I Diari Perduti di padre Quinn e Declan O’Connor – anteprima esclusiva

Ci sono storie che non trovano spazio tra le pagine principali di un romanzo, non perché meno importanti, ma perché troppo intime, troppo inquietanti, o forse semplicemente… troppo vere.

Durante la stesura de Il Carnefice del Silenzio, ho raccolto una serie di frammenti narrativi, annotazioni personali, ricordi e confessioni mai rivelate che riguardano alcuni dei personaggi più amati (e tormentati) dell’Archivio Blackwood: padre Marcus Quinn e il sergente Declan O’Connor.

Non si tratta di semplici contenuti tagliati: questi testi compongono un corpus autonomo, un mosaico di voci spezzate che merita un luogo tutto suo. Alcuni saranno inclusi come appendice speciale in fondo a Il Carnefice del Silenzio – se lo spazio lo permetterà. In caso contrario, sto valutando la creazione di una raccolta a parte intitolata I Diari Perduti dell’Archivio Blackwood.

Cosa troverete in questi documenti?

Le ultime riflessioni di Quinn prima della sua discesa finale.

Un appunto segreto scritto da Declan a Blackwood, mai consegnato.

Un foglio ritrovato nel breviario del reverendo Whitmore.

Annotazioni sparse dell’ispettore Blackwood che non erano destinate alla luce.

Nessuno di questi brani contiene spoiler diretti, ma tutti espandono l’universo narrativo della saga, mostrando dettagli inediti, ombre dimenticate, e nuove sfumature dell’anima dei protagonisti. Alcuni testi sono poetici, altri quasi rituali, altri ancora pieni di tensione non detta.

L’obiettivo non è solo aggiungere contenuti, ma dare voce a ciò che resta taciuto nei romanzi.

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Il Diario Ritrovato di Padre Quinn – Appunti da una guerra invisibile

È solo un taccuino ingiallito, rilegato in cuoio consunto, segnato da bruciature, simboli e pagine strappate. Eppure, nel silenzio dell’Archivio Blackwood, quel diario è diventato una reliquia. Non per ciò che contiene, ma per ciò che lascia intuire.

Padre Marcus Quinn, ex missionario irlandese ed esorcista al servizio della diocesi di Londra, non è stato soltanto un alleato nella lotta contro l’oscuro. È stato testimone di orrori che pochi hanno il coraggio di nominare. La sua scrittura, irregolare e tormentata, registra giorni senza sole, notti senza confini, sogni abitati da presagi.

Il diario, che sarà parte integrante del progetto inedito I Diari Perduti, riporta rituali incompleti, anatemi mai pronunciati, nomi che non dovrebbero essere letti ad alta voce. Ma anche riflessioni intime, momenti di dubbio, e soprattutto l’ossessione per un’entità che ricorre in ogni sua missione: il Viaggiatore.

Frammenti dal Diario

«Stasera ho bruciato la veste. Le macchie non erano sangue, e l’odore non apparteneva a questo mondo.»
– 4 novembre 1886, Dal diario di St. Bride

«Le bambine dell’orfanotrofio non parlano. Non per scelta. Lo ha fatto lui. Ha sigillato le loro voci nel buio.»
– 23 febbraio 1887, Missione a Lichfield

Un progetto esclusivo

Questo diario non sarà pubblicato integralmente. Alcuni estratti selezionati saranno pubblicati più avanti… Non voglio anticipare troppo!

Chi segue le indagini dell’Ispettore Blackwood troverà in queste pagine una nuova voce, diversa da Edgar ma ugualmente inquieta. Un uomo di fede che ha visto troppo, che ha camminato tra le ombre, e che ha scelto di scrivere per non dimenticare.

Se siete pronti ad ascoltarlo, Il Diario Ritrovato di Padre Quinn (non è il titolo definitivo) vi parlerà. Non nel modo che vi aspettate.

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Il Manuale delle Ombre – Appunti per i nuovi membri dell’Archivio Blackwood

Documentazione interna. Vietata la diffusione non autorizzata. Copia destinata esclusivamente al personale operativo dell’Archivio Blackwood. In caso di smarrimento, distruggere immediatamente.

Premessa

L’Archivio Blackwood non è un’organizzazione ufficiale. Non esiste nei registri, non risponde a nessun organo di polizia, né alla legge dei tribunali. Eppure è da più di vent’anni che i suoi membri lavorano nell’ombra per contenere, documentare e, quando necessario, distruggere ciò che non dovrebbe esistere.

Questo manuale è stato scritto per coloro che, per volontà o per dannazione, entrano a far parte dell’Archivio. Le seguenti annotazioni derivano da casi realmente accaduti, da errori pagati col sangue e da verità che non devono mai essere pronunciate ad alta voce.

Capitolo I – Su ciò che non va mai scritto

“Il male prende forma anche nei pensieri. Scrivilo solo se sei disposto a sopportarne le conseguenze.”

Non trascrivere mai integralmente un rituale, neanche per studio. Non appuntare nomi che non sai pronunciare. Non segnare su carta le coordinate di un luogo maledetto: il foglio stesso potrebbe divenire veicolo di richiamo.

Se sei costretto a farlo, usa abbreviazioni, codici personali o simboli sostitutivi. La carta assorbe più di quanto credi.

Capitolo II – Su quando un caso va bruciato

Non tutti i casi devono essere archiviati. Alcuni devono sparire.
Se trovi un dossier etichettato come “incenerire”, fallo senza aprirlo.
Se trovi uno che porta il simbolo inciso a mano sul bordo sinistro – una croce rovesciata con un cerchio spezzato – e non ha firma… non è un caso dell’Archivio. È un avvertimento.

Non leggerlo. Non toccarlo a mani nude. Distruggilo entro l’alba.

Capitolo III – Come comportarsi con l’ignoto

Mai voltare le spalle a una porta aperta che prima era chiusa.
Mai parlare a un cadavere che ti rivolge la parola.
Mai accettare oggetti da un bambino che non batte ciglio da più di 30 secondi.

L’ignoto osserva, imita, tenta. Non cercare di “capire”. Limitati a riconoscere. E quando lo fai… agisci in fretta.

Capitolo IV – Come riconoscere un traditore

Il traditore non arriva con un coltello. Arriva con buone intenzioni.
Parla di “ordine”, di “poteri superiori”, di “rivelazioni”.
Ride quando nessuno ha detto nulla.
Ha le mani fredde, anche d’estate.

Se un tuo collega torna da solo da una missione in due… osserva i suoi occhi. Se sembrano troppo lucidi, troppo normali, troppo presenti… non è più lui.

Capitolo V – Come trattare con l’Archivista

Non chiedere mai all’Archivista da dove venga o da quanto lavori qui.
Non tentare mai di leggere i suoi fascicoli.
Non chiedere mai perché abbia solo otto dita.

L’Archivista conserva tutto. Anche ciò che è stato cancellato. E ricorda anche ciò che non hai mai detto.

Capitolo VI – Quando puoi andartene

Non puoi.
Una volta firmato il patto (sia esso scritto, orale o solo mentale), sei parte dell’Archivio.
Puoi scegliere il silenzio.
Puoi fingere di dimenticare.
Ma se il tuo nome è su uno dei dossier… prima o poi sarai richiamato.

Alcune note marginali trovate sui margini del manuale originale:

“Non fidarti di chi beve solo tè. Nemmeno una goccia d’acqua.”

“Il caso Whitmore non è chiuso. Solo sepolto.”

“Declan aveva un codice. Trovalo.”

“Non toccare mai la settima chiave.”

Appendice finale (per i lettori del blog)

Questo articolo è un estratto dal Manuale delle Ombre, redatto da Edgar Blackwood a partire dal 1886 e aggiornato negli anni dai suoi colleghi. Naturalmente, non è mai stato ufficialmente pubblicato… ma in fondo, nessuno è mai davvero uscito vivo dall’Archivio.

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Il baule di Declan: memorie da una vita nell’ombra

Nel seminterrato umido e polveroso della casa di Blackwood, nascosto dietro una fila di vecchi archivi, giaceva un baule dimenticato. Era di legno massiccio, con rinforzi in ferro annerito e un lucchetto arrugginito che pareva non essere stato aperto da anni. Sopra, incisa con mano ferma, una scritta in gaelico: “Fuil is Tost” – Sangue e Silenzio. Era il baule di Declan O’Connor.

Nessuno aveva più osato toccarlo da quando l’ex sergente era scomparso nel buio di Whitechapel. Nemmeno Edgar Blackwood, che pure aveva condiviso con lui ogni orrore e ogni scoperta. Eppure, un giorno d’inverno del 1889, spinto da un’intuizione o forse dal rimorso, Blackwood spezzò il sigillo e aprì quel reliquiario della memoria.

All’interno: un archivio dell’anima

Il baule era più ordinato del previsto. Ogni oggetto pareva disposto con un’intenzione silenziosa. C’erano i suoi vecchi taccuini, consumati dal tempo e dall’umidità, pieni di appunti scritti in fretta durante le indagini, con schizzi di simboli, frammenti di rituali, nomi cerchiati più volte con rabbia. Tra le pagine, spuntavano lettere mai spedite, una delle quali indirizzata proprio a Blackwood. Diceva:

“Se non dovessi tornare… distruggi tutto. Non lasciare che trovino ciò che sappiamo.”

C’erano anche fotografie annerite, tra cui una che ritraeva Declan con un giovane prete — Marcus Quinn — davanti a una chiesa scozzese in rovina. Sotto, una sola parola: “Inizio”.

Oggetti dimenticati, storie mai raccontate

Tra i cimeli spiccavano alcuni oggetti di forte impatto emotivo:

un rosario spezzato annerito dal sangue,

una pistola Webley priva di un colpo,

una moneta romana forata,

un piccolo sacchetto di tela contenente ossa scolpite con rune celtiche.

Blackwood rimase colpito da quanto Declan tenesse nascosto, anche a lui. Il baule non era solo un contenitore: era un confessionale di legno, dove Declan aveva riposto tutto ciò che non aveva mai potuto dire. Un archivio personale, più oscuro e inquietante di qualsiasi fascicolo di Scotland Yard.

Il lascito

Il baule di Declan divenne parte dell’Archivio Blackwood, custodito ma mai esibito. Nessuno oltre Edgar ne conosce il contenuto completo. Alcuni dicono che abbia gettato nel fuoco uno degli oggetti trovati. Altri, che uno degli appunti di Declan abbia guidato Blackwood verso il caso successivo, il più pericoloso di tutti.

Ma una cosa è certa: Declan O’Connor non è morto invano. Le sue memorie, anche se frammentarie e spesso indecifrabili, sono ancora oggi oggetto di studio. Alcuni dossier riservati, ispirati proprio a quegli appunti, sono stati ricostruiti per chi segue l’Archivio Blackwood.

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Il caso mai consegnato: l’ultima indagine personale di Declan O’Connor

Fascicolo non protocollato – Ritrovato illeggibile nel fondo 3C dell’Archivio Blackwood

Nessuno lo stava cercando.
Nessuno sapeva che esistesse.
Eppure, tra le pagine logore di una cartellina priva di intestazione ufficiale, qualcuno ha finalmente ritrovato l’ultima indagine personale del sergente Declan O’Connor.

Il documento – carbonizzato sui bordi e intriso di muffa – non era mai stato protocollato.
Nessun timbro. Nessuna firma. Nessuna data certa.
Solo una parola, scritta a mano sulla copertina:
Sennock.”

Il frammento recuperato

Riportiamo, per quanto leggibile, uno stralcio trascritto fedelmente:

“Mi sono recato a Sennock dopo il tramonto, senza avvertire l’Ispettore. L’uomo di nome Hargrove aveva parlato di un odore nei boschi. Non di cadavere. Di muffa viva. Di carne che respira sotto terra. Ho trovato la cappella. Non era abbandonata. C’era una candela accesa, e delle catene. Ma soprattutto… una voce che non voleva essere ascoltata.

“Non entrerò di nuovo. E spero che nessuno legga questo. Se non tornerò, non aprite. Sigillate tutto.”

Il foglio termina con una frase incisa a pressione, come se l’inchiostro fosse finito:

Non è un culto. È una pazienza. Qualcosa sta aspettando.”

Cosa c’era a Sennock?

Nessun rapporto ufficiale parla di Sennock.
Non compare nei fascicoli associati ai casi di Whitechapel, né nei verbali firmati da Blackwood.
Eppure, una vecchia mappa dell’Archivio, risalente al 1879, segna proprio in quella zona un monastero demolito dopo un incendio mai chiarito.

Non ci sono nomi, ma tra i disegni ritrovati nel fascicolo si intravedono:

un portone in pietra con una croce rovesciata scolpita al contrario (dal lato interno)

una figura inginocchiata davanti a un altare vuoto

e un simbolo simile a un cerchio tracciato con sette graffi

Ipotesi e silenzi

Secondo l’Archivio, Declan O’Connor non ha mai parlato di questa indagine a Blackwood.
Non c’è traccia di testimonianze, né di trascrizioni ufficiali.
Solo questo dossier, forse scritto di nascosto. Forse mai concluso.

Eppure, chi conosce la fine del sergente sa una cosa:
non è morto impreparato.
Aveva già visto. Aveva già capito.
Qualcosa… lo aveva già trovato prima.

Non sappiamo cosa aspettasse a Sennock.
Ma il fascicolo è ora conservato sotto chiave.
Nel fondo 3C dell’Archivio Blackwood.
E, come da sua richiesta, non verrà più aperto.

Almeno non finché qualcuno non tornerà in quella foresta.
E deciderà di ascoltare la voce che nessuno doveva sentire.

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Le donne dell’Archivio Blackwood

Sante, vittime o streghe? Il ruolo delle donne nell’orrore gotico

Nel mondo dell’Archivio Blackwood, le donne non sono mai semplici comparse.
Sono anime spezzate, corpi in preghiera, volti scolpiti dal dolore.
Sono le prime a percepire l’ombra.
E spesso, sono le prime a cadere.

Ma non sono deboli.
Sono il confine sottile tra il sacro e il profanato.

La voce spezzata di Fairweather

Fairweather non è solo un personaggio secondario. È uno specchio.
Riflette il trauma di chi osserva il Male e sopravvive.
Nel secondo volume, Il Vangelo delle Ombre, la vediamo oscillare tra la fede e il dubbio, tra la razionalità e il terrore.
Ma ciò che la rende memorabile non è ciò che dice.
È ciò che non osa più dire.

La sua voce, come molte donne nell’universo di Blackwood, è interrotta. Ma è lì che vive la forza: in ciò che resiste, anche nel silenzio.

Possedute. Ma da chi?

Le donne possedute sono una costante.
Non solo nel romanzo, ma nella tradizione letteraria gotica.

Ma cosa possiede davvero queste figure? Un’entità oscura? Il peccato? Il giudizio?
O forse è solo la disperazione mai ascoltata?
L’Archivio Blackwood, senza predicare, lo suggerisce:
A volte il Male entra da porte che la società stessa ha lasciato aperte.

La strega e la martire

Tra le pagine dell’Archivio emergono anche figure quasi mitologiche:

donne rinchiuse perché “visionarie”

suore che custodiscono segreti

madri che compiono sacrifici impensabili

bambine che parlano lingue antiche nel sonno

Tutte, in fondo, incarnano una verità ancestrale:
la donna è sempre sospesa tra venerazione e condanna.

E in questo equilibrio spettrale, si annida il cuore dell’orrore.

Il corpo femminile come luogo sacro e profanato

In Il Vangelo delle Ombre, il corpo della donna diventa territorio rituale.
Strumento e simbolo.
Reliquia e minaccia.

Ma è anche, nella sua sofferenza, l’unico baluardo contro l’annientamento.

Chi ha letto con attenzione sa che spesso, mentre gli uomini indagano, le donne ricordano.
Mentre i sacerdoti parlano, le madri tacciono.
Ma nel silenzio, scrivono la storia vera.

Conclusione

Nell’Archivio Blackwood, le donne sono vittime, sì.
Ma sono anche vessilli, portali, ferite aperte che rivelano verità dimenticate.
Sono quelle che vegliano sul Male… anche quando nessuno ha il coraggio di guardare.

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I casi mai risolti: la sezione segreta dell’Archivio Blackwood

Due fascicoli sepolti, mai chiusi. Forse un giorno… torneranno alla luce.

Nascosti tra le ultime pagine logore del fascicolo personale dell’ispettore Edgar Blackwood, vi sono documenti che nessuno osa aprire. Si tratta di casi mai risolti, chiusi in fretta, archiviati sotto il peso della paura o dell’opportunità politica. Ma l’inchiostro, si sa, non dorme. E quelle storie… vivono ancora.

Oggi, per la prima volta, l’Archivio Blackwood ne riporta alla luce due.

Caso 14-B: Il Volto nel Vetro

Località: Stepney Green, Londra Est
Data: Novembre 1887
Status: Incompleto – Testimone irreperibile

Una bambina affermava di vedere ogni sera, allo stesso orario, “un volto che non è riflesso” nel vetro di una finestra murata da anni. Nessun passante, nessun interno. Solo un volto che piange, grida, poi sparisce.

Blackwood annotò:
Il vetro è opaco. Eppure ogni sera, a mezzanotte, qualcuno dall’altro lato urla il mio nome. Non so cosa voglia. Ma non è umano.”

Il caso fu archiviato dopo la misteriosa scomparsa della piccola testimone. L’intero edificio è oggi abbandonato, murato con ordine del Comune. Nessuno indaga più.

Caso 22-D: L’Uomo che non dormiva mai

Località: Croydon, periferia sud
Data: Maggio 1886
Status: Non documentato ufficialmente – Fascicolo occultato

Un uomo affermava di non dormire da 19 anni. Ogni medico consultato lo dichiarò sano. Ogni notte sedeva in giardino, immobile. Finché i vicini iniziarono a raccontare che, col passare dei mesi, la sua ombra si muoveva da sola.

Blackwood, dopo un sopralluogo, scrisse:
C’è un errore nella cronologia del tempo. L’uomo vive tra le pieghe di qualcosa che non comprendo. L’ombra lo ha lasciato. E ora lo guarda.”

Il caso fu archiviato senza verbali ufficiali. Tutti i documenti cartacei sono stati ritrovati solo anni dopo, nascosti in una cartellina senza intestazione, legata con filo nero.

Forse un giorno…

Sono storie come queste a nutrire l’oscurità dell’Archivio Blackwood. Storie mai raccontate fino in fondo. Frammenti che non hanno avuto conclusione…
Ma forse, un giorno, troveranno il loro spazio. Una pagina. Un libro.
Una notte giusta.

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I nomi della paura: perché uso “Il Viaggiatore”, “Il Carnefice”, “Il Traditore”

Chi legge i miei libri lo ha notato.
Ne Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio, il Male non si presenta quasi mai con un nome proprio.
Non lo chiamo per nome.
Non lo voglio chiamare.

Eppure, ha un’identità.
La do attraverso un titolo. Un epiteto. Un’etichetta che non descrive… ma evoca.

Perché non uso nomi classici?

Perché un nome umano normalizza.
Dà contorni. Dà origine. Dà fine.

Il Viaggiatore, invece, non ha tempo.
Non sai se è uomo, spirito, dio o altro.
Sai solo che arriva, passa, osserva.
Il Carnefice non ha volto.
È una funzione. È un rituale che si compie.
Non agisce per odio. Agisce perché deve.
E il Traditore… non ha nemmeno bisogno di agire.
Gli basta esistere. È colui che ha aperto la porta. Anche se dice di non ricordare.

I nomi raccontano senza spiegare

Mi affascina l’idea di raccontare l’orrore senza bisogno di spiegare tutto.
Un titolo è come una cicatrice: dice che qualcosa è accaduto, ma non ti mostra il momento esatto.
Sta al lettore riempire quel vuoto.
Ed è proprio in quel vuoto che nasce la tensione.

È il lettore a decidere chi è chi

Molti lettori mi scrivono teorie.
“Il Viaggiatore è il Diavolo?”
“Il Traditore è Quinn stesso?”
“Il Carnefice… è solo un uomo?”

E la mia risposta è sempre la stessa: siete voi a dargli un volto.
Io fornisco le ombre.
Voi ci vedete dentro.

E forse, in fondo, è proprio questo il senso dell’Archivio Blackwood: non fornire risposte, ma mettere sotto chiave le domande giuste.

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Il Male silenzioso: cosa succede nei momenti in cui non succede nulla

Una porta che rimane socchiusa.
Un personaggio che trattiene il respiro.
Un lettore che si chiede se davvero c’è qualcosa… o se è solo suggestione.

Nei miei romanzi, ci sono momenti in cui il Male non si mostra, non colpisce, non parla.
Eppure è lì.
Anzi, proprio in quei momenti — quelli in cui non succede nulla — è più presente che mai.

Non tutto il terrore ha bisogno di una voce

Quando scrivo scene in cui Blackwood cammina in una casa abbandonata, o padre Quinn si ferma davanti a un simbolo inciso nella pietra, spesso non descrivo il Male direttamente.
Non ce n’è bisogno.

Il lettore sa che c’è.
Percepisce il peso dell’aria.
Il rumore delle scarpe su un pavimento antico diventa assordante.
Una pagina di diario lasciata aperta… è già una minaccia.

Per me, questa è la forma più autentica della paura: quella che vive nel silenzio.

Il silenzio non è vuoto. È sospensione. È attesa.

Il Male di cui parlo in Il Vangelo delle Ombre o in Il Carnefice del Silenzio non ha sempre bisogno di esplodere.
Spesso si limita a restare immobile, ma percettibile.
Come se aspettasse che tu ti avvicinassi da solo.

Non grida, ma ti osserva.
Non corre, ma ti precede.

E quando finalmente decidi di affrontarlo, scopri che era già dietro di te.

Scrivere l’assenza come presenza

Scrivere gotico non è solo descrivere l’orrore.
È descrivere l’attesa dell’orrore.
È costruire una tensione dove non succede niente… ma tutto è sul punto di accadere.

Per me, quei momenti sono i più difficili da scrivere.
E anche i più importanti.

Perché il lettore non si spaventa quando legge un mostro.
Si spaventa quando lo aspetta e non arriva.

E in quel buio, tra un respiro e l’altro, il Male trova casa.

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Quando il sacro si spezza: le croci rovesciate nell’immaginario gotico

C’è un’immagine ricorrente nei miei romanzi.
Non è un mostro, né un omicidio. È qualcosa di più sottile, più disturbante.
Una croce rovesciata su una parete scrostata, in una canonica dimenticata o sopra un letto vuoto.
E ogni volta che la descrivo, so di toccare un nervo scoperto del lettore. Perché quella croce non urla. Non sanguina. Ma parla. E quello che dice… non è rassicurante.

Una storia più antica del Male stesso

Paradossalmente, la croce rovesciata non nasce come simbolo blasfemo.
Nella tradizione cristiana antica, era il simbolo di San Pietro, che — secondo la leggenda — chiese di essere crocifisso a testa in giù, ritenendosi indegno di morire come Cristo.

Ma come spesso accade, i simboli vengono risucchiati dalla paura.
Nel tempo, quella croce capovolta è diventata il marchio dell’opposto: del sacrilego, dell’occulto, del profanato.
Un gesto semplice — ribaltare l’orientamento di una fede — è diventato una dichiarazione: qui Dio non protegge.

Nelle mie storie: un segno silenzioso ma definitivo

In Il Vangelo delle Ombre, nelle canoniche, negli orfanotrofi, sulle pareti delle camere da letto… le croci rovesciate compaiono come segni lasciati da chi ha abbandonato la luce, o da qualcosa che ha reclamato quel luogo.

Non sono mai “decorazione” o shock visivo.
Sono l’annuncio che qualcosa è stato interrotto.
Una fede, una protezione, un equilibrio.

Scrivere con un simbolo

Mi affascina molto l’idea che basti un piccolo gesto — ruotare un oggetto — per cambiare la sua natura.
Nel gotico, questo è potentissimo.
Prendi qualcosa di familiare e lo pieghi. Lo neghi. Lo distorci.
E il lettore lo sente, lo intuisce, prima ancora che lo capisca.

Quando descrivo una croce rovesciata non sto solo mostrando un luogo maledetto.
Sto dicendo: qualcuno ha sfidato Dio qui dentro.

E forse ha vinto.

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