5 Oggetti Reali Inquietanti Trovati in Case Vittoriane


Certe case non parlano. Sussurrano soltanto… attraverso gli oggetti che vi abitano ancora.

La Londra vittoriana era un teatro di ombre, superstizioni e stranezze. In quel mondo, nulla era davvero solo un oggetto: tutto poteva nascondere un segreto, una maledizione o un ricordo impossibile da cancellare. Nel mio lavoro di ricerca per l’universo di Blackwood, mi sono imbattuto in alcuni reperti davvero esistiti, oggi conservati in musei, collezioni private o semplicemente… dimenticati nei diari del tempo.

Ecco 5 oggetti reali e documentati trovati in abitazioni dell’epoca, oggetti che potrebbero benissimo appartenere all’Archivio Blackwood.


1. Il cuscino con denti da latte cuciti

Nel 1879, a Bethnal Green, durante il restauro di un’abitazione abbandonata, venne trovato un piccolo cuscino imbottito… non di piume, ma di denti da latte cuciti con filo nero. Secondo alcune credenze popolari, cucire i denti proteggeva l’anima del bambino dalla possessione.
O forse, la intrappolava.


2. La Bibbia incisa con capelli umani

Nella zona di Clerkenwell, nel 1883, fu rinvenuta una Bibbia da viaggio le cui pagine recavano incisioni sottili eseguite con capelli intrecciati a punta d’ago. Ogni versetto riportava una data di lutto familiare. Un vero libro del cordoglio privato, dove la fede si confondeva con l’occulto.


3. Lo specchio che non rifletteva le donne

A Whitechapel, un vecchio specchio ottagonale conservato oggi al Museum of London fu al centro di una credenza straziante: non rifletteva il volto delle donne, solo degli uomini. Si scoprì che, in realtà, lo specchio era stato inclinato leggermente verso l’alto per anni. Ma i racconti delle inquiline lo descrivevano come “uno specchio che conosce il peccato”.


4. La bambola cieca con palpebre cucite

Trovata in una soffitta a Limehouse, nel 1891: una bambola di stoffa dai bottoni rimossi e le palpebre cucite con filo rosso. Nessuna spiegazione fu mai trovata, se non una nota: “Non deve guardare”. Alcuni ipotizzarono che appartenesse a un rituale per tenere lontani spiriti maligni.
O per tenerli dentro.


5. Il baule delle ossa

Scoperto nel 1902 durante una demolizione a Seven Dials: un piccolo baule chiuso da due lucchetti arrugginiti, contenente ossa animali miste a resti umani infantili, secondo il referto dell’epoca. Non venne mai aperto pubblicamente: fu confiscato dalla polizia e… sparì.


Perché inserirli nei tuoi racconti?

Ogni oggetto è un frammento narrativo in potenza. Ognuno contiene:

  • Un simbolo (la bambola cieca = ignorare la verità)
  • Un enigma (lo specchio = percezione selettiva)
  • Un trauma (la Bibbia incisa = lutto e colpa)
  • Una possibilità per fare paura senza mostri.

Nel mio romanzo Il Vangelo delle Ombre, questi elementi non sono solo suggestione: diventano porta d’accesso a un altro mondo, e danno forma al Male stesso.
Perché il Male, spesso, indossa il volto dell’abitudine.


Hai mai trovato un oggetto inquietante in una casa antica?

Scrivilo nei commenti o raccontamelo su Instagram o Telegram: potresti ispirare il prossimo caso dell’Archivio…


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Edgar Blackwood: l’uomo, l’ispettore, il tormento


Ritratto psicologico del protagonista

Non è un eroe. Non è nemmeno un detective come gli altri.

Edgar Blackwood fuma sigari economici, si aggira tra i vicoli di Londra come un’ombra e, quando parla, pesa ogni parola come se potesse farla crollare addosso a chi lo ascolta. Dietro la divisa da ispettore, però, si nasconde un uomo che ha perso molto. Troppo.

Nato in una famiglia umile della periferia est di Londra, Blackwood ha conosciuto presto il silenzio: quello di una madre scomparsa troppo giovane e di un padre piegato dal lavoro e dalla solitudine. Cresciuto tra i muri umidi delle case popolari e i sussurri delle prime bande criminali, ha sviluppato fin da ragazzo un’ossessione per l’ordine — non quello imposto dalla legge, ma quello che esiste solo nei fascicoli ben chiusi, nei misteri risolti, nei nomi archiviati.

Il silenzio come rifugio

Blackwood non è un uomo di molte parole. Il silenzio è il suo strumento, ma anche la sua corazza. A volte, però, il silenzio si fa gabbia. Gli incubi che lo tormentano non hanno suoni, ma immagini: stanze vuote, volti perduti, sangue che scorre tra le pagine. Ogni caso lo cambia. Ogni rituale, ogni reliquia, ogni possessione lascia un segno.

Ne Il Vangelo delle Ombre, assistiamo a una lenta ma inesorabile frattura interiore: ciò che Blackwood vede e affronta inizia a scavare nella sua razionalità. Dubita della giustizia. Dubita della verità. Ma soprattutto, comincia a dubitare di sé stesso.

L’uomo oltre l’ispettore

Blackwood è un uomo spezzato, ma non distrutto. Non cerca gloria, né redenzione. Cerca solo di impedire che altri cadano dove lui ha visto l’abisso. La sua relazione con figure come Moira, Declan O’Connor o padre Quinn non è mai lineare: sono specchi frantumati in cui rivede ciò che ha perso, ciò che teme, ciò che non osa confessare.

Eppure, proprio perché rotto, Blackwood è autentico. I suoi silenzi parlano più di mille pagine. I suoi gesti — il modo in cui apre un fascicolo, il modo in cui osserva una scena del crimine, il modo in cui si volta al rumore di una candela che si spegne — raccontano il dolore, il peso della memoria e la sua ultima ossessione: fermare il Viaggiatore.


Se leggete i suoi dossier, fate attenzione: non troverete solo orrori. Troverete l’uomo che li ha attraversati. E non sempre ne è uscito vivo.


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Edgar Blackwood: l’uomo, l’ispettore, il tormento


Ritratto del protagonista della saga “L’Archivio Blackwood”

Non è un detective qualsiasi.
Edgar Blackwood non si limita a risolvere enigmi. Li porta dentro, li assimila, li lascia corrodere ciò che resta del suo equilibrio. È il tipo d’uomo che entra in una stanza infestata e si domanda chi ha lasciato la porta aperta nella sua anima.

Chi è davvero Edgar Blackwood?

  • Ispettore di Scotland Yard nella Londra vittoriana, lavora tra nebbia, sangue e segreti sussurrati.
  • Un uomo che non si fida della religione, ma teme profondamente ciò che non si vede.
  • Ha perso persone. Ha tradito la propria coscienza più volte. E ogni notte si chiede se sia davvero ancora dalla parte giusta.

Il suo tormento interiore

Blackwood è un razionalista ferito, costretto ad affrontare forze che la logica non riesce a spiegare.
Più si inoltra nei misteri dell’Archivio, più scava dentro se stesso: la sua fede, la sua colpa, la sua idea di giustizia.
Non cerca la verità per amore della verità.
La cerca perché sa che, se smette di cercare, qualcosa prenderà il suo posto.

La sua evoluzione nella saga

Nel primo volume (Le Ombre di Whitechapel) è uno scettico metodico.
Nel secondo (Il Vangelo delle Ombre), inizia a vedere l’orrore per ciò che è davvero: non solo sangue e rituali, ma un’eco che risuona nei ricordi e nella fede.

Blackwood cambia.
Diventa più duro. Più solo. Ma anche più consapevole.
L’oscurità non è solo fuori, è parte di lui.


Edgar Blackwood è l’uomo che cammina con la torcia accesa… ma sa benissimo che la torcia non basta a scacciare tutto ciò che vive nel buio.

Scopri il secondo volume della saga:

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Un giorno qualunque nel 1888… o forse no


“Alcuni giorni si lasciano raccontare. Altri si nascondono. Questo, invece, ci ha trovato.”


12 dicembre 1888 – Bethnal Green, Londra

Un uomo cammina lungo Cambridge Road. È l’alba. Porta con sé una borsa di pelle consumata e un piccolo mazzo di fiori secchi.

Dice che è per la moglie.

Dice che l’aspetta ogni giorno, da quando è morta nel 1879.

Ma nessuno gli ha mai chiesto nulla.

Nessuno tranne un ragazzo, stamattina, poco dopo le 6:00.

Gli ha chiesto: “Perché lo fai?”

E l’uomo ha risposto:
“Perché oggi è il giorno in cui torna.”

Poi si è voltato verso la cancellata del cimitero.
E ha sorriso.

Il cancello era già aperto.

Ma nessuno aveva le chiavi.

Né il custode. Né il vicario. Né Scotland Yard.
Eppure, il cimitero era aperto dall’interno.

L’uomo? Mai più visto.
La sua borsa? Trovata vicino a una tomba mai registrata.
I fiori secchi? Disposti a forma di croce rovesciata.

Sul retro della lapide c’era incisa una frase:
“Un giorno qualunque, per chi non ascolta.”


Perché ho scritto questo?

Perché i miei romanzi nascono da notti così.
Da appunti scritti su fogli che nessuno ha mai chiesto.
Da storie come questa, che sembrano finte, ma suonano vere.
Oppure sono vere, ma sembrano scritte.

E tu, lettore, che stai leggendo ora,
dimmi:
sei sicuro che oggi sia solo un giorno qualunque?


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I titoli che ho scartato prima de Il Vangelo delle Ombre


Trovare il titolo giusto per un libro è come cercare il battito del cuore in una stanza buia. Sai che c’è. Ma non basta sentire un rumore. Devi riconoscerlo come quel rumore. Quello giusto. Quello che farà vibrare anche il lettore.

Per Il Vangelo delle Ombre, ho scartato almeno cinque titoli. Alcuni belli. Altri evocativi. Ma nessuno… funzionava davvero.


I titoli scartati (veri)

1. “Il Libro del Vuoto”
Suonava bene. Era cupo, denso, persino un po’ mistico. Ma era anche troppo astratto, troppo filosofico. E il romanzo non è solo vuoto. È pieno. Di sangue. Di ricordi. Di segreti.

2. “La Croce Nascosta”
Un titolo forte, simbolico, quasi biblico. Ma sembrava anticipare troppo. E poi c’era un rischio: sembrava un thriller religioso canonico. Il mio libro è altro.

3. “Il Sermone del Silenzio”
Mi piaceva. Molto. Ma era troppo vicino al titolo del terzo volume: Il Carnefice del Silenzio. Rischiavo confusione.

4. “L’Evangelium Tenebris”
Latinismi. Mi piacciono. Ma non tutti i lettori li amano. E un titolo deve attirare, non intimidire.

5. “Il Canto delle Cripte”
Suona gotico, giusto? Ma anche… fumettistico. E un po’ troppo barocco.


Perché ho scelto Il Vangelo delle Ombre

Alla fine, l’ho capito: serviva un titolo che fosse solenne, ma inquietante. Qualcosa che evocasse:

  • Religione deviata
  • Luce spenta
  • Parola scritta… ma maledetta

E così è nato:
Il Vangelo delle Ombre.
Un titolo che non spiega, ma sussurra. Che non mostra… ma attira dentro.

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Cosa deve avere un titolo, per funzionare?

Secondo me, tre cose:

  1. Risuonare con il cuore del libro
    Non basta suonare bene. Deve contenere l’anima.
  2. Farsi ricordare
    Un titolo debole è come una porta anonima. Nessuno la apre.
  3. Accendere una domanda
    “Che cos’è questo vangelo? E perché è delle ombre?”
    Se un titolo genera una domanda, ha già vinto.

Ci sono titoli che sembrano perfetti, ma non sono il tuo. E altri che arrivano piano, come un sussurro dietro la spalla, e capisci che non potrai chiamarlo in nessun altro modo.


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Storie di crocifissi, specchi e sangue: l’iconografia del Male


Ci sono simboli che non hanno bisogno di spiegazioni.

Un crocifisso che lacrima sangue.
Uno specchio incrinato da cui qualcosa osserva.
Una lanterna accesa accanto a un pozzo senza fondo.

Nel mio universo narrativo – L’Archivio Blackwood – questi elementi ritornano spesso, come impronte lasciate dal Male nel cuore della notte. Ma non sono semplici immagini gotiche: sono archetipi. Segni ancestrali che la nostra mente riconosce prima ancora di comprenderli.

Il crocifisso che sanguina

Tra i simboli più potenti della tradizione cristiana, il crocifisso rappresenta la redenzione. Ma quando inizia a sanguinare, quel segno si capovolge. Non indica più la salvezza, ma l’irruzione dell’incomprensibile, la breccia che si apre tra divino e demoniaco.

In Il Vangelo delle Ombre, il sangue che cola da un crocifisso incrinato non è solo effetto scenico: è un messaggio. È la dimostrazione che qualcosa ha contaminato anche ciò che dovrebbe essere puro. Una chiamata visiva a smettere di fidarsi delle apparenze. La fede, da sola, non basta più.

Lo specchio rotto

Lo specchio è da sempre simbolo di verità, ma anche di inganno. Romperlo è come spezzare la realtà: ciò che era riflesso diventa altro, l’eco visiva del nostro inconscio si frantuma in mille immagini.

Ne Il Carnefice del Silenzio, lo specchio è spesso presente nei luoghi della possessione. Ciò che non si vede con gli occhi nudi, si manifesta nel riflesso. Ed è lì che il Male si insinua: non nella carne, ma nella percezione. Uno specchio rotto è un portale. Non si rompe da solo.

Il sangue come linguaggio

Il sangue nei miei libri non è mai casuale. È un linguaggio. È l’unica forma di scrittura che il Male sembra comprendere, e che a volte usa per comunicare. Le pareti di una cripta scritte col sangue non sono solo un orrore: sono una preghiera rovesciata.

Nell’Archivio Blackwood, ogni macchia ha un’origine, ogni segno una storia. Il sangue non macchia. Parla. Bisogna solo sapere come ascoltarlo.


Perché continuo a usare questi simboli?

Perché funzionano.
Perché nonostante il tempo, la cultura, la distanza tra lettore e autore… un crocifisso che piange, un pozzo buio, una lanterna tremolante colpiscono sempre al cuore del lettore. Lo scuotono, lo disturbano. E lo attraggono.

Perché, in fondo, anche tu – che stai leggendo – sai che se quella lanterna si spegnesse…
qualcosa uscirebbe dal pozzo.


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Le Ombre arrivano anche su TikTok


Una scelta sofferta, ma necessaria

Non pensavo che sarebbe mai successo.
Non perché snobbassi la piattaforma, ma perché per me scrivere significa tempo, profondità, silenzio. Tutto ciò che TikTok sembra non conoscere.

Eppure eccomi qui: ho deciso di aprire un profilo TikTok dedicato al mio nuovo libro, Il Vangelo delle Ombre.
Una scelta sofferta, sì, ma ragionata.

Perché se c’è una cosa che questo libro mi ha insegnato, è che le ombre vanno portate anche dove non c’è luce.
Anche dove non ti aspetteresti di trovarle.


Perché TikTok?

Perché voglio che questa storia, cupa e gotica, fatta di possessioni, silenzi, sigilli spezzati e anime dannate, arrivi anche a chi ancora non conosce l’Archivio Blackwood.

Perché ogni lettore in più è una lanterna che si accende nella nebbia.
E Il Vangelo delle Ombre merita di essere scoperto anche in mezzo al rumore.

Link tiktotk https://vm.tiktok.com/ZNdnHvNF2/


Se non lo hai ancora fatto…

La campagna di crowdfunding è ancora attiva su Bookabook.
Puoi preordinare il libro e sostenere questo viaggio tra oscurità, fede e segreti dimenticati.

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Segui le ombre. Anche su TikTok.
Ci troverai lì, tra una fiamma tremante e un simbolo inciso nell’oscurità.

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Il tempo nell’Archivio Blackwood


Quando i minuti diventano ombre

C’è una frase che ricorre spesso nei miei libri, anche se in forme diverse:
“Il tempo non passa. Si accumula.”

Perché nel mio mondo narrativo, il tempo non è un flusso, ma una sostanza.
Un residuo.
Una nebbia che si deposita sulle cose, e che a volte le soffoca.


Il tempo come ferita

In Il Vangelo delle Ombre, gli orologi si fermano sempre nello stesso istante.
Nel Carnefice del Silenzio, i giorni si confondono in una sequenza di notti senza nome.
E in Le Ombre di Whitechapel, persino la luna sembra restare immobile sopra i tetti.

Non è un caso.
Perché per i miei personaggi, il tempo non guarisce nulla: conserva.
Conserva le colpe, i rimorsi, i sussurri mai confessati.
Ogni secondo che passa diventa una cella in cui rinchiudere qualcosa… o qualcuno.


Il tempo come personaggio

Non lo dico per metafora.
Nei miei libri, il tempo agisce.
È la vera entità che muove ogni cosa, più del male, più del destino.
Decide chi dimenticare e chi condannare a ricordare.
È il giudice silenzioso che osserva tutto, ma non interviene mai.

Per questo gli orologi, le clessidre e i rintocchi tornano spesso.
Non come simboli di morte, ma di attesa.
Perché nell’Archivio Blackwood, il tempo non uccide.
Aspetta.


Il tempo come trappola

Chi legge la saga lo sa: Blackwood vive nel passato anche quando guarda avanti.
Ogni caso, ogni indagine, ogni morte lo riporta indietro.
Non nel ricordo, ma nel ritorno.
Il tempo, per lui, è un labirinto che non porta da nessuna parte… perché non ha uscita.

Forse per questo le mie storie finiscono sempre dove sono cominciate.
Perché la fine, nell’Archivio, non è una conclusione.
È solo un altro inizio che finge di essere diverso.


E fuori dalla pagina?

Anche nella scrittura, il tempo è il mio nemico più fedele.
Scrivo lentamente, riscrivo tutto, cancello, ricomincio.
Ogni libro diventa un rito di pazienza.
E forse è per questo che continuo a scrivere:
per provare, almeno sulla carta, a domare il tempo.

Anche se so che, alla fine, sarà sempre lui a domare me.


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Dove indagherebbe oggi Edgar Blackwood?


Certe ombre non invecchiano.
Non appartengono solo al passato.
Cambiano forma. Si adattano. Ma restano.

Se l’ispettore Edgar Blackwood vivesse oggi, non camminerebbe più lungo i vicoli di Whitechapel col bavero alzato e il revolver in tasca. Ma il suo sguardo – quello sguardo ostinato, stanco e lucido – sarebbe lo stesso. E si troverebbe a inseguire ombre moderne in luoghi diversi… ma non meno oscuri.


1. Dove sarebbero oggi le sue indagini?

  • Nei sottopassi delle metropolitane, dove si accumulano graffiti, silenzi e occhi che sfuggono.
  • Negli istituti psichiatrici dismessi, dove qualcosa è rimasto chiuso più a lungo del necessario.
  • Nelle aule dei tribunali, dove il Male si traveste da retorica e si protegge dietro una cravatta.
  • Nei vicoli digitali, dove anime perdute si scambiano violenza sotto pseudonimi.

Blackwood non ha mai inseguito il colpevole: ha sempre inseguito ciò che lo rende tale. E quel qualcosa esiste ancora. Cambia linguaggio, abiti, volto. Ma puzza sempre di marcio.


2. Quali crimini indagherebbe?

Non più solo delitti rituali o possessioni. Ma anche:

  • Scomparse ignorate, perché “erano solo tossici”.
  • Morti senza autopsia, archiviate come “incidenti”.
  • Ragazzi sedotti dal culto di qualcosa che non comprendono.

Blackwood non è un detective che cerca giustizia.
È un uomo che cerca risposte.


3. E se fosse dalla parte sbagliata?

C’è un’altra possibilità. Forse, nel mondo di oggi, Blackwood non sarebbe un ispettore. Forse nessuno gli crederebbe. Forse verrebbe sospeso, deriso, curato.
Forse continuerebbe a scrivere appunti su un vecchio quaderno, guardando fuori da una finestra, mentre Londra (o qualsiasi altra città) brucia in silenzio.

Ma anche in quel caso, non smetterebbe.
Perché il Male non dorme mai.
E nemmeno lui.


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Le cose che butto via quando riscrivo un capitolo


Una delle domande che mi sento fare più spesso è:
“Quanto cambi rispetto alla prima stesura?”
La risposta breve?
Tantissimo. A volte tutto.

Perché ogni volta che rileggo un capitolo, mi accorgo che qualcosa — una scena, un personaggio, un dialogo — non serve più alla storia. O peggio: la rallenta.

E allora butto via.
Senza pietà. Ma con un certo rispetto.


Cose che taglio senza rimpianti:

  • Scene bellissime… ma inutili.
    Quelle che “suonano bene”, ma non portano avanti nulla. Né la trama, né l’atmosfera, né l’anima del libro.
    Le lascio andare. Se mi servivano solo per dimostrare che “so scrivere”, allora non mi servivano affatto.
  • Personaggi che non sanno chi sono.
    A volte nascono per dire una cosa, poi non parlano più. O dicono troppo. O non aggiungono nulla.
    Meglio eliminarli che tenerli come comparse confuse.
  • Finali alternativi.
    Sì, ne scrivo spesso più di uno.
    Ma alla fine ne tengo solo uno. Quello giusto per la storia, non quello più comodo, né quello più clamoroso.

Cancellare è un atto d’amore

Scrivere non è solo aggiungere.
Scrivere è anche togliere. Togliere il superfluo. Il debole. Il finto.
Tagliare vuol dire avere il coraggio di fare spazio a quello che conta davvero.

Ci sono scene che ho riscritto sei o sette volte.
Una in particolare — un dialogo tra Blackwood e il suo antagonista — ha cambiato forma talmente tante volte che potrei pubblicare un libro solo con le versioni scartate.

Eppure… solo nell’ultima ha funzionato.


Dietro ogni libro pubblicato c’è un libro mai nato

Un libro fatto di pagine cancellate, finali alternativi, personaggi sacrificati, idee accantonate.
Ma è proprio quel libro invisibile che dà forza a quello che resta.

Perché ciò che leggi non è mai tutto ciò che è stato scritto.
È solo ciò che — alla fine — è sopravvissuto.


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