solo un uomo?”

E la mia risposta è sempre la stessa: siete voi a dargli un volto.
Io fornisco le ombre.
Voi ci vedete dentro.

E forse, in fondo, è proprio questo il senso dell’Archivio Blackwood: non fornire risposte, ma mettere sotto chiave le domande giuste.

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Il Male silenzioso: cosa succede nei momenti in cui non succede nulla

Una porta che rimane socchiusa.
Un personaggio che trattiene il respiro.
Un lettore che si chiede se davvero c’è qualcosa… o se è solo suggestione.

Nei miei romanzi, ci sono momenti in cui il Male non si mostra, non colpisce, non parla.
Eppure è lì.
Anzi, proprio in quei momenti — quelli in cui non succede nulla — è più presente che mai.

Non tutto il terrore ha bisogno di una voce

Quando scrivo scene in cui Blackwood cammina in una casa abbandonata, o padre Quinn si ferma davanti a un simbolo inciso nella pietra, spesso non descrivo il Male direttamente.
Non ce n’è bisogno.

Il lettore sa che c’è.
Percepisce il peso dell’aria.
Il rumore delle scarpe su un pavimento antico diventa assordante.
Una pagina di diario lasciata aperta… è già una minaccia.

Per me, questa è la forma più autentica della paura: quella che vive nel silenzio.

Il silenzio non è vuoto. È sospensione. È attesa.

Il Male di cui parlo in Il Vangelo delle Ombre o in Il Carnefice del Silenzio non ha sempre bisogno di esplodere.
Spesso si limita a restare immobile, ma percettibile.
Come se aspettasse che tu ti avvicinassi da solo.

Non grida, ma ti osserva.
Non corre, ma ti precede.

E quando finalmente decidi di affrontarlo, scopri che era già dietro di te.

Scrivere l’assenza come presenza

Scrivere gotico non è solo descrivere l’orrore.
È descrivere l’attesa dell’orrore.
È costruire una tensione dove non succede niente… ma tutto è sul punto di accadere.

Per me, quei momenti sono i più difficili da scrivere.
E anche i più importanti.

Perché il lettore non si spaventa quando legge un mostro.
Si spaventa quando lo aspetta e non arriva.

E in quel buio, tra un respiro e l’altro, il Male trova casa.

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Quando il sacro si spezza: le croci rovesciate nell’immaginario gotico

C’è un’immagine ricorrente nei miei romanzi.
Non è un mostro, né un omicidio. È qualcosa di più sottile, più disturbante.
Una croce rovesciata su una parete scrostata, in una canonica dimenticata o sopra un letto vuoto.
E ogni volta che la descrivo, so di toccare un nervo scoperto del lettore. Perché quella croce non urla. Non sanguina. Ma parla. E quello che dice… non è rassicurante.

Una storia più antica del Male stesso

Paradossalmente, la croce rovesciata non nasce come simbolo blasfemo.
Nella tradizione cristiana antica, era il simbolo di San Pietro, che — secondo la leggenda — chiese di essere crocifisso a testa in giù, ritenendosi indegno di morire come Cristo.

Ma come spesso accade, i simboli vengono risucchiati dalla paura.
Nel tempo, quella croce capovolta è diventata il marchio dell’opposto: del sacrilego, dell’occulto, del profanato.
Un gesto semplice — ribaltare l’orientamento di una fede — è diventato una dichiarazione: qui Dio non protegge.

Nelle mie storie: un segno silenzioso ma definitivo

In Il Vangelo delle Ombre, nelle canoniche, negli orfanotrofi, sulle pareti delle camere da letto… le croci rovesciate compaiono come segni lasciati da chi ha abbandonato la luce, o da qualcosa che ha reclamato quel luogo.

Non sono mai “decorazione” o shock visivo.
Sono l’annuncio che qualcosa è stato interrotto.
Una fede, una protezione, un equilibrio.

Scrivere con un simbolo

Mi affascina molto l’idea che basti un piccolo gesto — ruotare un oggetto — per cambiare la sua natura.
Nel gotico, questo è potentissimo.
Prendi qualcosa di familiare e lo pieghi. Lo neghi. Lo distorci.
E il lettore lo sente, lo intuisce, prima ancora che lo capisca.

Quando descrivo una croce rovesciata non sto solo mostrando un luogo maledetto.
Sto dicendo: qualcuno ha sfidato Dio qui dentro.

E forse ha vinto.

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Come Penny Dreadful mi ha aiutato a vivere la Londra gotica dei miei romanzi

Scrivere gotico non significa solo raccontare mostri, nebbia e rituali.
Significa sentirli addosso, nella pelle e nei pensieri.
E una delle esperienze visive che più mi ha aiutato a entrare davvero nello spirito della Londra vittoriana è stata una serie TV: Penny Dreadful.

Già il nome dice tutto: richiama quei fogliacci a buon mercato dell’Ottocento inglese, venduti per pochi penny, pieni di storie macabre, mostri, omicidi, vampiri, follia.
Quelle stesse atmosfere che ritrovo, ogni volta, quando torno a scrivere nell’universo dell’Archivio Blackwood.

Londra: più che un’ambientazione, un organismo vivo

La Londra di Penny Dreadful non è mai solo uno sfondo.
È un personaggio.
È sporca, umida, religiosa e blasfema insieme.
E questo mi ha colpito profondamente. Perché è quella Londra che volevo far respirare nei miei libri.
Non una versione da cartolina, ma una città viva, fatta di dolore, rimorsi e tentazioni. Dove il soprannaturale non è straordinario, ma parte dell’aria che si respira nei vicoli, nei manicomi, nelle chiese sbrecciate.

Personaggi che non sono eroi. E nemmeno del tutto vivi.

Vanessa Ives è un personaggio che non si dimentica. Fragile e potente, religiosa e maledetta.
Il modo in cui affronta il Male non è mai con spavalderia, ma con la consapevolezza di chi ha già perso qualcosa di sé.
E anche questo, nei miei romanzi, è un’eredità.

Né Edgar Blackwood né padre Quinn sono “eroi”.
Sono uomini in conflitto, feriti da ciò che vedono e da ciò che credono.
E come in Penny Dreadful, spesso non è chi combatte i mostri ad avere la meglio… ma chi è disposto a guardarli in faccia, sapendo che potrebbero assomigliargli.

Dal piccolo schermo alla pagina scritta

Non ho mai copiato nulla, ovviamente.
Ma alcune immagini — un lampione solitario nella nebbia, una chiesa piena di segni proibiti, una conversazione sussurrata tra un medico e un indemoniato — sono rimaste impresse dentro di me.
E quando scrivo, ritornano.
In una frase. In un silenzio. In un odore.

Penny Dreadful mi ha insegnato che gotico non significa antico, ma vivo, contemporaneo, necessario.
Che le tenebre funzionano solo quando sono intime.
E che non si scrivono libri come l’Archivio Blackwood senza lasciarsi sporcare dall’ombra.

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La Londra del tanfo: igiene, malattie e superstizioni nel 1800

Nel cuore pulsante della Londra vittoriana, tra nebbie fitte, vicoli lastricati e case addossate le une alle altre come corpi agonizzanti, l’igiene era una speranza più che una certezza. I miasmi della città non provenivano solo dalle fogne o dai fiumi inquinati, ma anche da un’intera visione del mondo, in cui il male si annidava tanto nei liquami quanto nelle anime.

I quartieri dove il fetore era una costante

Luoghi come Whitechapel, Limehouse, Shoreditch o Spitalfields non erano semplicemente poveri: erano invasi da un odore perenne di muffa, urina e sudore umano. Le case erano talmente ammassate che la luce solare faticava a filtrare, e l’aria stagnante era la compagna silenziosa di ogni bambino, ogni donna, ogni vecchio in attesa della prossima febbre.

In molte zone, l’unico scarico disponibile era un secchio condiviso tra dieci o più famiglie. L’acqua potabile si raccoglieva dalle fontane pubbliche, spesso contaminate da scarichi industriali o carcasse animali. E quando il colera o il tifo bussavano alle porte, non era il medico a rispondere, ma il becchino.

Miasmi e superstizione: quando l’odore era il nemico invisibile

Prima della teoria dei germi, il mondo credeva che le malattie si diffondessero per aria cattiva, o miasma. Per questo si accendevano candele profumate, si portavano bustine di erbe sotto il cappotto, e si cospargevano le pareti di calce viva. I più ricchi tenevano arance chiodate di garofano nei taschini. I poveri? Pregavano.

Si credeva che le fogne fossero la bocca dell’inferno e che da lì salisse il male: ma l’inferno era già in superficie. Bastava un passo in un vicolo cieco per cadere tra i topi e il sangue dei mattatoi, dove la realtà puzzava più del mito.

I medici? Spesso ciarlatani vestiti bene

La figura del medico non era quella rassicurante che conosciamo oggi. Molti erano autodidatti, altri erano semplici cerusici con più esperienza di amputazioni che di diagnosi. Si usavano ancora salassi, sanguisughe e pozioni a base di mercurio. Le cliniche erano sporche quasi quanto le strade.

Solo a fine secolo, con l’avvento di Florence Nightingale e le prime riforme sanitarie, si cominciò a parlare di sterilizzazione, disinfezione e igiene urbana. Ma nel 1888 — l’anno in cui si muove l’Ispettore Blackwood — Londra puzzava ancora di morte, sudore e peccato.

Curiosità d’archivio

L’odore delle fogne di East London era così forte che molti cittadini usavano profumi intensi o addirittura aceto sui fazzoletti per affrontare la strada.

Alcuni “alchimisti da strada” vendevano tonici miracolosi contro la “febbre nera” che altro non erano che whisky e erbe.

I medici consigliavano di non fare il bagno troppo spesso: si pensava che l’acqua potesse aprire i pori e lasciare entrare il male.

La Londra de Il Vangelo delle Ombre è questa: una città che si ammala di sé stessa. Una città in cui l’orrore si annida tra le fessure dei muri e nelle crepe delle coscienze.

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Cosa rende un luogo “infestato”? Anatomia di una presenza invisibile

Ci sono luoghi che disturbano ancora prima di sapere cosa vi sia accaduto.
Stanze in cui l’aria è più densa. Corridoi che sembrano più lunghi di quanto dovrebbero.
Una casa, un orfanotrofio, una canonicabasta poco per sapere che qualcosa non vuole che tu sia lì.

Quando ho scritto Il Vangelo delle Ombre, ho dovuto chiedermi:

Come si costruisce davvero un luogo infestato?
E soprattutto: cosa rende un luogo inquietante anche senza bisogno di mostri?

La risposta, come sempre, è nei dettagli.


1. Il silenzio non è vuoto. È memoria compressa.

Un luogo abbandonato non è mai solo “vuoto”.
È pieno di tutto ciò che è stato interrotto: voci, rituali, respiri trattenuti, suppliche.
Le stanze di un manicomio non sono silenziose: sono cariche.
Nell’Archivio Blackwood, la stanza più pericolosa è quella in cui nessuno ha ancora urlato.


2. Gli oggetti restano. Le intenzioni, pure.

Un letto sfatto, un crocifisso rovesciato, una sedia capovolta.
Non servono fantasmi in CGI. Serve solo la traccia di chi è andato via troppo in fretta.
Il lettore non ha bisogno di vedere l’orrore. Gli basta sospettare che sia appena uscito dalla stanza.

Ogni volta che descrivo una scena in un orfanotrofio, una chiesa, una tomba, mi chiedo:

Cosa è rimasto qui di non visibile?
E poi lo rendo percepibile. Non con mostri, ma con la disposizione delle cose.

3. L’infestazione non è soprannaturale. È emotiva.

Un luogo è infestato quando tu non sei più sicuro di esserci da solo.
Non perché senti voci, ma perché inizi a dubitare di te stesso.

Nel Vangelo delle Ombre, questo è fondamentale.
Blackwood e gli altri non sono solo testimoni: sono strumenti, conduttori, amplificatori di ciò che esiste.
E se un luogo ti cambia dentro, allora sì: è infestato.


In definitiva…

Un luogo infestato non è un set. È una ferita ancora aperta.
E in fondo, come ogni lettore sa, a volte fa più paura entrare in una stanza vuota…
che in una piena di ombre.


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L’alienista: medico della mente o custode della follia?

Quando ho cominciato a scrivere Il Vangelo delle Ombre, mi sono reso conto che, per parlare veramente del Male, dovevo parlare anche della mente.
Non del mostro fuori, ma di quello dentro.
E in una Londra del 1888, chi si occupava della mente umana era l’alienista.

Chi era davvero l’alienista?

Nel XIX secolo, la parola “alienista” derivava dal concetto di “alienazione mentale”: chi perdeva il senno era considerato alienato da sé stesso.
L’alienista era il medico incaricato di studiare, contenere — e a volte correggere — questa separazione.

Non era ancora uno psichiatra, almeno non nel senso moderno.
Era una figura ambigua, spesso chiusa tra pareti di manicomi, al confine tra il medico e il carceriere, tra lo studioso e il giudice.

E in molti casi, lui stesso viveva in bilico tra lucidità e ossessione.

Trattamento o tortura?

Nei manicomi vittoriani, “curare” poteva voler dire qualsiasi cosa:

tenere il paziente immerso per ore in vasche ghiacciate

incatenarlo al letto

costringerlo a subire il silenzio assoluto per settimane

o, al contrario, sovraccaricarlo di stimoli “per farlo crollare”

E poi c’erano gli strumenti più raffinati: ipnosi, morfina, disegni interpretativi, magnetismo.
L’alienista osservava tutto. E prendeva nota.

Nelle cartelle cliniche dell’epoca troviamo diagnosi come:

Melanconia isterica con tendenza al misticismo”
oppure
“Visioni ricorrenti legate alla colpa religiosa”

Mi è bastato leggere queste frasi per sapere che Padre Marcus Quinn e i suoi tormenti interiori non erano invenzioni. Solo traslazioni.

L’alienista nella mia narrativa

Nell’Archivio Blackwood, l’alienista non è mai un semplice medico.
È spesso il primo a sospettare il soprannaturale, ma l’ultimo ad ammetterlo.
A volte viene chiamato in causa da Scotland Yard quando il crimine è inspiegabile.
Altre volte… è lui stesso a diventare un caso. Ne Il Carnefice del Silenzio, l’alienista troverà posto per un caso molto particolare…

Ho immaginato che i dossier dell’alienista si mescolassero con i fascicoli della polizia.
Che un detective come Blackwood dovesse imparare a leggerli non come diagnosi, ma come segnali.
E che a volte — nei casi più oscuri — l’unico modo per guarire una mente…
fosse isolarla. O dimenticarla.

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Il mestiere dell’occultista nell’Inghilterra vittoriana

Londra, fine Ottocento.
Mentre l’Impero si espandeva e la scienza compiva passi da gigante, c’era un altro tipo di sapere che proliferava nelle ombre: l’occultismo.
In un’epoca di rivoluzioni e razionalità, sempre più persone si affidavano a riti, sedute spiritiche, simboli esoterici, e “sapienze proibite” per cercare risposte. O vendetta.

Quando ho scritto Il Vangelo delle Ombre, ho voluto che la tensione tra fede e soprannaturale fosse reale. Ma non mi sono ispirato solo a fantasia.
Nel mio lavoro sull’Archivio Blackwood, mi sono immerso nelle figure vere — e ambigue — che abitavano la Londra vittoriana: gli occultisti.


🕯️ Chi era l’occultista?

Non era sempre un mago o un pazzo, come ci ha abituati certa narrativa.
Spesso era un gentiluomo ben vestito, laureato in filosofia o medicina, ma con l’abitudine di studiare alchimia, Cabala, astrologia, demonologia.
A volte era un prete scomunicato, un ex chirurgo, un botanico ossessionato dai grimori.
Altre volte era una donna: sensitiva, medium, spiritista, manipolatrice.
Molti si riunivano in società segrete: la più celebre? La Golden Dawn, frequentata anche da W.B. Yeats e Aleister Crowley.


📜 Tra ciarlatani e veri studiosi

La Londra dell’epoca pullulava di truffatori: bastava affittare una stanza, appendere una tenda nera e farsi chiamare “Maestro dell’Ombra”.
Ma c’erano anche studiosi sinceri, uomini e donne che volevano davvero comprendere i limiti tra il visibile e l’invisibile.
Ed è da questa ambiguità che nascono i miei personaggi.
Padre Marcus Quinn, ad esempio, è un prete che ha letto più testi eretici che Bibbie. Whitmore ha scavato così a fondo nella tenebra da non uscirne più.
E Blackwood?
Lui cerca ancora una linea tra inganno e verità. Ma sa che a volte anche il falso può uccidere.


📖 L’occultista nella narrativa

Chi scrive storie gotiche ambientate in questo periodo sa che l’occultista non è un cliché. È una necessità narrativa.
In un’epoca in cui la luce a gas rischiarava le strade, ma non le coscienze, l’occultismo offriva un rifugio, una minaccia, una tentazione.

E nell’Archivio Blackwood, queste figure continuano a muoversi tra le righe.
A volte aiutano. A volte tradiscono.
Sempre… disturbano.


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