Dal Saggio al Romanzo: due lingue, una sola voce


Quando ho iniziato a scrivere Il Culto della Madre oltre dieci anni fa, non avrei mai immaginato che sarebbe diventato il mio primo saggio pubblicato. È nato da un’urgenza di verità, da un fascino oscuro che mi ha accompagnato per anni, anche mentre iniziavo a muovere i primi passi nel mondo della narrativa gotica.

Sì, perché il mio primo romanzo l’ho scritto circa 5 anni fa, e da allora non mi sono più fermato. Ma quel saggio, iniziato molto prima, mi ha sempre seguito come un’ombra. E oggi capisco che questi due percorsi — il saggio e il romanzo — non sono così lontani come sembrano.


Il romanzo: evocare

Nella narrativa, il mio compito è evocare. Raccontare senza spiegare tutto, lasciare zone d’ombra, costruire un’atmosfera che dialoga con il lettore a livello emotivo. Un dettaglio descritto al momento giusto può valere più di mille analisi. Posso usare simboli, metafore, sogni, visioni. L’ambiguità è un alleato.

Il lettore, in fondo, è un complice. Legge perché vuole immergersi, perché vuole sentire il respiro di Edgar Blackwood nelle nebbie di Whitechapel o nelle cripte dimenticate di Hollowgate. Non devo convincerlo di nulla, devo solo farlo sentire.


Il saggio: dimostrare

Nel saggio, tutto cambia. Devo essere lucido, preciso, responsabile. Non si tratta più di evocare, ma di dimostrare. Le parole devono avere un peso documentale. Ogni affermazione dev’essere sostenuta da fonti, testimonianze, prove. Non posso lasciarmi andare alla suggestione, ma nemmeno scrivere un freddo resoconto tecnico. Devo raccontare una storia vera… senza tradirla, e senza ingannare il lettore.

È come camminare in equilibrio tra etica e stile.
Tra cronaca e riflessione.
Tra rispetto e narrazione.


Un horror vero fa più paura

Paradossalmente, scrivere un saggio come Il Culto della Madre è stato più disturbante che descrivere rituali occulti o possessioni letterarie. Perché stavolta, tutto ciò che raccontavo è accaduto davvero.

Non c’è metafora. Non c’è filtro gotico.
C’è solo un uomo reale, fragile, disturbato, che ha vissuto con i cadaveri, che ha trasformato la follia in rituale, che ha fatto della madre il proprio culto personale.

Eppure, anche in quel delirio, ho sentito riecheggiare qualcosa dei miei romanzi: lo sguardo interiore, l’ombra come simbolo, il desiderio (fallito) di controllare la morte. Forse è proprio lì il punto di contatto tra il mio stile gotico e il saggio: la necessità di guardare il Male negli occhi, anche quando non possiamo spiegarlo.


Due linguaggi, un’unica voce

Alla fine, scrivere narrativa e scrivere saggistica non sono due mondi separati. Sono due strumenti diversi per raccontare ciò che ci ossessiona. Con uno costruisco mondi. Con l’altro, li decifro.

Ma in entrambi i casi, ciò che muove la mia scrittura è sempre la stessa cosa:
la volontà di scavare nell’oscurità dell’essere umano, senza cercare risposte semplici. Solo domande vere.


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Dietro il Mito di Ed Gein: L’uomo oltre il mostro


Quando si sente il nome Ed Gein, l’immaginario collettivo corre subito a film horror, maschere di pelle umana, case degli orrori. Ma quanto c’è di vero dietro la leggenda? E soprattutto: chi era davvero l’uomo dietro il mito?
Per scrivere “Il Culto della Madre”, ho deciso di spogliarlo dai sensazionalismi, dalle fantasie morbose e dai filtri cinematografici. Quello che emerge è un individuo fragile, disturbato, vittima a sua volta di una madre manipolatrice e di un ambiente isolato e patologico.

Una figura lontana dal killer cinematografico

Contrariamente a quanto si pensa, Ed Gein non fu mai un serial killer nel senso tradizionale. Venne condannato per due omicidi accertati, ma il vero orrore fu ciò che si scoprì nella sua abitazione a Plainfield nel 1957: corpi dissepolti, resti umani manipolati, oggetti ricavati dalla pelle delle vittime.
Gein non uccideva per piacere o per sadismo. Le sue azioni erano l’espressione tragica di una psicosi profonda, di un disturbo dell’identità sessuale, e soprattutto, del trauma mai risolto legato alla madre Augusta.

Un contesto di abbandono e silenzi

Il piccolo Ed crebbe in una fattoria isolata, in Wisconsin, con una madre fanatica religiosa, che lo convinceva che le donne (tutte tranne lei) erano creature malvagie, e che il peccato si annidava ovunque. Il padre, alcolizzato e assente, morì quando Ed era adolescente. Poco dopo, perse anche il fratello.
Quando Augusta morì, il mondo di Gein collassò. Da quel momento, iniziò la deriva mentale: la casa venne trasformata in un tempio macabro dedicato alla madre, Ed conservava i suoi oggetti, chiudeva le stanze come reliquie, e si rifugiava in fantasie di resurrezione.

L’uomo che non voleva fare male… ma l’ha fatto

Molti lo descrissero come mite, gentile, quasi infantile. Non era il mostro urlante di Leatherface. Era uno spettro umano consumato dal delirio, dalla solitudine e da una sessualità repressa e contorta.
Questo non lo giustifica. Ma lo umanizza, e ci pone una domanda difficile: Cosa genera davvero l’orrore? Una mente malata? Una società che non vede? O una combinazione di entrambe?

Perché è importante raccontare la verità

Scrivere di Ed Gein non è stato semplice. Ma era necessario. Il mio saggio nasce proprio da qui: dal desiderio di fare luce storica su un caso trasformato nel tempo in leggenda nera, restituendo alla realtà – cruda e disturbante – la sua complessità.
Raccontare Gein non significa assolvere, ma capire. E in fondo, è proprio la comprensione ciò che più spaventa: perché ci costringe a guardarci dentro.


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Il Futuro dell’Archivio Blackwood


Anticipazioni, ritorni e nuove discese nell’oscurità

Scrivere un romanzo gotico non è solo una scelta narrativa. È un rituale, un patto con l’ombra che ti osserva mentre scrivi. Ogni parola è una chiave, ogni libro un varco. Quando ho iniziato Le Ombre di Whitechapel, non immaginavo che mi avrebbe condotto tanto lontano. E ora, con Il Carnefice del Silenzio nelle mani dei lettori e Il Vangelo delle Ombre che ancora brucia come un’incisione nella carne, posso finalmente dirlo: l’Archivio Blackwood non si ferma. Anzi, si espande.

In tanti me lo chiedete: “Cosa verrà dopo?”
E oggi voglio iniziare a rispondere.


Un Prequel – La Muta dei Santi

C’è un tempo prima di Whitechapel, prima che l’ispettore Edgar Blackwood diventasse ciò che è oggi. Quel tempo ha un nome: La Muta dei Santi.
Un prequel ambientato anni prima, in una Londra ancora più cupa e violenta, in cui ritornerà un personaggio molto amato. Non posso dirvi chi, ma chi ha letto Le Ombre di Whitechapel potrà intuire…

Questa storia affonda nel passato più oscuro di Blackwood, un’indagine proibita che lo segnerà per sempre. Un viaggio nella Londra degli orfanotrofi sconsacrati, delle chiese murate e delle sette che strappano la voce a…


Un Sequel – Dopo Il Carnefice del Silenzio

Ci sono cose che nemmeno il silenzio può seppellire. E se avete letto Il Carnefice del Silenzio, sapete che qualcosa — o qualcuno — è rimasto in sospeso.
Il sequel è già in fase di progettazione. Sarà un romanzo più maturo, più doloroso e ancora più inquietante. Un’indagine che porterà Blackwood a uscire dai confini di Londra e a scoprire che il Male non è mai solo in un luogo. A volte è dentro di noi.


Uno Spin-off – L’Ombra di un Altro (non è il titolo del romanzo)

Alcuni personaggi non escono mai davvero di scena. Anzi, sono loro a guardarti, in attesa che tu li riscriva.
Sto lavorando a uno spin-off dedicato a un altro personaggio amato dai lettori, che in Il Vangelo delle Ombre  ha lasciato un segno profondo. La storia avrà un tono diverso, più personale e malinconico, e mostrerà cosa succede quando l’orrore non viene più investigato, ma subito.


La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto

E poi c’è lei. La saga che non vi aspettate, ma che torna all’origine del gotico.
La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto è il mio progetto parallelo: una saga gotica per ragazzi, ma non per questo meno inquietante.
Orfanotrofio, magia, silenzi che diventano mostri, amicizie salvifiche e varchi nascosti dietro i muri.
Una storia intensa, malinconica, piena di visioni e simboli, che parlerà ai lettori più giovani… e ricorderà agli adulti quello che avevano dimenticato.


Ogni libro che scrivo è un pezzo di un mosaico. E anche se ogni storia può essere letta da sola, tutto è connesso. Ogni personaggio, ogni simbolo, ogni frase non detta.

L’Archivio Blackwood non è mai stato solo una serie di romanzi.
È un mondo.
E vi assicuro: abbiamo appena iniziato a sfogliarlo.

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Perché ho scelto di scrivere un saggio su Ed Gein

Ci sono storie che non ti lasciano in pace. Non perché affascinino, ma perché inquietano, disturbano, costringono a guardare in fondo a ciò che normalmente scegliamo di ignorare.
Così, quasi dieci anni fa, iniziai a scrivere un saggio su Ed Gein, un uomo la cui mente contorta e tragica ha ispirato alcuni dei personaggi più iconici dell’orrore: Norman Bates in Psycho, Leatherface in Non aprite quella porta, Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti.

L’occasione nacque guardando American Horror Story – Asylum: il personaggio di Bloody Face, liberamente ispirato a Gein, mi spinse a chiedermi cosa ci fosse davvero dietro la maschera del mostro.
Da quel momento cominciai a raccogliere documenti, interviste, testimonianze e rapporti dell’epoca.
Non volevo scrivere un libro sensazionalistico, ma un saggio d’indagine psicologica, capace di separare la realtà dai miti che il cinema aveva creato intorno a lui.

Mi fermai a poche pagine dalla fine, travolto da lavoro e vita quotidiana. Ma quella storia rimase lì, sospesa.
Quando, qualche mese fa, Netflix ha annunciato la nuova serie su Ed Gein, ho sentito il bisogno di riprendere in mano quel manoscritto e completarlo.
Rileggendolo, ho ritrovato l’emozione e il disagio di allora, ma anche la consapevolezza che dietro la follia di Gein c’era un contesto umano, familiare, religioso e culturale che meritava di essere compreso, non solo giudicato.

Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana è il risultato di quel percorso.
Un lavoro che unisce ricerca, introspezione e analisi psicologica, per capire come un uomo comune possa trasformarsi nell’archetipo stesso del male.

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