Gli Oggetti Maledetti nella Storia e nella Narrativa

Tra mito, cronaca e ombra…

C’è un filo sottile, quasi invisibile, che collega i mercati polverosi dell’antiquariato, le sale ovattate dei musei e i racconti sussurrati nelle notti senza luna. È il filo della maledizione. Oggetti che sembrano muti e inerti, ma che, secondo antiche dicerie, custodiscono più di un ricordo… custodiscono un’ombra.

Nella storia, la lista è inquietante e variegata. C’è la Dibbuk Box, un’innocente scatola di legno per il vino, resa famigerata da racconti di malattie improvvise, incubi e presenze oscure dopo ogni cambio di proprietario. O la bambola di Robert, oggi chiusa in una teca a Key West, accusata di muoversi da sola e di ridere di notte, lasciando dietro di sé un odore dolciastro di muffa e polvere.

E poi ci sono i gioielli maledetti, come il diamante Hope, il cui splendore ha attraversato secoli di ricchezza e morte, passando di mano in mano come un sussurro velenoso.

La narrativa gotica e horror non ha fatto altro che amplificare e reinterpretare queste paure ataviche. Da Il Ritratto di Dorian Gray, dove un’opera d’arte custodisce la corruzione dell’anima, fino ai miei racconti dell’Archivio Blackwood, in cui reliquie, cimeli e suppellettili si rivelano essere molto più di semplici oggetti: sono testimoni e custodi di segreti inconfessabili.

La forza di questi oggetti, reali o inventati, sta nella loro ambiguità. Non sono mostri che si muovono nell’ombra, ma presenze immobili che sanno attendere. Non attaccano: attirano. Non gridano: sussurrano.

In un’epoca come la nostra, in cui tutto sembra spiegabile e razionale, forse è proprio questo il motivo per cui continuano a inquietarci: ci ricordano che la vera paura non sempre viene da ciò che possiamo vedere… ma da ciò che crediamo di possedere.

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5 curiosità oscure sulla Londra dell’Ottocento che (forse) non conosci

“Non era solo la nebbia a soffocare Londra. Erano i peccati sepolti nelle sue fondamenta.”

Passeggiare per le vie della capitale vittoriana significava camminare sopra un passato insanguinato, tra vicoli impregnati di segreti e respiri che non appartenevano più ai vivi.

Ecco 5 curiosità storiche reali, tanto inquietanti quanto affascinanti, che hanno ispirato anche le atmosfere de L’Archivio Blackwood.

1. Il cimitero dei corpi senza nome (Cross Bones Graveyard)

Nel cuore di Southwark, dietro cancelli decorati con nastri e teschi, si nasconde Cross Bones Graveyard: un cimitero non consacrato per prostitute, poveri e “bambini bastardi”.

Tra il 1500 e l’Ottocento, furono sepolti qui migliaia di corpi senza nome. Nessuna preghiera. Nessuna lapide. Solo calce e silenzio.

Oggi è un luogo di memoria… ma alcuni giurano di sentire ancora pianti sotto terra.

2. Le gabbie degli impiccati di Execution Dock

Fino al 1830, i pirati catturati venivano impiccati lungo il Tamigi, presso l’Execution Dock. Ma l’esecuzione non era la fine.

I cadaveri venivano rinchiusi in gabbie di ferro e lasciati penzolare per giorni, come monito per chiunque osasse sfidare la legge. Le maree li bagnavano due volte al giorno. I gabbiani finivano il resto.

Un’usanza barbara, che ispirò molti racconti macabri… e incubi.

3. Il Club dei Cadaveri

Nel cuore della City, si dice che alcuni membri dell’élite frequentassero un club segreto dove si organizzavano cene con corpi umani rubati dagli obitori.

Non esistono prove documentali certe, ma tra il 1840 e il 1860 sparirono numerosi corpi da ospedali e fosse comuni.

Molti attribuirono i furti ai medici. Altri parlarono di un culto privato dedito al consumo rituale dei morti.

4. La vera Bedlam: l’ospedale dei folli

Il manicomio di Bethlem Royal Hospital, noto come Bedlam, era già famoso nel Medioevo. Ma è nell’Ottocento che raggiunse l’apice dell’orrore.

I malati venivano incatenati, immersi in acqua gelida o costretti a digiunare per “espellere i demoni”. E il peggio? Fino al 1815, si poteva pagare un biglietto per entrare a guardarli. Uno spettacolo dell’orrore.

Molti uscirono da Bedlam più folli di quando vi erano entrati.

5. I topi delle fogne e i bambini scomparsi

Secondo alcune cronache minori, tra il 1860 e il 1880 oltre 40 bambini poveri scomparvero senza lasciare traccia.

Alcuni giornali accusarono bande criminali. Ma si diffuse anche una leggenda urbana: che i bambini fossero attirati nelle fogne da un uomo deforme, poi divorati da colonie di ratti carnivori cresciuti sotto Londra.

Una fantasia? Forse. Ma nel 1871, un corpo mutilato fu davvero ritrovato vicino a un condotto fognario a Bethnal Green…

La Londra di Blackwood esiste davvero. Basta guardare nei punti oscuri.

Nei miei racconti, l’inquietudine non è solo invenzione: attinge dalla Storia, dalle leggende nere e dalle verità dimenticate sotto strati di nebbia e ipocrisia vittoriana.

Se ami queste atmosfere, esplora il mondo de L’Archivio Blackwood. Ogni pagina è una lanterna accesa in un vicolo dimenticato.

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Quanto tempo serve per scrivere un racconto di 40–60 pagine?

Molti mi chiedono quanto ci voglia a scrivere un racconto di lunghezza media.
Ovviamente non esiste una regola fissa, ma con un ritmo di scrittura costante e un minimo di organizzazione, i tempi possono essere molto più brevi di quanto si pensi.

1. Dalla pagina alle parole

In media, una pagina di un libro in formato standard (6×9 pollici) contiene circa 250–300 parole.

40 pagine circa 10.000–12.000 parole
60 pagine circa 15.000–18.000 parole

2. Il ritmo di scrittura

Se si mantengono 7–10 pagine al giorno, parliamo di 1.750–3.000 parole al giorno.
Con questo ritmo, la stesura diventa decisamente veloce:

40 pagine circa  4–6 giorni di scrittura
60 pagine circa  6–9 giorni di scrittura

3. Il tempo per la ricerca

Se il racconto richiede ambientazioni storiche, dettagli tecnici o realismo documentato, è bene aggiungere 1–2 giorni di lavoro dedicati solo alla ricerca.
La ricerca non si fa tutta all’inizio: spesso si alterna alla scrittura, integrando i dettagli man mano.

4. Revisione e rifinitura

Una volta completata la prima bozza, la revisione è fondamentale.
Con un racconto breve, bastano in media 2–3 giorni per riletture, correzioni e affinamento dello stile.

5. Stima realistica finale

Sommando tutto:

40 pagine circa 1 settimana
60 pagine circa 10–12 giorni

Naturalmente, se si scrive solo nel tempo libero o a giorni alterni, i tempi si allungano.

5 consigli rapidi per scrivere un racconto velocemente

1. Stabilisci un obiettivo giornaliero
Decidi un minimo di pagine o parole da raggiungere ogni giorno e rispettalo.

2. Scrivi prima, correggi dopo
Non fermarti a limare le frasi durante la stesura: la revisione viene dopo.

3. Crea una scaletta solida
Sapere in anticipo cosa scrivere in ogni scena accelera la produttività.

4. Rimuovi distrazioni
Scrivi in un ambiente tranquillo, senza notifiche o interruzioni.

5. Mantieni il ritmo
Anche nei giorni in cui hai poco tempo, scrivi almeno una pagina: è la costanza che porta al traguardo.

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Il Club dei Suicidi di Soho

Tra leggenda e cronaca nera nella Londra ottocentesca

Nel cuore pulsante e decadente della Londra vittoriana, tra i vicoli illuminati da lampioni a gas e i locali fumosi di Soho, si racconta di un luogo proibito: il Club dei Suicidi.

Non era un circolo letterario, né un ritrovo per libertini. Chi vi entrava sapeva che prima o poi sarebbe morto… e che non sarebbe stato lui a scegliere quando.

Le prime menzioni compaiono negli articoli di giornale tra il 1872 e il 1874: poche righe, spesso relegate alle pagine di cronaca, che parlavano di “giovani gentiluomini trovati morti dopo cene riservate” o di “un gioco d’azzardo con conseguenze definitive”.

Il presunto rituale era tanto semplice quanto spietato: ogni membro versava una quota in un fondo comune. A turno, una sera a settimana, si estraeva una carta nera. Chi la pescava aveva sette giorni di tempo per “onorare il patto”. Se non lo faceva, un “delegato del club” si occupava di lui. Nessuno usciva mai dal contratto.

Molti storici liquidano la storia come leggenda urbana, un racconto amplificato dai giornalisti per vendere copie. Ma alcuni dettagli inquietanti restano:

Due suicidi documentati in Greek Street avvenuti a distanza di giorni l’uno dall’altro, entrambi membri di una stessa società privata.

Un investigatore di Bow Street che dichiarò, in un rapporto interno mai pubblicato, di aver trovato in una soffitta di Soho un tavolo rotondo con 13 sedie, una delle quali recava ancora macchie di sangue secco.

Una lista di nomi, oggi dispersa, che secondo le voci sarebbe stata nascosta negli archivi della polizia fino alla metà del ‘900.

Non sapremo mai se il Club dei Suicidi sia stato reale o frutto della fantasia morbosa dell’epoca. Ma ancora oggi, passeggiando di notte per Soho, alcuni giurano di aver intravisto, dietro le tende socchiuse di un piano superiore, un brindisi silenzioso con tredici calici.

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Le ombre di Whitechapel – Cosa si nasconde nei muri che trasudano sangue

Londra, novembre 1888 – cronache da chi cammina con i morti.

Il vento, qui, non soffia. Striscia.
Come se non avesse il coraggio di alzare la voce tra questi muri che ricordano troppo.

Stamattina ho camminato da Limehouse fino a Whitechapel. Ci ho messo quasi un’ora, ma non ho mai alzato lo sguardo. Le finestre erano troppe. Troppe quelle con le tende chiuse, troppe quelle con le tende che non si muovono mai.
C’è odore di marcio in questo quartiere. Un odore denso, come di carne frollata e carbone bagnato. Un odore che non si leva nemmeno cambiando strada.

Mi sono fermato sotto il vicolo di Hanbury Street.
Lì il tempo è fermo. Un bambino lanciava sassi contro un muro, e ogni sasso lasciava una piccola impronta nera, come sangue rappreso.
I muri di Whitechapel sono porosi, assorbono il dolore. Alcuni dicono che respirino, altri che piangano. Io li ho visti
piangere.

Un’altra donna scomparsa, Ispettore. E questa volta ha lasciato un messaggio… inciso nella carne.”

Così mi ha detto uno degli agenti, ieri sera. Ma qui, le urla si sono abituate al silenzio.

Mi chiedo quante altre vittime abbia fatto qualcuno prima di Jack. Perché sento, nelle ossa, che questo non è cominciato con lui.
No, Whitechapel è una ferita vecchia. E Jack lo Squartatore è solo l’ultima lama che vi è stata infilata dentro.

Camminando, ho notato simboli tracciati col gesso, strani segni fatti a spirale, spesso sotto archi o nei punti dove le luci non arrivano. Alcuni sembrano recenti.
Una vecchia cinese mi ha sputato accanto e ha detto solo: “Tu non cercare l’uomo. Cercare ciò che lo guida.”

Torno verso Limehouse col cuore pesante. Ma anche con una certezza: qui qualcosa sta covando sotto terra, e prima o poi tornerà a galla.

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Lo Spiritismo nella Londra dell’Ottocento: tra sedute oscure e la fede di Conan Doyle

Nel cuore della Londra vittoriana, tra nebbie industriali e lampioni a gas, una nuova febbre si diffuse tra aristocratici, borghesi e intellettuali: lo spiritismo. In un’epoca segnata da guerre, epidemie e altissima mortalità infantile, l’ossessione per l’Oltretomba divenne un fenomeno sociale e culturale.

Tavole Ouija, medium e illusioni

Nato negli Stati Uniti negli anni ’40 dell’Ottocento con le sorelle Fox, lo spiritismo approdò in Inghilterra entro il 1852, prendendo piede rapidamente nella capitale. Le “sedute” si tenevano in case borghesi e salotti privati, dove le tavole Ouija, i bicchieri che si muovevano, i colpi sui muri e le luci danzanti offrivano l’illusione di un contatto con i defunti.

Madame d’Esperance, Daniel Dunglas Home, Florence Cook e molti altri medium divennero vere celebrità. Alcuni erano abili illusionisti; altri, sinceramente convinti di essere canali tra i due mondi. Le riviste dell’epoca come The Spiritualist e Light pubblicavano resoconti dettagliati delle manifestazioni spiritiche, spesso con disegni inquietanti e testimonianze oculari.

Lo spiritismo non fu solo una moda. Fu anche un modo per affrontare il dolore e la perdita, in un’epoca in cui la morte era onnipresente ma il lutto ancora privo di risposte.

L’uomo razionale che parlava coi morti

Tra i più celebri sostenitori dello spiritismo si annovera Sir Arthur Conan Doyle, il creatore del razionalissimo Sherlock Holmes. Sembrerebbe un controsenso: l’uomo che incarnò la logica assoluta, nella vita reale parlava con i morti.

Doyle si avvicinò allo spiritismo attorno al 1887, ma fu dopo la tragica morte del figlio Kingsley nella Prima Guerra Mondiale che abbracciò con fervore questa dottrina. Partecipò a decine di sedute spiritiche, scrisse The New Revelation (1918) e The Vital Message (1919), opere in cui sosteneva apertamente la realtà del contatto con l’aldilà.

Nel 1920 intraprese un vero e proprio tour internazionale per promuovere il movimento. Difese la veridicità delle fotografie delle fate di Cottingley e si inimicò il celebre illusionista Harry Houdini, che cercava invece di smascherare ogni truffa spiritica.

Una Londra intrisa di fantasmi e speranza

Lo spiritismo nella Londra vittoriana non fu solo un rifugio per i sofferenti. Fu anche un crocevia di illusionismo, religione, scienza nascente e letteratura. Sulla sua scia si formarono società come la Society for Psychical Research (1882), che cercavano un approccio scientifico ai fenomeni paranormali.

L’immaginario gotico della capitale ne uscì potenziato: dai vicoli di Whitechapel alle cripte di Highgate, il confine tra vita e morte non era mai stato così sottile. E in mezzo a tutto questo, anche lo sguardo gelido e razionale di Holmes sembrava doversi piegare, per un momento, all’invisibile.

Molti di questi temi ispirano ancora oggi la narrativa gotica contemporanea e, non a caso, tornano ciclicamente nei romanzi dell’Archivio Blackwood. Il fascino per l’ignoto, la morte e la sopravvivenza dell’anima restano interrogativi vivi, capaci di unire epoche, lettori e scrittori.


Fonti storiche:

  • Owen, A. (2004). The Darkened Room: Women, Power, and Spiritualism in Late Victorian England. University of Chicago Press.
  • Doyle, A. C. (1918). The New Revelation.
  • Noakes, R. (1999). “Telegraphy is an Occult Art: Cromwell Fleetwood Varley and the Diffusion of Electricity to the Other World”. The British Journal for the History of Science, 32(4).
  • Barrow, L. (1986). Independent Spirits: Spiritualism and English Plebeians, 1850-1910.

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Il letto che non permette di svegliarsi

Ci sono oggetti che sembrano inanimati… finché non li si usa.

Tra i resoconti più inquietanti raccolti durante le ricerche per L’Archivio Blackwood Volume II – I Racconti, ce n’è uno che si insinua piano, come un sussurro dietro la nuca. È la storia di un letto vittoriano rinvenuto in una casa abbandonata al confine est di Bethnal Green, in una residenza che un tempo apparteneva a un medico vedovo specializzato in disturbi del sonno.

Il letto, massiccio, intagliato a mano, con drappi scuri e cuscini consunti, sembrava ancora caldo. Come se qualcuno si fosse appena alzato.
Ma nessuno aveva più vissuto lì da trent’anni.

Le testimonianze che circolano tra gli archivi orali della zona — e in qualche diario dimenticato nelle biblioteche minori — parlano di un fenomeno ricorrente: chiunque dormisse su quel letto, faceva lo stesso identico sogno.

Una stanza piena di specchi, ma nessuno riflette chi dorme. Solo l’immagine di un bambino con la bocca cucita. Sempre più vicino.”

Molti si svegliavano in preda al terrore. Ma alcuni non si svegliarono mai.

Vennero ritrovati distesi, con gli occhi spalancati e la pelle fredda, senza segni di trauma. Nei giorni precedenti avevano scritto — come se spinti da qualcosa — pagine fitte di frasi sconnesse, tutte uguali:

Se sogni due volte, sei suo. Se sogni tre, gli appartieni.”

Uno dei ritagli più curiosi proviene da un foglio ritrovato nascosto nel cuscino:

DIARIO, NOTTE III – Anonimo, 1886

Non riesco più a distinguere il sogno dalla veglia. Stanotte la figura si è chinata su di me. Non aveva occhi. E mi ha detto: ‘Smettila di cercare di svegliarti. Sei già sveglio, qui con me.’”

Il letto fu bruciato nel 1892 da un gruppo di occultisti legati alla Rosa d’Inverno. Ma qualcuno sostiene che non sia il letto a essere maledetto, bensì il sogno stesso, che ora vaga in cerca di un altro letto… e di un altro dormiente da possedere.

E tu? Quanto ti fidi del tuo letto?

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Sulle tombe di pietra, con la nebbia alle calcagna

Highgate Cemetery, Londra – inverno 1888

Mi trovavo a Highgate prima che sorgesse il sole.
Non so bene perché ci fossi andato. Un impulso.
Un nome trovato su un vecchio foglio macchiato d’inchiostro, forse. Una promessa sussurrata da qualcuno che non ricordo.

Le prime luci dell’alba non riuscivano a penetrare la cortina spessa della nebbia. Ogni passo produceva un suono ovattato contro il muschio bagnato. Il cancello cigolava alle mie spalle, come a chiudermi dentro qualcosa di più antico del tempo stesso.

Lì dentro, la morte non riposava.
Ti osservava.

Le statue erano consumate, alcune prive di volto. Altre sembravano averne uno nuovo, scolpito dal tempo. Le lapidi oblique, ricoperte di licheni, portavano nomi cancellati dall’umidità. Nessuno veniva a piangere quelle tombe. Nessuno… tranne forse me.

Percorsi il viale principale, lasciandomi guidare da un sentiero che sembrava volermi condurre da qualche parte.
C’erano impronte. Non le mie. Troppo piccole. Troppo leggere.
Seguirle fu istintivo. E sbagliato.

Arrivai a una cripta.
Le porte in ferro erano aperte.
All’interno, il freddo era diverso. Vivo.
C’erano fiori secchi, candele consumate, e… un nome inciso nel marmo, identico a quello che avevo visto sul foglio la sera prima.
Non era possibile.

Poi udii un sussurro.
Non proveniva dall’esterno. Nemmeno dall’interno.
Proveniva da sotto.

Fuggii.
O almeno credo. Il ricordo di quel momento è rotto, come vetro.
So solo che, quando mi voltai, la cripta non c’era più.
Solo una lapide annerita dal tempo.

Oggi, ogni volta che passo da Highgate, evito quel sentiero.
Ma a volte, giuro…
Vedo le stesse impronte nella ghiaia.

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LA STANZA MURATA

Quando i vivi diventano guardiani dei morti

C’è qualcosa di profondamente inquietante nell’idea che dietro un muro della nostra casa possa esserci… una stanza dimenticata.
Ma ciò che inquieta ancora di più è quando quella stanza non è semplicemente “dimenticata”. È murata.
Chiusa.
Sigillata.

E dietro quel muro…
un corpo.

Una pratica reale, dal Medioevo all’Ottocento

Nel corso della storia, in molte parti d’Europa, murare vivi criminali, presunti indemoniati, donne accusate di stregoneria o persone colpevoli di “peccati inconfessabili” era una punizione estrema, spesso non registrata ufficialmente.
Ma anche murare i morti era pratica rituale.

Nei sotterranei di Napoli, a Palermo, nelle cripte francesi e persino in alcune dimore signorili della Londra vittoriana, sono stati scoperti ambienti murati con resti umani:

Cadaveri seduti, vestiti di nero o di saio.

Manufatti religiosi deformati accanto a loro.

Simboli apotropaici incisi sulla pietra.

In certi casi, una candela consumata a metà.

Come se qualcuno li avesse sepolti consapevolmente… per tenerli lì.

Quando murare è esorcizzare

Le “stanze murate” erano in certi casi usate come:

Confinamento post mortem per chi era sospettato di essere “ritornato”.

Sigillo spirituale: alcune credenze dicevano che murare il corpo impedisse all’anima di vagare.

Punizione eterna: per chi si era macchiato di empietà o aveva parlato troppo.

Contenimento: nei rari (ma reali) casi in cui si pensava che il corpo fosse posseduto anche da morto.

Un caso noto riguarda una villa nei dintorni di Ancona, dove fu scoperta nel 1879 una stanza sigillata con dentro il cadavere di una giovane donna, avvolta in veli neri e con la bocca cucita. Accanto, una preghiera scritta al contrario, incisa sul muro.

Dove cercare la verità

Riferimenti a queste pratiche si trovano in:

Documenti ecclesiastici del XVII secolo (soprattutto nei processi per possessione).

Archivi diocesani e lettere private dei confessori.

Testimonianze nei diari di medici legali del primo Ottocento.

Ritrovamenti archeologici in Francia e nel Meridione d’Italia.

Molte di queste storie furono taciute per evitare scandali.

Ma i muri non mentono.
E le stanze murate sono lì, ancora oggi, nascoste sotto i nostri piedi.
O magari, dietro la parete della vostra stanza da letto.

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Le vere lettere dei condannati a morte nell’Ottocento: confessioni, minacce, silenzi

Nel cuore delle prigioni vittoriane, dove il tempo era scandito dal cigolio dei ferri e dai passi lenti delle guardie, esistevano documenti che nessun archivista avrebbe voluto leggere. Le ultime lettere dei condannati a morte.

Scritti con mani tremanti, su carta spesso macchiata di sangue o lacrime, questi messaggi sono tra le testimonianze più disturbanti e umane mai lasciate nei secoli. Alcune implorano perdono. Altre maledicono. Altre ancora… non dicono nulla. Il foglio è bianco, ma conservato come se parlasse.

Lettera n.1 – “Non sarò solo”

Londra, 14 ottobre 1857
“Il mio nome lo avete cancellato, ma il mio corpo tornerà. Mi avete chiamato assassino, ma io ero solo uno specchio. E nei vostri occhi… ho visto lo stesso. Quando mi troveranno domani con la gola aperta, ricordate: io non sarò solo.”
– firmata “T.J.” – impiccato a Newgate

Lettera n.2 – Il silenzio del boia

Bristol, 1862
“Non ho mai parlato in vita mia. Non comincerò ora. Portatela a mia sorella. Dirle che è finita sarebbe troppo. Solo questo: l’uomo che mi uccide domani porta la croce al contrario.”
– firmata con un disegno a carboncino: un occhio cucito

Lettera n.3 – Frammento di un rituale

York, 1881
“Io accetto la punizione. Ma non per quel che ho fatto, per ciò che ho visto. Il sangue era vecchio. Il coltello era già in mano a qualcun altro. Dite loro che a mezzanotte il canto tornerà. Che le tre note aprono la porta. Che il primo nome era il mio.”
– Lettera mai consegnata, trovata sotto il materasso nella cella 17.

Perché conservarle?

Molti storici ignorano o minimizzano il valore di queste lettere. Ma nell’universo dell’Archivio Blackwood, nulla è casuale. Ogni parola scritta da chi sta per morire può diventare profezia, chiave, o maledizione.

Chi studia questi documenti sa che le lettere non vanno solo lette: vanno interpretate. Alcune riportano simboli criptici, inchiostri alterati, frasi palindromiche o segni tracciati a sangue. Alcune sembrano scritte in trance. Come se l’autore non fosse del tutto umano.

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