Esistono elementi narrativi che, sin dalla notte dei tempi, sembrano evocare nell’uomo una paura atavica, profonda, quasi istintiva. Oggetti comuni, a volte innocenti, che diventano portali per l’inquietudine. Tra questi, pochi sono così potenti come le bambole, gli specchi e i pozzi.
Le bambole: il volto dell’innocenza corrotta
Nel mio racconto Il Sussurro del Pozzo, una bambola impolverata con le labbra cucite torna a tormentare il protagonista. Le bambole, per definizione, imitano l’umano. Sono fatte per essere familiari, ma proprio in quella somiglianza imperfetta, in quel volto fisso e vuoto, si annida il perturbante. Freud lo chiamava Unheimlich – “il non familiare che si finge familiare”. La bambola è l’eco muta dell’infanzia, ma nel gotico, quell’infanzia è sempre perduta, morta, dimenticata. E lei resta.
Gli specchi: riflessi che mentono
Uno specchio incrinato è il simbolo di una realtà rotta. Nei miei racconti, gli specchi non riflettono ciò che c’è, ma ciò che si nasconde. Sono portali, inganni, finestre su mondi alterati. A volte, il riflesso non coincide con l’originale. Altre volte, restituisce uno sguardo che l’osservatore non sa di avere. Lo specchio ci guarda, ci giudica. E spesso – nel gotico – ci tradisce.
I pozzi: la discesa nell’inconscio
Il pozzo è profondità, oscurità, umidità e silenzio. È l’antro da cui emerge la verità dimenticata. In Il Sussurro del Pozzo, è il luogo dove tutto comincia e tutto ritorna. Il pozzo non è solo una cavità nel terreno: è un simbolo archetipico, un ventre della terra, ma anche una tomba, un passaggio, un portale. Spesso si sente chiamare da ciò che vi abita. E a volte, risponde.
Questi oggetti – bambole, specchi e pozzi – sono più di semplici oggetti di scena. Sono strumenti narrativi potenti. Parlano al subconscio, evocano ricordi, paure e simbolismi antichi. E sono, da sempre, compagni inseparabili delle storie gotiche.
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