Mi capita spesso di osservare le reazioni di chi legge le mie storie. Alcuni si soffermano sul mistero, altri sulla tensione. Ma ce n’è sempre qualcuno – il lettore silenzioso, lo sguardo attento – che nota un altro filo sottile: la bellezza nel terrore.
È una bellezza cupa, sbiadita dal tempo. Non quella dei fiori, ma dei fiori secchi. Non quella della luce, ma dell’ombra che la accoglie.
Scrivere di orrori, in un contesto vittoriano e gotico, non significa soltanto evocare creature e possessioni. Significa restituire una forma di eleganza perduta, fatta di velluti lisi, specchi incrinati, inchiostri rossi, parole sussurrate più che urlate.
In ogni libro dell’Archivio Blackwood cerco questo equilibrio: una narrazione che disturba, ma lo fa con un certo garbo, come chi entra in punta di piedi in una stanza maledetta. Non per spaventare, ma per restare impressi.
Il terrore più raffinato è quello che non si espone, ma si insinua. È un colpo di tosse nel silenzio. Un quadro appeso storto. Un sigaro lasciato a metà. Una porta che si apre piano, troppo piano.
Perché l’orrore non ha bisogno di gridare.
Basta che sussurri nel modo giusto.
IL CARNEFICE DEL SILENZIO
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