Tra le ombre della letteratura ottocentesca esistono figure che non invecchiano mai. Creature nate in un’epoca remota che continuano a camminare accanto a noi, come se la loro carne — o ciò che ne resta — fosse ancora tiepida.
Fra questi miti indelebili, Frankenstein non è solo un romanzo: è un archetipo, un’ossessione, un monito.
Pubblicato da Mary Shelley nel 1818, è uno di quei testi che fanno parte dell’ossatura del gotico. Eppure, non è la “storia del mostro”: è la storia dell’uomo che osa troppo.
Victor Frankenstein è il simbolo di chi sfida i confini naturali, non per malvagità, ma per ambizione, per fame di conoscenza, per quell’irrefrenabile desiderio di afferrare ciò che gli è proibito.
La Creatura non è meno tragica. Non nasce malvagia: nasce abbandonata. Non è un demone, è un figlio che nessuno ha voluto. È questo il dettaglio che rende Frankenstein immortale: non la scienza proibita, ma la ferita primordiale del rifiuto.
Leggere Frankenstein oggi significa confrontarsi con domande che non abbiamo ancora risolto:
- Quando la ricerca diventa hybris?
- Chi è davvero il mostro: chi crea o chi abbandona?
- Possiamo considerare “mostruoso” ciò che non capiamo?
- Di chi è la responsabilità delle nostre creazioni?
Shelley non consegna risposte, solo un enorme specchio incrinato. E attraverso quel vetro, riconosciamo qualcosa di noi stessi.
È un romanzo che continua a respirare perché ci costringe a guardare il confine tra umanità e follia, tra fede e scienza, tra solitudine e vendetta.
E lo fa con una prosa visionaria, cupa, intrisa di ghiaccio e lampi, con un ritmo che non concede tregua.
Per chi ama il gotico — e chi segue il mio Archivio Blackwood lo sa — Frankenstein è una lettura imprescindibile.
Non solo per la sua influenza culturale, ma perché racconta, con una lucidità disarmante, l’origine di ogni ombra: il momento in cui l’uomo diventa artefice della propria rovina.
Leggerlo oggi è come aprire una porta su un laboratorio che non ha mai smesso di pulsare.
E in quel chiarore innaturale delle provette, in quel battito impossibile, scopriamo che il mostro non è mai davvero morto.
Aspettava solo che qualcuno gli tornasse vicino.
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