Case infestate: tra realtà e finzione

Le vere leggende londinesi dietro le ombre dell’Archivio Blackwood

Cosa accade quando la paura prende dimora tra le pareti di una casa?
Quando ogni scricchiolio, ogni ombra, ogni porta che si apre da sola smette di essere un dettaglio architettonico… e diventa un segnale?

Nella Londra vittoriana, la paura delle case infestate non era solo superstizione: era parte della cultura popolare, dei giornali, delle chiacchiere da pub e delle indagini più bizzarre di Scotland Yard. L’Archivio Blackwood affonda le sue radici proprio lì, tra cronache autentiche e suggestioni gotiche.

Berkeley Square 50: il vero incubo vittoriano

La leggenda più celebre è forse quella di Berkeley Square 50, nel cuore di Mayfair.
Una dimora elegante all’esterno, ma che secondo le testimonianze dell’epoca avrebbe causato la morte per terrore di due persone, oltre a innumerevoli fughe notturne di domestici e affittuari. Si parlava di una “presenza” al secondo piano, di urla disumane, e di una stanza proibita.
Fu persino riportata da riviste dell’epoca come Notes and Queries, diventando una vera ossessione per chi studiava il paranormale.

La villa dei Fairweather (dal romanzo Il Vangelo delle Ombre)

Nel secondo volume della saga, Il Vangelo delle Ombre, Edgar Blackwood e Padre Quinn vengono chiamati a indagare in una villa signorile appartenente ai Fairweather, nel quartiere di Kensington.
Tra pareti imponenti, ritratti oscuri e porte che sembrano chiudersi da sole, si manifesta un fenomeno di possessione: una presenza oscura si impossessa della padrona di casa.
Questa scena, pur frutto della finzione, trae ispirazione da vere cronache vittoriane. Nel 1885, una casa a Kensington fu evacuata dopo che sui muri apparvero segni inspiegabili e si verificarono “visioni deliranti” notturne. Alcuni giornali ipotizzarono un’intossicazione da gas, ma la popolazione parlava apertamente di un rito occulto fallito.

I luoghi infestati nei romanzi

Ogni casa presente nell’universo narrativo dell’Archivio Blackwood ha una sua identità.
Non sono solo ambientazioni: sono entità silenziose, capaci di ricordare, giudicare e imprigionare.
La Londra dell’epoca, con i suoi vicoli e le sue architetture gotiche, è la cornice perfetta per rendere credibile l’incredibile. Così, finzione e realtà si intrecciano: un giornale dell’epoca o un processo reale diventano il seme per un racconto inquietante.

Vuoi esplorare queste dimore oscure?

Scopri i luoghi più inquietanti e le case maledette nei due romanzi che hanno dato origine alla saga gotica dell’ispettore Edgar Blackwood.

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Dietro le quinte de “Il Carnefice del Silenzio”

Un diario narrativo senza spoiler sull’opera più oscura dell’Archivio Blackwood

C’è un momento, per ogni scrittore, in cui l’oscurità prende il sopravvento. Il Carnefice del Silenzio, terzo volume dell’Archivio Blackwood, nasce proprio da quel momento. Non è solo un nuovo caso per l’ispettore Edgar Blackwood, ma una discesa nelle pieghe più profonde dell’anima umana, dove la verità si confonde con la fede e il Male assume forme che non hanno bisogno del sovrannaturale per terrorizzare.

Un romanzo lungo, stratificato e cupo

A differenza dei due volumi precedenti, Il Carnefice del Silenzio è il capitolo più vasto e ambizioso dell’intera saga. Con oltre 400 pagine cartacee, si presenta come un vero e proprio romanzo investigativo gotico, articolato, denso di riflessioni e ricco di sottotracce. Ogni scena è costruita per immergere il lettore in un’atmosfera di opprimente tensione e mistero, dove ogni dettaglio ha un significato nascosto.

Il tema centrale: credere per paura

L’indagine ruota attorno a una serie di omicidi ispirati a rituali religiosi dimenticati. Ma il vero mistero è più sottile: cosa ci spinge a credere? Cosa ci porta a seguire cieche verità, anche quando sfiorano la follia? Blackwood si troverà a indagare non solo su un assassino, ma sull’essenza stessa della necessità umana di avere fede, anche in ciò che distrugge.

Luoghi dimenticati e simboli inquietanti

Monasteri abbandonati, archivi ecclesiastici, cripte, orfanotrofi dismessi… ogni location è un tassello di un mosaico che unisce decadenza storica e orrore rituale. L’atmosfera è quella di una Londra livida e muta, dove ogni passo di Blackwood riecheggia come l’ultimo.

Un assassino senza volto… o troppi?

Il nemico questa volta è ambiguo, sfuggente. È un uomo? Una setta? O un’idea? Il dubbio è costante, e il lettore – come l’ispettore – non potrà fidarsi di nessuno.

Il Carnefice del Silenzio è in corso di scrittura. Ma un consiglio: non lasciatevi ingannare dal silenzio.
A volte è lì che il Male sussurra più forte.

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La Londra vittoriana tra realtà e finzione nei romanzi dell’Archivio Blackwood

Nebbia, gas, superstizione. E sangue.
Londra, 1888. Quell’anno passato alla storia per gli omicidi di Whitechapel è diventato, nel tempo, una delle cornici più potenti per raccontare l’oscurità umana. Ma quanto c’è di vero nella Londra narrata nei romanzi de L’Archivio Blackwood? E quanto invece appartiene alla finzione gotica?

Nelle indagini dell’ispettore Edgar Blackwood, tutto è impregnato di realtà storica: le viuzze malsane di Limehouse, i corridoi in rovina degli orfanotrofi, le cronache dei giornali dell’epoca, persino le superstizioni del popolo. I rituali e le possessioni che animano i romanzi non sono solo invenzioni, ma spesso ispirati a documenti autentici, fonti storiche, processi e superstizioni religiose realmente esistite.

Il soprannaturale è una lente, non un’invenzione.
Attraverso il filtro dell’occulto, i romanzi raccontano le vere paure di un’epoca: la scienza che avanza e spaventa, il colonialismo che porta con sé leggende esotiche, il cristianesimo in crisi, e il male che non ha più un volto umano, ma si insinua nei simboli e nei riti.

Con Le Ombre di Whitechapel e Il Vangelo delle Ombre, la Londra vittoriana viene restituita non come un fondale, ma come un organismo vivente. Respira, sussurra, osserva.

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La simbologia dei nomi: Whitmore, Quinn, Monroe e Blackwood

Nel mondo dell’Archivio Blackwood, nulla è lasciato al caso. Nemmeno i nomi. Ogni personaggio principale porta con sé un significato, un’ombra linguistica o simbolica che ne anticipa il ruolo, il destino, o la condanna. Analizzare questi nomi significa penetrare più a fondo la psicologia nascosta del racconto.

Aldous Whitmore

Whitmore” può essere letto come “white moor”, ovvero “brughiera bianca” o “pianura sbiadita”. Ma il bianco, in questo caso, non è purezza: è assenza, sterilità, gelo. È l’illusione della luce. Il nome Aldous richiama invece un’antichità severa, quasi biblica. Whitmore è un personaggio che gioca con la fede e la maschera della rettitudine, ma il suo nome anticipa la contraddizione: una terra chiara in superficie, ma che nasconde fango sotto la neve.

Padre Marcus Quinn

Marcus” richiama Marte, dio della guerra. E infatti, Marcus Quinn è un guerriero dell’anima, un prete che ha combattuto demoni in terre lontane e che porta le cicatrici dell’esorcismo come medaglie invisibili. “Quinn” è un cognome irlandese che significa “discendente del capo”, ma anche “consigliere”. È il nome di chi guida con la parola e protegge con il fuoco della fede.

Elias Monroe

“Elias” è un nome profetico, associato a Elia, il veggente dell’Antico Testamento che affrontava i falsi dèi. E Monroe? Un cognome scozzese legato all’idea di “bocca del fiume Roe” – luogo di passaggio, di soglia. Monroe è un ponte tra il mondo razionale della polizia e quello oscuro in cui è sprofondato Blackwood. È l’assistente che ascolta, il testimone che ricorda.

Edgar Blackwood

E infine, lui. “Edgar”, come Allan Poe. Un nome che evoca letteratura nera, cuori rivelatori, follia controllata. “Blackwood” è il legno nero, il carbone dell’anima, ciò che brucia ma non si consuma. È la foresta in cui ci si perde e si rinasce cambiati. È anche un nome che porta con sé una dualità: oscurità (black) e vita vegetale (wood), come a dire che dalla tenebra può ancora germogliare qualcosa.

Ogni nome è un enigma, un’eco. Nel mondo dell’Archivio Blackwood, le parole non sono mai neutre.

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Dietro la nebbia: i suoni della Londra maledetta

Archivio Blackwood

Nel cuore della Londra vittoriana, tra nebbia, fumo e pioggia, c’è un elemento che spesso sfugge all’occhio… ma non all’orecchio.
È il suono dell’inquietudine.
Il respiro del male.
La voce spezzata di un’epoca in cui tutto sembrava possibile, perfino l’invisibile.

Quando si sfogliano i dossier dell’Archivio Blackwood, si scopre che l’orrore non arriva mai di colpo. Non è un volto che appare all’improvviso, né una mano scheletrica che emerge dal buio.
È il silenzio che si spezza. È ciò che si sente, prima ancora di vedere.

Il detective Edgar Blackwood, nei suoi appunti, descrive spesso come il male non si annunci con rumori violenti, ma con suoni piccoli, sbagliati, fuori posto.
Un orologio che batte due volte invece di una.
Un campanello che suona a vuoto nella notte.
Un coro lontano… in una chiesa che è chiusa da trent’anni.

C’è un vecchio diario di padre Quinn che racconta di una possessione in una casa di Kensington. Nella stanza della donna infestata, ogni notte, allo stesso minuto, si udiva un sussurro in latino. Ma nessuno conosceva quella lingua. Nessuno tranne la voce che veniva dal muro.
Il suono.
Non il viso.

Il suono ha memoria.
La Londra del 1888 è una città sonora, non solo visiva.
Il crepitio delle lanterne a gas, il rintocco delle campane sotto la pioggia, lo scricchiolio del parquet in case dove nessuno abita più…
E poi, più in profondità, ci sono i suoni impossibili:

Il pianto di un bambino proveniente da un orfanotrofio murato.

Il passo singolo su una scala che Blackwood aveva appena controllato essere vuota.

Un soffio sul collo. Ma la finestra è chiusa.

Questi suoni non chiedono di essere spiegati.
Chiedono di essere temuti.

Ecco perché, nell’universo di Blackwood, l’orrore non ha volto. Ha voce.
Il vero terrore non si vede.
Si ascolta.

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I Diari Perduti di padre Quinn e Declan O’Connor – anteprima esclusiva

Ci sono storie che non trovano spazio tra le pagine principali di un romanzo, non perché meno importanti, ma perché troppo intime, troppo inquietanti, o forse semplicemente… troppo vere.

Durante la stesura de Il Carnefice del Silenzio, ho raccolto una serie di frammenti narrativi, annotazioni personali, ricordi e confessioni mai rivelate che riguardano alcuni dei personaggi più amati (e tormentati) dell’Archivio Blackwood: padre Marcus Quinn e il sergente Declan O’Connor.

Non si tratta di semplici contenuti tagliati: questi testi compongono un corpus autonomo, un mosaico di voci spezzate che merita un luogo tutto suo. Alcuni saranno inclusi come appendice speciale in fondo a Il Carnefice del Silenzio – se lo spazio lo permetterà. In caso contrario, sto valutando la creazione di una raccolta a parte intitolata I Diari Perduti dell’Archivio Blackwood.

Cosa troverete in questi documenti?

Le ultime riflessioni di Quinn prima della sua discesa finale.

Un appunto segreto scritto da Declan a Blackwood, mai consegnato.

Un foglio ritrovato nel breviario del reverendo Whitmore.

Annotazioni sparse dell’ispettore Blackwood che non erano destinate alla luce.

Nessuno di questi brani contiene spoiler diretti, ma tutti espandono l’universo narrativo della saga, mostrando dettagli inediti, ombre dimenticate, e nuove sfumature dell’anima dei protagonisti. Alcuni testi sono poetici, altri quasi rituali, altri ancora pieni di tensione non detta.

L’obiettivo non è solo aggiungere contenuti, ma dare voce a ciò che resta taciuto nei romanzi.

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Il Diario Ritrovato di Padre Quinn – Appunti da una guerra invisibile

È solo un taccuino ingiallito, rilegato in cuoio consunto, segnato da bruciature, simboli e pagine strappate. Eppure, nel silenzio dell’Archivio Blackwood, quel diario è diventato una reliquia. Non per ciò che contiene, ma per ciò che lascia intuire.

Padre Marcus Quinn, ex missionario irlandese ed esorcista al servizio della diocesi di Londra, non è stato soltanto un alleato nella lotta contro l’oscuro. È stato testimone di orrori che pochi hanno il coraggio di nominare. La sua scrittura, irregolare e tormentata, registra giorni senza sole, notti senza confini, sogni abitati da presagi.

Il diario, che sarà parte integrante del progetto inedito I Diari Perduti, riporta rituali incompleti, anatemi mai pronunciati, nomi che non dovrebbero essere letti ad alta voce. Ma anche riflessioni intime, momenti di dubbio, e soprattutto l’ossessione per un’entità che ricorre in ogni sua missione: il Viaggiatore.

Frammenti dal Diario

«Stasera ho bruciato la veste. Le macchie non erano sangue, e l’odore non apparteneva a questo mondo.»
– 4 novembre 1886, Dal diario di St. Bride

«Le bambine dell’orfanotrofio non parlano. Non per scelta. Lo ha fatto lui. Ha sigillato le loro voci nel buio.»
– 23 febbraio 1887, Missione a Lichfield

Un progetto esclusivo

Questo diario non sarà pubblicato integralmente. Alcuni estratti selezionati saranno pubblicati più avanti… Non voglio anticipare troppo!

Chi segue le indagini dell’Ispettore Blackwood troverà in queste pagine una nuova voce, diversa da Edgar ma ugualmente inquieta. Un uomo di fede che ha visto troppo, che ha camminato tra le ombre, e che ha scelto di scrivere per non dimenticare.

Se siete pronti ad ascoltarlo, Il Diario Ritrovato di Padre Quinn (non è il titolo definitivo) vi parlerà. Non nel modo che vi aspettate.

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Il Manuale delle Ombre – Appunti per i nuovi membri dell’Archivio Blackwood

Documentazione interna. Vietata la diffusione non autorizzata. Copia destinata esclusivamente al personale operativo dell’Archivio Blackwood. In caso di smarrimento, distruggere immediatamente.

Premessa

L’Archivio Blackwood non è un’organizzazione ufficiale. Non esiste nei registri, non risponde a nessun organo di polizia, né alla legge dei tribunali. Eppure è da più di vent’anni che i suoi membri lavorano nell’ombra per contenere, documentare e, quando necessario, distruggere ciò che non dovrebbe esistere.

Questo manuale è stato scritto per coloro che, per volontà o per dannazione, entrano a far parte dell’Archivio. Le seguenti annotazioni derivano da casi realmente accaduti, da errori pagati col sangue e da verità che non devono mai essere pronunciate ad alta voce.

Capitolo I – Su ciò che non va mai scritto

“Il male prende forma anche nei pensieri. Scrivilo solo se sei disposto a sopportarne le conseguenze.”

Non trascrivere mai integralmente un rituale, neanche per studio. Non appuntare nomi che non sai pronunciare. Non segnare su carta le coordinate di un luogo maledetto: il foglio stesso potrebbe divenire veicolo di richiamo.

Se sei costretto a farlo, usa abbreviazioni, codici personali o simboli sostitutivi. La carta assorbe più di quanto credi.

Capitolo II – Su quando un caso va bruciato

Non tutti i casi devono essere archiviati. Alcuni devono sparire.
Se trovi un dossier etichettato come “incenerire”, fallo senza aprirlo.
Se trovi uno che porta il simbolo inciso a mano sul bordo sinistro – una croce rovesciata con un cerchio spezzato – e non ha firma… non è un caso dell’Archivio. È un avvertimento.

Non leggerlo. Non toccarlo a mani nude. Distruggilo entro l’alba.

Capitolo III – Come comportarsi con l’ignoto

Mai voltare le spalle a una porta aperta che prima era chiusa.
Mai parlare a un cadavere che ti rivolge la parola.
Mai accettare oggetti da un bambino che non batte ciglio da più di 30 secondi.

L’ignoto osserva, imita, tenta. Non cercare di “capire”. Limitati a riconoscere. E quando lo fai… agisci in fretta.

Capitolo IV – Come riconoscere un traditore

Il traditore non arriva con un coltello. Arriva con buone intenzioni.
Parla di “ordine”, di “poteri superiori”, di “rivelazioni”.
Ride quando nessuno ha detto nulla.
Ha le mani fredde, anche d’estate.

Se un tuo collega torna da solo da una missione in due… osserva i suoi occhi. Se sembrano troppo lucidi, troppo normali, troppo presenti… non è più lui.

Capitolo V – Come trattare con l’Archivista

Non chiedere mai all’Archivista da dove venga o da quanto lavori qui.
Non tentare mai di leggere i suoi fascicoli.
Non chiedere mai perché abbia solo otto dita.

L’Archivista conserva tutto. Anche ciò che è stato cancellato. E ricorda anche ciò che non hai mai detto.

Capitolo VI – Quando puoi andartene

Non puoi.
Una volta firmato il patto (sia esso scritto, orale o solo mentale), sei parte dell’Archivio.
Puoi scegliere il silenzio.
Puoi fingere di dimenticare.
Ma se il tuo nome è su uno dei dossier… prima o poi sarai richiamato.

Alcune note marginali trovate sui margini del manuale originale:

“Non fidarti di chi beve solo tè. Nemmeno una goccia d’acqua.”

“Il caso Whitmore non è chiuso. Solo sepolto.”

“Declan aveva un codice. Trovalo.”

“Non toccare mai la settima chiave.”

Appendice finale (per i lettori del blog)

Questo articolo è un estratto dal Manuale delle Ombre, redatto da Edgar Blackwood a partire dal 1886 e aggiornato negli anni dai suoi colleghi. Naturalmente, non è mai stato ufficialmente pubblicato… ma in fondo, nessuno è mai davvero uscito vivo dall’Archivio.

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Il baule di Declan: memorie da una vita nell’ombra

Nel seminterrato umido e polveroso della casa di Blackwood, nascosto dietro una fila di vecchi archivi, giaceva un baule dimenticato. Era di legno massiccio, con rinforzi in ferro annerito e un lucchetto arrugginito che pareva non essere stato aperto da anni. Sopra, incisa con mano ferma, una scritta in gaelico: “Fuil is Tost” – Sangue e Silenzio. Era il baule di Declan O’Connor.

Nessuno aveva più osato toccarlo da quando l’ex sergente era scomparso nel buio di Whitechapel. Nemmeno Edgar Blackwood, che pure aveva condiviso con lui ogni orrore e ogni scoperta. Eppure, un giorno d’inverno del 1889, spinto da un’intuizione o forse dal rimorso, Blackwood spezzò il sigillo e aprì quel reliquiario della memoria.

All’interno: un archivio dell’anima

Il baule era più ordinato del previsto. Ogni oggetto pareva disposto con un’intenzione silenziosa. C’erano i suoi vecchi taccuini, consumati dal tempo e dall’umidità, pieni di appunti scritti in fretta durante le indagini, con schizzi di simboli, frammenti di rituali, nomi cerchiati più volte con rabbia. Tra le pagine, spuntavano lettere mai spedite, una delle quali indirizzata proprio a Blackwood. Diceva:

“Se non dovessi tornare… distruggi tutto. Non lasciare che trovino ciò che sappiamo.”

C’erano anche fotografie annerite, tra cui una che ritraeva Declan con un giovane prete — Marcus Quinn — davanti a una chiesa scozzese in rovina. Sotto, una sola parola: “Inizio”.

Oggetti dimenticati, storie mai raccontate

Tra i cimeli spiccavano alcuni oggetti di forte impatto emotivo:

un rosario spezzato annerito dal sangue,

una pistola Webley priva di un colpo,

una moneta romana forata,

un piccolo sacchetto di tela contenente ossa scolpite con rune celtiche.

Blackwood rimase colpito da quanto Declan tenesse nascosto, anche a lui. Il baule non era solo un contenitore: era un confessionale di legno, dove Declan aveva riposto tutto ciò che non aveva mai potuto dire. Un archivio personale, più oscuro e inquietante di qualsiasi fascicolo di Scotland Yard.

Il lascito

Il baule di Declan divenne parte dell’Archivio Blackwood, custodito ma mai esibito. Nessuno oltre Edgar ne conosce il contenuto completo. Alcuni dicono che abbia gettato nel fuoco uno degli oggetti trovati. Altri, che uno degli appunti di Declan abbia guidato Blackwood verso il caso successivo, il più pericoloso di tutti.

Ma una cosa è certa: Declan O’Connor non è morto invano. Le sue memorie, anche se frammentarie e spesso indecifrabili, sono ancora oggi oggetto di studio. Alcuni dossier riservati, ispirati proprio a quegli appunti, sono stati ricostruiti per chi segue l’Archivio Blackwood.

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Il caso mai consegnato: l’ultima indagine personale di Declan O’Connor

Fascicolo non protocollato – Ritrovato illeggibile nel fondo 3C dell’Archivio Blackwood

Nessuno lo stava cercando.
Nessuno sapeva che esistesse.
Eppure, tra le pagine logore di una cartellina priva di intestazione ufficiale, qualcuno ha finalmente ritrovato l’ultima indagine personale del sergente Declan O’Connor.

Il documento – carbonizzato sui bordi e intriso di muffa – non era mai stato protocollato.
Nessun timbro. Nessuna firma. Nessuna data certa.
Solo una parola, scritta a mano sulla copertina:
Sennock.”

Il frammento recuperato

Riportiamo, per quanto leggibile, uno stralcio trascritto fedelmente:

“Mi sono recato a Sennock dopo il tramonto, senza avvertire l’Ispettore. L’uomo di nome Hargrove aveva parlato di un odore nei boschi. Non di cadavere. Di muffa viva. Di carne che respira sotto terra. Ho trovato la cappella. Non era abbandonata. C’era una candela accesa, e delle catene. Ma soprattutto… una voce che non voleva essere ascoltata.

“Non entrerò di nuovo. E spero che nessuno legga questo. Se non tornerò, non aprite. Sigillate tutto.”

Il foglio termina con una frase incisa a pressione, come se l’inchiostro fosse finito:

Non è un culto. È una pazienza. Qualcosa sta aspettando.”

Cosa c’era a Sennock?

Nessun rapporto ufficiale parla di Sennock.
Non compare nei fascicoli associati ai casi di Whitechapel, né nei verbali firmati da Blackwood.
Eppure, una vecchia mappa dell’Archivio, risalente al 1879, segna proprio in quella zona un monastero demolito dopo un incendio mai chiarito.

Non ci sono nomi, ma tra i disegni ritrovati nel fascicolo si intravedono:

un portone in pietra con una croce rovesciata scolpita al contrario (dal lato interno)

una figura inginocchiata davanti a un altare vuoto

e un simbolo simile a un cerchio tracciato con sette graffi

Ipotesi e silenzi

Secondo l’Archivio, Declan O’Connor non ha mai parlato di questa indagine a Blackwood.
Non c’è traccia di testimonianze, né di trascrizioni ufficiali.
Solo questo dossier, forse scritto di nascosto. Forse mai concluso.

Eppure, chi conosce la fine del sergente sa una cosa:
non è morto impreparato.
Aveva già visto. Aveva già capito.
Qualcosa… lo aveva già trovato prima.

Non sappiamo cosa aspettasse a Sennock.
Ma il fascicolo è ora conservato sotto chiave.
Nel fondo 3C dell’Archivio Blackwood.
E, come da sua richiesta, non verrà più aperto.

Almeno non finché qualcuno non tornerà in quella foresta.
E deciderà di ascoltare la voce che nessuno doveva sentire.

Per comprendere davvero l’eredità lasciata da Declan O’Connor, inizia da qui:

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