Quando l’amore diventa ossessione


Madri, figli e controllo nella mente criminale

C’è un confine sottile, fragile come un filo di seta, tra amore e dominio. Lo si attraversa senza accorgersene, spesso con le migliori intenzioni. È un confine che ho imparato a conoscere studiando la storia di Ed Gein, e che continuo a esplorare nei miei romanzi gotici, dove la devozione si trasforma in prigione e la fede si piega all’ossessione.

Nel caso di Gein, tutto nasce in una casa isolata nel Wisconsin, dove una madre impone al figlio una religione privata, fatta di colpa e castigo. Gli insegna a temere il mondo, a diffidare delle donne, a rifugiarsi solo in lei. Quando quella figura muore, Ed resta solo con i suoi fantasmi… e con l’impossibilità di lasciarla andare.
La madre diventa la sua voce interiore, il suo idolo e la sua condanna.
L’amore si trasforma in idolatria necrotica.

Non è solo follia, è un meccanismo umano e universale: la paura di perdere il controllo sull’unica cosa che ci fa sentire vivi.
Ecco perché storie come questa ci attraggono tanto: perché parlano, in fondo, della nostra fragilità più antica.
Il bisogno di essere amati.

Nei miei romanzi, da Le Ombre di Whitechapel a Il Vangelo delle Ombre, la maternità, la fede e la protezione assumono spesso forme oscure.
Dietro la luce dell’amore si nasconde sempre un’ombra che pretende obbedienza.
E a volte, per liberarsi da essa, serve un atto di distruzione.
È la stessa dinamica che muove Gein, ma anche molti dei miei personaggi: uomini e donne prigionieri di una voce che li chiama “figlio mio”, e che non permette loro di esistere da soli.

Perché l’amore, quando diventa possesso, non salva più. Divora.


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Dietro il Mito di Ed Gein: L’uomo oltre il mostro


Quando si sente il nome Ed Gein, l’immaginario collettivo corre subito a film horror, maschere di pelle umana, case degli orrori. Ma quanto c’è di vero dietro la leggenda? E soprattutto: chi era davvero l’uomo dietro il mito?
Per scrivere “Il Culto della Madre”, ho deciso di spogliarlo dai sensazionalismi, dalle fantasie morbose e dai filtri cinematografici. Quello che emerge è un individuo fragile, disturbato, vittima a sua volta di una madre manipolatrice e di un ambiente isolato e patologico.

Una figura lontana dal killer cinematografico

Contrariamente a quanto si pensa, Ed Gein non fu mai un serial killer nel senso tradizionale. Venne condannato per due omicidi accertati, ma il vero orrore fu ciò che si scoprì nella sua abitazione a Plainfield nel 1957: corpi dissepolti, resti umani manipolati, oggetti ricavati dalla pelle delle vittime.
Gein non uccideva per piacere o per sadismo. Le sue azioni erano l’espressione tragica di una psicosi profonda, di un disturbo dell’identità sessuale, e soprattutto, del trauma mai risolto legato alla madre Augusta.

Un contesto di abbandono e silenzi

Il piccolo Ed crebbe in una fattoria isolata, in Wisconsin, con una madre fanatica religiosa, che lo convinceva che le donne (tutte tranne lei) erano creature malvagie, e che il peccato si annidava ovunque. Il padre, alcolizzato e assente, morì quando Ed era adolescente. Poco dopo, perse anche il fratello.
Quando Augusta morì, il mondo di Gein collassò. Da quel momento, iniziò la deriva mentale: la casa venne trasformata in un tempio macabro dedicato alla madre, Ed conservava i suoi oggetti, chiudeva le stanze come reliquie, e si rifugiava in fantasie di resurrezione.

L’uomo che non voleva fare male… ma l’ha fatto

Molti lo descrissero come mite, gentile, quasi infantile. Non era il mostro urlante di Leatherface. Era uno spettro umano consumato dal delirio, dalla solitudine e da una sessualità repressa e contorta.
Questo non lo giustifica. Ma lo umanizza, e ci pone una domanda difficile: Cosa genera davvero l’orrore? Una mente malata? Una società che non vede? O una combinazione di entrambe?

Perché è importante raccontare la verità

Scrivere di Ed Gein non è stato semplice. Ma era necessario. Il mio saggio nasce proprio da qui: dal desiderio di fare luce storica su un caso trasformato nel tempo in leggenda nera, restituendo alla realtà – cruda e disturbante – la sua complessità.
Raccontare Gein non significa assolvere, ma capire. E in fondo, è proprio la comprensione ciò che più spaventa: perché ci costringe a guardarci dentro.


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Librerie, tomi e codici – I libri dentro i miei libri


Nel cuore dell’universo narrativo dell’Archivio Blackwood non ci sono solo omicidi rituali, sette oscure e simboli indecifrabili. C’è qualcosa di più antico, più fragile e allo stesso tempo più potente: i libri.

Spesso, nei miei racconti, i libri non sono semplici oggetti di scena. Sono strumenti di potere, portatori di verità scomode, porte verso l’indicibile. A volte bastano poche righe vergate su pergamena per cambiare il corso della storia. Altre volte, è la sola esistenza di un volume proibito a far vacillare la mente di chi lo trova.

Ecco alcuni dei volumi più emblematici comparsi nei miei romanzi.


Il Vangelo delle Ombre

Il più noto e allo stesso tempo il più temuto. Non è solo il titolo di un libro: è un oggetto reale nel mondo di Blackwood, un manoscritto rilegato in pelle annerita, segnato da croci antiche e lettere consumate. Le sue pagine non sono tutte leggibili. Alcune mutano, altre scompaiono. È un libro che sceglie chi può leggerlo, e che cambia chi osa farlo.


Il Diario di Vivian Ashcroft (Racconto inedito non ancora pubblicato)

Comparso ne Le Ultime Stanze di Millburn Asylum, è un quaderno pieno di schizzi, poesie deliranti e pagine strappate. Ma ogni frammento custodisce indizi sottili. Le sue annotazioni, scritte con grafia sempre più irregolare, raccontano una discesa nell’incubo. Un diario che è anche un testamento.


Codex Inversus

Citato di sfuggita in più racconti, si dice sia un libro scritto al contrario, da destra a sinistra, le cui frasi diventano comprensibili solo se lette allo specchio. Alcuni credono sia solo leggenda, altri che sia il testo originale da cui nacquero i rituali della Muta dei Santi. Nessuno sa dove si trovi. Forse è meglio così.


Lettere Nere

Non un libro, ma un insieme di messaggi mai spediti, raccolti in un fascicolo rilegato in cuoio, rinvenuto in un convento sconsacrato. I mittenti? Bambini scomparsi. I destinatari? Nessuno. Le parole? Piene di simboli, giochi fonetici, paure infantili. Un libro che non parla a chi lo legge, ma a chi lo ascolta.


Archivio B – Sezione Eretica

Nascosto tra i dossier ufficiali di Scotland Yard, questa sezione è ufficialmente inesistente. Ma esiste. È lì che Blackwood custodisce i casi più anomali, i documenti più impuri, le prove che nessun tribunale accetterebbe, ma che nessuna coscienza dovrebbe ignorare.

In un mondo dove la verità è spesso sepolta sotto veli di cenere e sangue, i libri restano testimoni silenziosi. Ma attenti: nei miei racconti, leggere può essere pericoloso. Perché alcune pagine non si limitano a raccontare. Alcune… osservano.


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Esorcismo nell’800: rituali, documenti e cronache autentiche

Nel cuore della Londra vittoriana, dietro la coltre di nebbia e il battito di una città che si credeva moderna, sopravvivevano rituali antichi. Lungi dall’essere relegati alla superstizione rurale, gli esorcismi erano ancora praticati, spesso nell’ombra, altre volte persino tollerati ufficialmente, purché ben nascosti sotto il velo del silenzio ecclesiastico.

Una fede incerta… ma pronta ad agire

Sebbene la Chiesa Anglicana non approvasse formalmente l’esorcismo, esistevano libri liturgici paralleli e manuali ad uso interno del clero, con formule per scacciare “spiriti impuri” e “presenze non identificate”. In alcune diocesi particolarmente conservatrici, vescovi e sacerdoti permisero (o chiusero un occhio su) interventi non ufficiali, purché condotti con discrezione.

Un documento conservato al Lambeth Palace Library, datato 1874, descrive un caso verificatosi a Deptford: una giovane donna che, secondo la cronaca manoscritta di un curato, «parlava latino senza averlo mai studiato e si contorceva come se mille aghi la trafiggessero».

I rituali: tra sacro e inquietante

I riti dell’epoca combinavano litanie antiche (riprese dal Rituale Romano) con elementi locali, come la benedizione dell’acqua in modo “modificato” e l’uso del sale posto sulla soglia della casa.

In alcuni casi, i diari di preti missionari — tornati dalle colonie — raccontano di possessioni inedite, in cui il male non si manifestava solo con urla o levitazioni, ma con mutamenti nel volto, odore di zolfo, e soprattutto presagi inspiegabili: un bambino che cantava una filastrocca mai sentita, il sangue che colava dalle pareti di una stanza sigillata.

Un mondo che ha ispirato l’Archivio Blackwood

Molti degli elementi presenti in Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio derivano proprio da queste cronache dimenticate. Il personaggio di padre Marcus Quinn, ad esempio, prende ispirazione da una figura reale: un prete irlandese di nome Padraig MacQuinn, che visse a Whitechapel e fu ritenuto un “guaritore delle anime infestate”.

In una lettera del 1887, MacQuinn scrive:

Il male non ha voce, ma quando prende corpo… urla con quella dei viventi.”

Lontani dall’immaginario hollywoodiano, gli esorcismi vittoriani erano eventi carichi di tensione, mistero e paura autentica. I preti si confrontavano con ciò che non riuscivano a spiegare, tra fedi in crisi e presenze che sfidavano ogni logica.

Una verità che, come le ombre di Londra, non è mai del tutto scomparsa.

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I libri proibiti dell’Archivio Blackwood

Tra grimori maledetti e vangeli dimenticati

Cosa accadrebbe se mettessimo insieme Il Necronomicon, il Codex Gigas e il Manoscritto Voynich in una sola stanza buia, silenziosa, protetta solo da candele tremolanti e un crocifisso capovolto? Accadrebbe l’Archivio Blackwood.

Nel cuore della saga firmata da Claudio Bertolotti, l’Archivio è molto più di un semplice magazzino di prove e documenti: è una biblioteca dell’occulto, un reliquiario del Male, un luogo che respira nel buio e attende lettori abbastanza folli da sfogliarne le pagine.

Ecco alcuni dei libri proibiti che custodisce:

Il Vangelo delle Ombre

Un manoscritto leggendario, redatto da una mano sconosciuta, contenente rituali che sfidano la morte e rivelano il volto dell’Inferno. Chi lo legge, non sarà mai più lo stesso.
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De Profundis

Testo rinascimentale bandito dalla Chiesa. Scritto da un monaco morto in odore di eresia, insegna come evocare “colui che cammina tra le ombre”. Si dice che Blackwood lo abbia consultato una sola volta… e poi chiuso per sempre in una teca di vetro sigillato.

Le Confessioni di Whitmore

Il diario maledetto del reverendo Aldous Whitmore. Un susseguirsi di appunti deliranti, preghiere rovesciate e visioni infernali. Conservato nella sezione “oggetti contaminati”.

Il Testamento del Sangue

Manoscritto gotico appartenuto al Conte di Wallachia. Alcuni studiosi sospettano si tratti della prima opera scritta da Dracula. Pagine rosse come l’inchiostro versato.

E molti altri:

Compendium Daemoniaca

Litanie dell’Antico Dio

Il Libro di Ceneri

Annuario delle Sette Inglesi, 1666

Dottrina Nera del Padre del Dolore

Nota dell’autore

Questi titoli sono frutto di finzione, ma la paura che ispirano è reale. Perché ogni leggenda, in fondo, nasce da un’ombra vera.

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Topografia dell’incubo: come costruisco i luoghi dell’orrore

Non tutti i luoghi sono solo spazi.
Alcuni, nell’Archivio Blackwood, respirano.
Altri ricordano.

Quando costruisco un’ambientazione non cerco solo un posto. Cerco una ferita nello spazio. Un punto sulla mappa dove il tempo si è distorto, dove qualcosa è rimasto imprigionato… o dimenticato. Le mie scene non si limitano a essere “gotiche”: devono disturbare, insinuarsi sotto pelle.

È così che nascono gli orfanotrofi abbandonati, gli archivi sotterranei, le cripte dimenticate, i confessionali marciti. Ogni luogo ha una storia non detta. E ogni dettaglio – una ragnatela, una croce spaccata, un letto svuotato – è un indizio che prepara l’orrore.

Uso cinque elementi per costruirli:

1. La rovina: ogni ambiente è segnato da una decadenza che parla da sola.

2. Il suono: gocce, scricchiolii, passi che non dovrebbero esserci.

3. La memoria: ogni stanza ha assistito a qualcosa. E lo trattiene.

4. Il simbolo: croci, rune, incisioni. Segni che non sempre puoi leggere.

5. La trappola: ogni luogo è un teatro. Ma chi è davvero lo spettatore?

Nell’orfanotrofio de Il Carnefice del Silenzio (senza spoilerare) , ad esempio, ogni corridoio è pensato per condurre e ingannare, ogni camera per custodire un’assenza. Ma anche una domanda.

Perché lì?
Perché così?
Chi ha lasciato quel simbolo sulla parete?
E soprattutto… è ancora lì?

Costruire i luoghi dell’orrore, per me, è come scavare una cripta.
So quando inizio. Ma non sempre cosa troverò.

Il lato umano del male: come nascono gli antagonisti nell’Archivio Blackwood

Quando immaginiamo il male, lo vestiamo spesso di artigli, oscurità e poteri occulti. Ma l’orrore più potente non viene da fuori. Viene da dentro. Da qui nasce ogni antagonista dell’Archivio Blackwood: non come mostri mitologici, ma come esseri umani deformati da desideri, fallimenti, paure e – a volte – fede.

Il Viaggiatore: il volto oscuro dell’anima

Il Viaggiatore non ha un volto, né un corpo. Ma non è meno reale. È il riflesso di ciò che temiamo di diventare: un’ombra che entra solo dove trova spazio. Non possiede, risuona. In ogni personaggio in cui si insinua, il vero orrore è la resa: uomini e donne che, pur sapendo, lo lasciano entrare.

Non è un demone canonico. È un’idea che prende forma. E funziona perché si appoggia sulla fragilità interiore. Il male, in fondo, entra da una porta lasciata socchiusa.

Aldous Whitmore: la fede che brucia

Whitmore è il più inquietante, perché non agisce per potere. Agisce per convinzione. La sua deriva non nasce da un patto con l’oscurità, ma da una preghiera non ascoltata. È un uomo spezzato che ha fatto un passo troppo oltre nel tentativo di salvare. E così ha dannato.

Whitmore è ciò che accade quando il bene diventa fanatismo. Quando l’obbedienza cieca cancella il dubbio e la colpa viene giustificata dal fine. È un prete, sì, ma lo è anche quando sacrifica. E questa ambiguità lo rende spaventoso.

Dorian Gray (il futuro antagonista): la corruzione dell’immortalità

In un futuro prossimo volume, Dorian sarà l’antagonista. Ma non sarà quello di Wilde. Sarà qualcosa che Wilde non ha voluto mostrare: cosa accade quando l’anima resta imprigionata per decenni nel peccato senza mai morire. Il suo male non sarà estetico, sarà spirituale.

Dorian sarà il volto del vizio senza conseguenze. L’orrore non sta nei suoi gesti – seppur orribili – ma nel vuoto con cui li compie. Perché quando nulla ci può punire, nulla ci può più salvare.

Il segreto è l’umanità

Tutti i nemici di Blackwood – anche i più occulti – hanno qualcosa di umano. Ecco il vero nucleo della saga: il male non è un’entità esterna, ma una possibilità. Un errore che compiamo. Un dolore che ci cambia. Un abisso che ci guarda, sì, ma solo se prima lo abbiamo guardato noi.

L’Archivio Blackwood non è un bestiario dell’orrore. È una cartella clinica dell’animo umano. E ogni antagonista ne è una pagina malata.