Certe storie iniziano a scriversi molto prima che qualcuno decida di raccontarle. Le Lettere Nere sono una di quelle storie.
Chi ha seguito le indagini di Blackwood sa che ci sono misteri ancora più antichi degli omicidi, dei culti o delle reliquie. Voci che circolano negli archivi sigillati, negli appunti cancellati, nei margini di un passato che nessuno ha mai osato sfogliare del tutto. È lì che vivono le Lettere Nere.
Non sono ancora apparse, non ancora. Ma ci sono indizi, dettagli lasciati apposta come briciole in una casa stregata. Chi conosce bene il sottosuolo della saga, sa che qualcosa sta arrivando.
Le Lettere Nere non sono messaggi qualunque. Sono parole che aprono portali, scritte con mani tremanti e inchiostro che non sbiadisce. Ogni lettera è un sussurro che sopravvive al tempo, un codice che collega morti distanti, visioni frammentarie, e verità sepolte.
Nel Prequel della saga, per la prima volta scopriremo la loro origine. La loro prima vittima. E soprattutto, chi o cosa le scrive davvero.
Perché una cosa è certa: non sono semplici lettere. Sono avvertimenti. E non sempre chi li riceve è ancora in tempo per cambiare il proprio destino.
Ogni storia ha un inizio. Ma costruire un intero mondo… richiede molto di più.
Quando ho iniziato a scrivere Le Ombre di Whitechapel, non avevo ancora idea che stavo posando la prima pietra di qualcosa di più grande. Pensavo si trattasse di un racconto gotico, autoconclusivo, ambientato nella Londra vittoriana. Poi sono arrivati i dettagli: una pergamena scritta in latino, un culto antico, una figura enigmatica col cappotto scuro e il vizio del sigaro. Edgar Blackwood non era solo un personaggio: era una porta d’ingresso.
Un mondo che si espande… a colpi di ostinazione
La fatica di costruire un mondo narrativo non sta solo nella documentazione storica, anche se quella è fondamentale. Sta nel dare coerenza a ogni gesto, ogni parola, ogni ombra. Quando una saga si allarga, devi ricordare cosa è successo nel 1888, cosa accadrà nel 1889, e come ogni piccolo evento si ripercuote su quelli futuri.
Ho creato file, scalette, mappe mentali, cronologie interne ma spesso sono serviti solo a farmi capire che dovevo reimmaginare tutto da capo. Alcuni personaggi sono stati eliminati, altri sono morti perché così doveva andare. Blackwood ha perso compagni, ha trovato nuovi alleati, e io con lui ho perso e trovato la direzione.
Le idee scartate? Più numerose di quelle pubblicate
Ci sono interi capitoli mai scritti. Titoli accantonati. Idee che sembravano geniali e si sono rivelate vuote. Alcuni nemici non erano abbastanza potenti. Alcuni misteri non abbastanza oscuri. A volte sono stati proprio quei fallimenti a spingermi oltre.
Il Vangelo delle Ombre è nato da uno scarto. Era un frammento, un’idea gettata via… finché non ho deciso di esplorarla fino in fondo. La mia paura più grande si è trasformata nella chiave per raccontare un nuovo orrore, più profondo.
Quando arriva l’intuizione giusta
L’intuizione arriva tardi. A volte nel sonno. A volte mentre stai facendo tutt’altro. La figura del Viaggiatore, per esempio, è nata da un sogno disturbante. E quel sogno è diventato il cuore del secondo volume. Così come il personaggio di Monroe – un alleato nato quasi per caso – ha conquistato un posto fondamentale nella saga.
Blackwood stesso non doveva nemmeno essere protagonista. Ma la sua voce ha preso forza, e io ho dovuto ascoltarla.
Non è solo “scrivere una storia”. È costruire una mitologia
Ogni racconto della saga Archivio Blackwood è parte di qualcosa di più ampio. Una cronologia. Una tensione. Un mondo. Chi legge i miei libri trova riferimenti, simboli ricorrenti, nomi già uditi. Nulla è lasciato al caso, ma molto viene lasciato nel mistero, come è giusto che sia in una storia gotica.
Londra diventa un personaggio. I suoi vicoli, la sua nebbia, i suoi segreti. E ogni nuova pagina deve rispettare ciò che è stato scritto prima, ma anche osare qualcosa di nuovo.
In conclusione…
Costruire l’Archivio Blackwood è stato (ed è ancora) un lavoro duro. Fatica, ricerca, tagli, riscritture, dubbi. Ma è anche ciò che mi ha reso davvero autore. E ogni volta che un lettore mi scrive per dirmi che ha riconosciuto un simbolo o ha seguito un’indagine pagina dopo pagina… capisco che questa fatica ha senso.
Grazie per essere parte di questo viaggio nell’ombra. A lume di candela, continueremo a cercare la verità tra le pieghe del Velo.
La sofferenza non è un espediente narrativo. Non è nemmeno una punizione. È il prezzo da pagare per essere reali.
Nella mia saga L’Archivio Blackwood, ogni personaggio – che sia un detective, un sacerdote, una bambina o un assassino – attraversa il proprio inferno. Non perché io, come autore, voglia condannarli. Ma perché non credo nella salvezza senza l’ombra della caduta.
Declan O’Connor, ad esempio, non è morto per stupire il lettore. È morto perché quella era l’unica strada coerente con la sua storia, con la sua lealtà e con ciò che la sua presenza significava per Blackwood. E Blackwood stesso non è l’eroe invincibile. È il risultato di ciò che ha perso.
La sofferenza come verità
Viviamo in un’epoca in cui spesso si scrivono personaggi “giusti”, “forti”, “risolti”. Ma io credo che il dolore sia l’unico elemento narrativo in grado di dire la verità. Quando Elias Monroe sbaglia, quando Padre Quinn vacilla, quando la bambina de Il Vangelo delle Ombre pronuncia parole che non le appartengono… lì, in quei momenti, smettono di essere personaggi. Diventano persone.
La sofferenza li umanizza. Li spezza e li scolpisce. E se non soffrissero, sarebbero solo funzioni nella trama. Non anime.
Il dolore ha un prezzo. Anche per chi legge.
Chi legge i miei libri lo sa: nessuno è al sicuro. Non perché io voglia scioccare. Ma perché la vita vera non protegge chi amiamo, e quindi nemmeno la narrativa dovrebbe farlo, se vuole restare sincera. C’è chi ha pianto per la fine di un personaggio. Chi mi ha scritto di aver rivisto sé stesso in una crisi di fede. Chi ha sentito che, forse, anche lui stava lottando contro un “Viaggiatore”.
La sofferenza dei miei personaggi è un patto. Io la scrivo, tu la attraversi. Insieme ne usciamo un po’ più sporchi. Ma anche un po’ più vivi.
Soffrono. Ma non smettono di cercare la luce.
Questa è l’unica cosa che non tolgo mai. Una candela, una voce, un simbolo inciso nel legno. Un gesto piccolo, inutile forse. Ma umano.
Perché se è vero che i miei personaggi soffrono… è altrettanto vero che nessuno di loro accetta di spegnersi completamente.
Ed è in quella resistenza silenziosa che, forse, si trova l’unico spiraglio di salvezza. Per loro. E per noi che li leggiamo.
Ci sono oggetti che nascono innocenti, creati per difendere, guarire o pregare. Poi, un giorno, finiscono nelle mani sbagliate e smettono di appartenere al mondo dei vivi.
Le croci, le reliquie, gli amuleti e gli strumenti di tortura non sono soltanto elementi del passato o simboli religiosi: nella storia dell’umanità hanno rappresentato la soglia tra fede e dominio, tra salvezza e dannazione. E nella narrativa gotica, quella soglia diventa spesso una trappola.
Croci che non proteggono
Nella saga de L’Archivio Blackwood, le croci sono un segno ambiguo: pendono dai colli dei fedeli e dei peccatori allo stesso modo. PadreQuinn, nel Vangelo delle Ombre, impugna la croce come un’arma, ma ogni volta che la solleva lo fa con paura, come se temesse che Dio non rispondesse più. Perché nel mondo di Blackwood non è la croce a proteggere l’uomo: è l’uomo a dare senso alla croce. E quando la fede si spegne, resta solo il metallo freddo, incapace di distinguere il bene dal male.
Reliquie e inganni
La storia reale non è diversa. Dal Medioevo fino all’età vittoriana, l’Europa fu invasa da reliquie, frammenti di ossa, schegge di croci, lacrime imbalsamate di santi. Ogni reliquia era una promessa, un modo per vendere redenzione a chi non aveva più fede. Nelle mani giuste, una reliquia è un simbolo di speranza; in quelle sbagliate, diventa uno strumento di potere. Ed è proprio questo il nucleo oscuro di molte delle tue opere: il male non risiede nell’oggetto, ma in chi lo desidera.
Amuleti e superstizione
Nel XIX secolo, a Londra, non era raro trovare amuleti cuciti nei vestiti o nascosti nelle tasche dei defunti. Servivano a proteggere l’anima durante il viaggio nell’aldilà, ma spesso erano oggetti intrisi di paura più che di fede. In Il Carnefice del Silenzio, alcuni di questi amuleti riemergono dagli archivi di Scotland Yard, sporchi di sangue e di segreti: simboli cabalistici tracciati sul rame, occhi d’animale, piccoli ossi umani avvolti in nastri neri. Ognuno racconta una storia, ognuno è il frammento di una disperazione.
Strumenti di tortura e volontà del potere
Dagli inquisitori ai medici alienisti, l’uomo ha sempre usato il dolore come metodo per conoscere, controllare, redimere. Gli strumenti di tortura, nella storia come nella narrativa, sono la prova che la curiosità può diventare crudeltà quando si veste da scienza.
Perché a volte il male non vuole uccidere, vuole capire.
Il vero potere
Ogni oggetto maledetto nasce da un gesto umano: Ecco perché nell’universo di Blackwood — come nella realtà — il male non è mai soprannaturale. È un’eco di ciò che abbiamo costruito noi.
Gli oggetti del male non ci scelgono. Siamo noi a prenderli in mano, a dargli voce, e a credere che possano salvarci.
Quando il Male mette radici, ha bisogno di un luogo in cui crescere. Spesso, quel luogo è una casa. Apparentemente normale. A volte isolata. A volte nel cuore del vicinato. Ma sempre, sempre diversa. In questo articolo esploriamo la dimensione domestica del crimine seriale, con particolare attenzione alla figura di Ed Gein — cuore del mio recente saggio Il Culto della Madre — ma anche in relazione ad altri casi reali e alle inquietanti somiglianze con le dimore gotiche del mio universo narrativo.
Non è solo un luogo: è un corpo vivente
Le case dei serial killer non sono semplici contenitori. Sono estensioni simboliche della mente del carnefice: ogni oggetto, ogni stanza, ogni odore racconta un bisogno, una frattura, un’ossessione.
Nel caso di Ed Gein, la casa di Plainfield divenne un vero e proprio teatro rituale, un santuario della madre morta e al tempo stesso un laboratorio della carne. Le stanze chiuse, i cadaveri sezionati, i trofei umani: tutto all’interno rifletteva la trasformazione di un lutto non elaborato in culto mortale.
La casa come psicodiagramma
In criminologia ambientale, lo spazio domestico viene spesso analizzato come “psicogeografia del crimine”: la disposizione degli ambienti, la scelta degli oggetti, la loro alterazione (o conservazione) offrono indizi sulla psiche del soggetto.
Nella stanza di Gein dove dormiva la madre, nulla era stato toccato.
Nella cucina, i resti umani erano stati trattati come utensili.
In cantina, si compivano atti al limite tra necrofilia e arte sacrificale.
Questa dicotomia tra conservazione del sacro e profanazione del corpo ritorna spesso anche nei miei romanzi: la stanza sigillata di una bambina morta, il laboratorio rituale sotto una chiesa, la biblioteca dove ogni scaffale contiene frammenti di dolore.
Narrativa gotica e verità disturbanti
Molti lettori mi chiedono se le case descritte nell’Archivio Blackwood siano ispirate a luoghi reali. La risposta è: sì, ma non solo. Ho preso spunto da documenti reali — come le foto dell’abitazione di Gein dopo l’arresto — ma anche da suggestioni letterarie, teologiche e simboliche: la casa non è solo luogo fisico, è sempre una porta verso qualcosa. Nel gotico, la casa è spesso corrotta, viva, malata, esattamente come lo è nella mente di un assassino.
Il passato non se n’è mai andato
Le case in cui sono avvenuti crimini orribili non perdono mai del tutto il loro carico. Non è solo superstizione. È psicologia dell’ambiente. Il trauma impregna i muri, e spesso chi entra dopo — vittima o lettore — lo sente.
È per questo che, in narrativa o nella realtà, il Male non muore mai davvero tra quelle pareti. Resta lì, in attesa. Di essere riscoperto. O riattivato.
Tratto da riflessioni nate durante la stesura del saggio “Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”, disponibile ora su Amazon.
Quando ho iniziato a scrivere Il Culto della Madre oltre dieci anni fa, non avrei mai immaginato che sarebbe diventato il mio primo saggio pubblicato. È nato da un’urgenza di verità, da un fascino oscuro che mi ha accompagnato per anni, anche mentre iniziavo a muovere i primi passi nel mondo della narrativa gotica.
Sì, perché il mio primo romanzo l’ho scritto circa 5 anni fa, e da allora non mi sono più fermato. Ma quel saggio, iniziato molto prima, mi ha sempre seguito come un’ombra. E oggi capisco che questi due percorsi — il saggio e il romanzo — non sono così lontani come sembrano.
Il romanzo: evocare
Nella narrativa, il mio compito è evocare. Raccontare senza spiegare tutto, lasciare zone d’ombra, costruire un’atmosfera che dialoga con il lettore a livello emotivo. Un dettaglio descritto al momento giusto può valere più di mille analisi. Posso usare simboli, metafore, sogni, visioni. L’ambiguità è un alleato.
Il lettore, in fondo, è un complice. Legge perché vuole immergersi, perché vuole sentire il respiro di Edgar Blackwood nelle nebbie di Whitechapel o nelle cripte dimenticate di Hollowgate. Non devo convincerlo di nulla, devo solo farlo sentire.
Il saggio: dimostrare
Nel saggio, tutto cambia. Devo essere lucido, preciso, responsabile. Non si tratta più di evocare, ma di dimostrare. Le parole devono avere un peso documentale. Ogni affermazione dev’essere sostenuta da fonti, testimonianze, prove. Non posso lasciarmi andare alla suggestione, ma nemmeno scrivere un freddo resoconto tecnico. Devo raccontare una storia vera… senza tradirla, e senza ingannare il lettore.
È come camminare in equilibrio tra etica e stile. Tra cronaca e riflessione. Tra rispetto e narrazione.
Un horror vero fa più paura
Paradossalmente, scrivere un saggio come Il Culto della Madre è stato più disturbante che descrivere rituali occulti o possessioni letterarie. Perché stavolta, tutto ciò che raccontavo è accaduto davvero.
Non c’è metafora. Non c’è filtro gotico. C’è solo un uomo reale, fragile, disturbato, che ha vissuto con i cadaveri, che ha trasformato la follia in rituale, che ha fatto della madre il proprio culto personale.
Eppure, anche in quel delirio, ho sentito riecheggiare qualcosa dei miei romanzi: lo sguardo interiore, l’ombra come simbolo, il desiderio (fallito) di controllare la morte. Forse è proprio lì il punto di contatto tra il mio stile gotico e il saggio: la necessità di guardare il Male negli occhi, anche quando non possiamo spiegarlo.
Due linguaggi, un’unica voce
Alla fine, scrivere narrativa e scrivere saggistica non sono due mondi separati. Sono due strumenti diversi per raccontare ciò che ci ossessiona. Con uno costruisco mondi. Con l’altro, li decifro.
Ma in entrambi i casi, ciò che muove la mia scrittura è sempre la stessa cosa: la volontà di scavare nell’oscurità dell’essere umano, senza cercare risposte semplici. Solo domande vere.
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Anticipazioni, ritorni e nuove discese nell’oscurità
Scrivere un romanzo gotico non è solo una scelta narrativa. È un rituale, un patto con l’ombra che ti osserva mentre scrivi. Ogni parola è una chiave, ogni libro un varco. Quando ho iniziato Le Ombre di Whitechapel, non immaginavo che mi avrebbe condotto tanto lontano. E ora, con Il Carnefice del Silenzio nelle mani dei lettori e Il Vangelo delle Ombre che ancora brucia come un’incisione nella carne, posso finalmente dirlo: l’Archivio Blackwood non si ferma. Anzi, si espande.
In tanti me lo chiedete: “Cosa verrà dopo?” E oggi voglio iniziare a rispondere.
Un Prequel – La Muta dei Santi
C’è un tempo prima di Whitechapel, prima che l’ispettore Edgar Blackwood diventasse ciò che è oggi. Quel tempo ha un nome: La Muta dei Santi. Un prequel ambientato anni prima, in una Londra ancora più cupa e violenta, in cui ritornerà un personaggio molto amato. Non posso dirvi chi, ma chi ha letto Le Ombre di Whitechapel potrà intuire…
Questa storia affonda nel passato più oscuro di Blackwood, un’indagine proibita che lo segnerà per sempre. Un viaggio nella Londra degli orfanotrofi sconsacrati, delle chiese murate e delle sette che strappano la voce a…
Un Sequel – Dopo Il Carnefice del Silenzio
Ci sono cose che nemmeno il silenzio può seppellire. E se avete letto Il Carnefice del Silenzio, sapete che qualcosa — o qualcuno — è rimasto in sospeso. Il sequel è già in fase di progettazione. Sarà un romanzo più maturo, più doloroso e ancora più inquietante. Un’indagine che porterà Blackwood a uscire dai confini di Londra e a scoprire che il Male non è mai solo in un luogo. A volte è dentro di noi.
Uno Spin-off – L’Ombra di un Altro (non è il titolo del romanzo)
Alcuni personaggi non escono mai davvero di scena. Anzi, sono loro a guardarti, in attesa che tu li riscriva. Sto lavorando a uno spin-off dedicato a un altro personaggio amato dai lettori, che in Il Vangelo delle Ombre ha lasciato un segno profondo. La storia avrà un tono diverso, più personale e malinconico, e mostrerà cosa succede quando l’orrore non viene più investigato, ma subito.
La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto
E poi c’è lei. La saga che non vi aspettate, ma che torna all’origine del gotico. La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto è il mio progetto parallelo: una saga gotica per ragazzi, ma non per questo meno inquietante. Orfanotrofio, magia, silenzi che diventano mostri, amicizie salvifiche e varchi nascosti dietro i muri. Una storia intensa, malinconica, piena di visioni e simboli, che parlerà ai lettori più giovani… e ricorderà agli adulti quello che avevano dimenticato.
Ogni libro che scrivo è un pezzo di un mosaico. E anche se ogni storia può essere letta da sola, tutto è connesso. Ogni personaggio, ogni simbolo, ogni frase non detta.
L’Archivio Blackwood non è mai stato solo una serie di romanzi. È un mondo. E vi assicuro: abbiamo appena iniziato a sfogliarlo.
Luoghi reali che sembrano usciti da un romanzo gotico
Londra non è solo la città che ospita le storie dell’Archivio Blackwood: è essa stessa una storia che si racconta da sola. Dietro ogni muro annerito dalla fuliggine, sotto ogni lastra di pietra, si nasconde un varco. Non verso l’inferno – quello è troppo semplice – ma verso i segreti dimenticati.
Scrivendo i miei romanzi, passo dopo passo, mi sono imbattuto in luoghi reali che sembrano inventati. E invece sono lì, in carne, pietra e polvere. Questo articolo è un viaggio. Non serve una lente d’ingrandimento, ma occhi che sappiano ancora vedere.
La cripta della chiesa di St. Bride – Dove il silenzio scrive ancora
Sotto l’elegante chiesa barocca di St. Bride’s, nel cuore di Fleet Street, c’è una cripta che pare respirare. Un tempo rifugio e ossario, oggi è uno dei pochi luoghi dove il tempo si è fermato. Le ossa che dormono lì non sono famose, ma forse proprio per questo inquietano. Alcuni parlano di un odore dolciastro che si diffonde in certe notti umide, e di una figura che si aggira tra le colonne.
Una delle scene del mio romanzo è nata proprio qui, in punta di piedi, con la torcia tremolante di uno dei custodi notturni che ancora ricorda un passo alle sue spalle…
I tunnel murati sotto Aldwych – Il cuore sigillato della città
Aldwych Station è chiusa da decenni. Ma il vero segreto non è il binario dimenticato. Sono i passaggi murati, i cunicoli in pietra che nessuno osa più aprire. Dicono portassero a magazzini, rifugi antiaerei, archivi. Ma c’è chi parla di celle monastiche, cappelle sotterranee e perfino stanze in cui si praticavano rituali esoterici durante il periodo vittoriano.
Uno degli ultimi esploratori urbani che ci è entrato, nel 2007, ha lasciato online una nota criptica: “C’erano tracce di cera. Ma non c’erano mai state candele.”
La casa abbandonata di Cock Lane – Il fantasma di Scratching Fanny
Cock Lane, vicino a Holborn, è uno di quei nomi che strappano un sorriso… finché non si scopre cosa è accaduto al numero 25. Nel 1762, una giovane serva chiamata Fanny morì in circostanze sospette. Qualche settimana dopo, iniziarono rumori, graffi, lamenti. Il caso fu tanto noto da coinvolgere perfino William Hogarth e Samuel Johnson. Il fenomeno venne poi etichettato come truffa… ma la casa, nei secoli, non fu mai più abitata a lungo. Oggi è murata. Nessuno ne parla, ma l’archivio cittadino ne segnala ancora l’esistenza, tra carte sbiadite e progetti mai approvati.
Il Club delle Ossa – Dove i vivi brindavano ai morti
A due passi da Piccadilly, in un edificio oggi anonimo, esisteva il cosiddetto Club delle Ossa, una società segreta vittoriana che si riuniva per cene commemorative… con ospiti molto particolari. Alcuni membri erano imbalsamatori, medici, altri semplici nobili eccentrici. La cena prevedeva un posto vuoto a tavola e un calice di vino versato in terra, seguito da un brindisi silenzioso. Ogni mese un nome veniva estratto e… scompariva. Nessun verbale è mai stato ritrovato, solo lettere anonime e una medaglia nera con inciso: “Viviamo per ricordare.”
Il passaggio nascosto dietro la libreria di Holborn – Una leggenda urbana?
C’è chi giura che in una vecchia libreria di Holborn – non più esistente – si trovasse una scala nascosta dietro un pannello. Un corridoio che portava sotto il Tamigi, verso il Temple. Ovviamente non ci sono prove, solo racconti tramandati da generazioni di antiquari. Ma uno dei miei contatti all’università mi mostrò una mappa del 1826, con una linea rossa senza nome, che partiva proprio da lì.
E se fosse vero?
In fondo, Londra non è cambiata.
Camminando per i suoi vicoli, ti accorgi che i muri non dimenticano. Che sotto i nostri piedi c’è un secondo mondo, fatto di silenzi, pietra umida e memorie sigillate. I romanzi gotici non li abbiamo inventati. Li abbiamo solo trascritti. Erano già lì.
I 7 autori più inquietanti della storia (e le loro morti oscure)
C’è un filo nero che collega la mente degli scrittori alla fine che li attende. Alcuni sembrano averlo saputo da sempre. Altri hanno solo raccontato l’oscurità… finché non li ha inghiottiti. Scrivendo Il Vangelo delle Ombre, mi sono chiesto più volte se il male narrato possa lasciare un’eco reale in chi scrive. Così ho scavato nei diari, nei giornali dell’epoca, nei testamenti. Quello che ho trovato è un elenco di autori che sembrano usciti dai miei romanzi, non per i libri, ma per la loro vita.
Ecco 7 scrittori realmente vissuti che potrebbero tranquillamente abitare le pagine dell’Archivio Blackwood.
1. Gérard de Nerval – impiccato con una gamba di donna
Poeta visionario, frequentatore di cimiteri e gatti neri. Nerval scriveva di sogni, allucinazioni, anime sdoppiate. Ma una notte del 1855 uscì di casa dicendo: “Sto per entrare nell’ignoto.” Il giorno dopo fu trovato impiccato con la bretella di un vestito da donna. Nessuno seppe mai spiegare se fu suicidio, delirio o rituale. Il medico che lo visitò annotò solo: “Aveva un volto sereno, ma era come se avesse già visto ciò che noi ignoriamo.”
2. August Strindberg – lo scrittore che vedeva i demoni
Strindberg è oggi celebrato come un drammaturgo svedese, ma pochi ricordano il suo periodo “alchemico”. Convinto di essere perseguitato da spiriti malvagi e da una setta segreta, passò anni a scrivere trattati esoterici. Dormiva con una pistola sotto il cuscino e affermava di vedere facce deformi apparire sui muri. Morì nel 1912, tra febbri, visioni e profezie mai chiarite.
3. Edgar Allan Poe – la morte perfetta per un suo racconto
Fu trovato a Baltimora nel 1849, con abiti non suoi, delirante, incapace di spiegare cosa gli fosse successo. Morì dopo quattro giorni di agonia. Mai saputo se fu omicidio, avvelenamento, o una di quelle “coincidenze troppo perfette” per sembrare reali. Poe aveva scritto spesso di sepolture premature, morte mentale, allucinazioni… Morì proprio come i suoi personaggi: da solo, parlando con fantasmi che nessuno vedeva.
4. Girolamo Segato – lo scienziato che pietrificava i cadaveri
Non era uno scrittore nel senso classico, ma i suoi diari e appunti sono tra i più macabri mai esistiti. Nel XIX secolo, Segato sviluppò un metodo per trasformare il corpo umano in pietra. I suoi “reperti” si trovano ancora oggi a Firenze. Quando morì, portò con sé il segreto, temendo che finisse nelle mani sbagliate. I suoi scritti sono stati studiati anche per Il Vangelo delle Ombre…
5. Robert E. Howard – autore di Conan, ma prigioniero della madre
Creatore del mitico Conan il Barbaro, Howard fu uno scrittore prodigioso. Ma anche un uomo tormentato da dipendenze, incubi e da un legame morboso con la madre malata. Quando capì che lei stava morendo, salì in macchina, si puntò la pistola alla tempia e sparò. Morì due giorni dopo… proprio mentre la madre esalava l’ultimo respiro.
6. Georg Trakl – poeta maledetto e il mistero della sorella
Trakl era poeta, farmacista… e forse qualcosa di più oscuro. Scriveva versi che parlavano di incesto, morte, angeli deformi. Venne trovato morto per overdose in un ospedale da campo durante la Prima Guerra Mondiale. Molti biografi sospettano una relazione ossessiva con la sorella Grete, anche lei morta in circostanze misteriose.
7. Thomas Ligotti – l’autore che vive come un fantasma
Ancora in vita, ma praticamente invisibile. Ligotti non appare in pubblico, non concede interviste. Nei suoi racconti, la realtà è solo una maschera appesa al nulla, e l’esistenza un errore cosmico. Se mai lo incontrassi, lo immaginerei in una stanza chiusa, con tende pesanti e una macchina da scrivere che sputa incubi. Molti credono che sia il vero erede di Lovecraft. Forse qualcosa di più.
Scrivere dell’orrore, a volte, è come evocarlo. Ma questi autori non si sono limitati a scriverlo. Lo hanno vissuto. Lo hanno subito. Alcuni, forse, non ne sono mai usciti.
E tu? Hai mai letto qualcosa che ti è rimasto dentro… troppo a lungo?
L’ho seguito nel buio senza parlare. Le sue mani tremavano appena, ma non per paura. Per il peso.
Quel genere di peso che non si vede, ma si avverte, come il freddo di una cripta che non si è mai richiusa del tutto. Padre Marcus Quinn camminava davanti a me, il passo deciso di chi ha già perso tutto eppure continua. Il mantello frustava il vento e nella destra stringeva il rosario, annerito dal tempo, rigido come un’arma. Non era più un prete. Era qualcos’altro. Qualcuno che ha guardato nell’abisso e ha deciso di rientrare, pur sapendo che non ne uscirà.
Voltò lo sguardo una volta sola. Non disse nulla. Non doveva. Davanti alla casa — quella casa — l’aria era densa di ceneri invisibili. Il rituale lo stava aspettando.
Io? Ero lì per assisterlo, ma anche per non farlo restare solo. Perché a volte l’unica difesa contro il Male… è non combatterlo da soli.
Nella stanza dove il soffitto si piegava e il legno scricchiolava come un lamento, Quinn tracciò i simboli con mano ferma. Bruciò una pagina antica, recitò in latino versi che suonavano come minacce. E poi si inginocchiò. Ma non per pregare.
Per sfidare.
Il Viaggiatore lo stava guardando. E io lo seppi. Non c’era bisogno di vederlo. Lo sentivo in ogni fibra.
Ci sono momenti in cui la fede non è un atto di devozione. È un’arma. E Quinn… era pronto a usarla.
Quando uscii da quella casa, qualcosa era cambiato. Dentro di me. Dentro di lui. E dentro il lettore che troverà il coraggio di aprire Il Vangelo delle Ombre.