Qualcosa sta arrivando. Più antico della colpa. Più oscuro del silenzio.


Non so bene quando ho cominciato a scriverlo. Forse la notte in cui ho sognato una cripta senza ingresso, sepolta sotto una città che nessuna mappa osa disegnare. O forse è stato quando ho letto, su un vecchio quaderno ingiallito, i nomi dei bambini che nessuno ricordava di aver mai battezzato.

C’è qualcosa di diverso, questa volta.
Non un semplice caso. Non una reliquia.
Ma una fame.

Una fame che attraversa i secoli, che muta forma e indossa abiti nuovi, ma resta sempre lì. Pronta a nutrirsi del bisogno umano più antico: credere in qualcosa. Qualcosa di più grande, di più puro. Di più terribile.


Un nuovo capitolo dell’Archivio Blackwood sta per essere scritto.

Le carte sono già state messe sul tavolo.
Gli occhi di Edgar Blackwood hanno già letto troppo.
E chi gli cammina accanto – vivo o morto che sia – sa che questa volta nessuno sarà risparmiato.

Le domande non riguardano più solo l’assassino.
Ora riguardano ciò che stiamo invocando da generazioni, senza nemmeno saperlo.


Preparatevi. Un nuovo caso. Un nuovo abisso.
E questa volta… l’Archivio potrebbe non riuscire a chiuderlo.


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Dietro la Maschera: Il linguaggio del silenzio

Analisi del significato simbolico della maschera cucita nel romanzo
Il Carnefice del Silenzio

Non gli fu chiesto di parlare. Gli fu chiesto di obbedire.»

La maschera cucita. Un’immagine che ritorna, disturbante, nel cuore del romanzo Il Carnefice del Silenzio. Più che un oggetto, è un marchio. Un messaggio. Una punizione. Ma anche, paradossalmente, un atto di fede.

La bocca sigillata: controllo o penitenza?

Nel culto deviato dell’Arcidiacono Mallory, il silenzio non è solo l’assenza di parole. È dogma. Un fedele che parla rischia di tradire. Di dubitare. Di contaminare. Per questo, la cucitura della maschera non è solo simbolica: è fisica, brutale, irreversibile.
Chi la indossa non è più un individuo. È un contenitore.
Un tramite.

Il Carnefice e la voce negata

Il personaggio del Carnefice incarna pienamente questa idea. Imprigionato, segnato, mascherato: la sua voce è stata cancellata dalla fede. La sua volontà, ridotta in catene. Non si tratta solo di sottomissione, ma di una trasformazione rituale. L’uomo viene svuotato per diventare mezzo del culto, corpo offerto, punizione vivente.

Il silenzio diventa così un linguaggio sacro.
Un linguaggio che urla senza suono.

Il culto e la mistica del silenzio

Nel cuore del culto di Mallory vi è un’idea rovesciata di purezza.
Chi tace è puro.
Chi ascolta è degno.
Chi parla è pericoloso.

Le frasi rituali incise sulle pareti delle cripte — “Verbum tacitum est verbum sanctum” — sono la prova che il silenzio è stato elevato a sacramento. La cucitura della bocca è quindi l’ultimo atto, il più sacro, il più oscuro.

Un simbolo che inquieta… perché ci riguarda

Nel mondo moderno, dove siamo sommersi da parole, immagini, opinioni, il gesto di cucire una bocca colpisce nel profondo.
Non è solo orrore. È specchio.
Cosa siamo disposti a tacere pur di essere accettati?
Quante volte abbiamo scelto il silenzio per paura, per fede, per sfinimento?

Nel Carnefice, quella maschera cucita parla.
E dice molto più di quanto sembri.

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Declan non dimentica – Il racconto mai scritto (parte 1)

Un frammento perduto dai diari di Blackwood

Mi voltai. Non era una visione. Declan O’Connor era lì.”
Londra, 2 dicembre 1888 – ore 04:12
Bloomsbury, stanza 7

C’è una storia che non è mai stata scritta.
Una notte che non compare in nessun dossier ufficiale.
Un ritorno impossibile, mai raccontato.
Eppure… quella notte, qualcosa è accaduto davvero.

Il frammento

Il fuoco nel camino stava morendo.
Blackwood era seduto in silenzio. Il bicchiere di assenzio ancora intatto.
Una goccia di cera colò lenta dalla candela sul tavolo.
Fu allora che la porta si aprì.

Nessun rumore. Nessun vento. Nessun passo.

Solo la figura di un uomo in controluce.
Cappotto irlandese. Cappello consumato.
E una cicatrice sulla guancia sinistra.

Declan.

Blackwood si alzò di scatto, ma la voce si bloccò in gola.
Il bicchiere si rovesciò. Il liquore verde corse sul legno come sangue antico.

Non ti lascerò da solo, Edgar.»

Declan si avvicinò. Le pupille erano vuote, ma lucide. Vive e morte insieme.
Sul petto, cucito nel tessuto lacerato del cappotto, un simbolo. Quello che nessuno era mai riuscito a decifrare.
Una lingua dimenticata, forse.
Un avvertimento.

Blackwood lo guardò senza parlare.
Declan sorrise.
Poi sussurrò:

Non tutti i morti riposano.»

E svanì.

Annotazione a margine del diario (trovata nel 1903)

Quella notte mi svegliai senza sapere se avessi sognato.
Ma trovai un’impronta sul tappeto bagnata di pioggia.
E Declan non aveva mai sbagliato porta.”

Cosa c’è dietro questo frammento?

La scena fa parte di una serie di episodi alternativi o scarti narrativi che ho scritto per testare la voce di Declan dopo la sua morte.
Non erano previsti. Ma si sono imposti da soli.
Come se lui non volesse essere dimenticato.

La parte 2 sarà rilasciata prossimamente, con un dettaglio inquietante:
una lettera scritta da Declan dopo la sua morte, inviata con timbro autentico da Edimburgo il 4 dicembre 1888.

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L’odore del Tamigi all’alba

Appunti di Edgar Blackwood – Limehouse, dicembre 1888

Londra non dorme. Londra trattiene il fiato.»

C’è un’ora precisa, tra le quattro e le cinque del mattino, in cui la città si lascia osservare senza maschera.
La nebbia non è ancora piena. I canti dei mercati non sono ancora cominciati.
E il Tamigi… il Tamigi respira.

Scendo lungo Narrow Street con la giacca umida sulle spalle e l’odore di tabacco ancora nelle dita. Il mio alloggio non è lontano da qui: un edificio stretto e scolorito, incastrato tra due magazzini dismessi. Ma è in questi vicoli che trovo le risposte che gli archivi non osano contenere.

Il primo segnale è l’odore

Non c’è bisogno di vedere il fiume per sapere che ci sei vicino.
È l’odore a trovarmi per primo: ferro e alghe marce, cenere bagnata, muschio incrostato, urina vecchia e sangue. Ma anche qualcosa di più sottile… quasi dolce, come carne sfiancata, come un’offerta rimasta troppo tempo all’aperto.

Mi fermo al solito angolo, dove la ringhiera arrugginita affaccia sulle acque basse. E ascolto.

Non vedi mai tutto, qui. Non il fondo, non la riva opposta, non ciò che galleggia davvero. Ma senti.
Il fiume parla con voci che la terra ha dimenticato. Legni che cigolano. Corde spezzate. Lo scalpiccio delle barche dei pescatori che non ci sono. O forse sì.

E se stai abbastanza fermo…
qualcosa risponde.

Il Tamigi non perdona, ma custodisce

È lì che ho trovato il primo indizio, settimane fa.
Un guanto. Una ciocca. Una reliquia.
Non serve elencare cosa. Solo dire che era stato lasciato, non caduto.
Come se qualcuno volesse che lo trovassi.

Da allora torno qui ogni tre o quattro giorni, sempre all’alba, sempre solo.
Non prendo appunti. Non ne ho bisogno.
Perché ogni odore resta.
E con esso, il sospetto.

Un tempo pensavo che Londra nascondesse i suoi mostri tra i portoni e le ombre.
Ora so che li deposita qui, nel ventre del Tamigi.
E lui li accoglie, silenzioso. Come una madre. Come una tomba.

Non so cosa troverò domani.
Ma so che lo sentirò prima di vederlo.
Perché l’odore del Tamigi all’alba non mente mai.

E chi mente… non dovrebbe mai avvicinarsi a queste acque.

Hai una domanda per l’Archivista? Scrivila nei commenti del blog o sotto ai post ufficiali: ogni giovedì ne selezionerò tre per rispondere nella rubrica “Domande all’Archivista”.

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Perché Edgar Blackwood non cambia

Il peso del silenzio e la coerenza narrativa nella saga dell’Archivio

Non era questione di evoluzione. Era questione di resistere.”
– Annotazione non datata ritrovata nei fascicoli di Limehouse, dicembre 1888

In un’epoca narrativa in cui l’evoluzione del personaggio è spesso considerata una regola aurea, Edgar Blackwood rappresenta un’eccezione deliberata. Non cede al cambiamento, non segue l’arco classico dell’eroe che “impara dai propri errori”.
Perché?
Perché Blackwood non è nato per cambiare, ma per ricordare. E custodire.

Il trauma come fondamento, non come transizione

Blackwood è un uomo segnato dalla guerra.
La Campagna di Crimea gli ha lasciato molto più di cicatrici fisiche: gli ha insegnato che il male, a volte, non viene punito. Viene solo registrato.
Da allora, egli non cerca redenzione, né perdono. Cerca ordine nel caos, e se necessario, lo impone con la forza.
Questo lo rende scomodo. Imperfetto. Spesso apatico, distante, ossessivo.
Ma reale.

Un’epoca che non perdona la sensibilità

La Londra del 1888 non è terreno fertile per introspezioni e mutamenti interiori. È una città che mastica e sputa chiunque tenti di salvarla.
Blackwood lo sa. E si è adattato.
Non diventando più umano, ma indurendosi al punto da diventare strumento. Uno strumento dell’Archivio.
Un archivista del male.

Una coerenza narrativa voluta

Nella costruzione della saga, la staticità apparente di Blackwood è un pilastro strutturale, non un limite.

Ogni personaggio che gli ruota attorno – Declan, Monroe, Quinn, Moira – rappresenta un movimento: fede, disperazione, lealtà, empatia.
Lui no.
Blackwood è il perno. L’uomo che assorbe, osserva, cataloga.
Non si concede il lusso di cambiare perché il suo ruolo non è evolvere, ma resistere al Male. Anche quando lo guarda negli occhi. Anche quando lo vede dentro di sé.

Un detective dell’occulto… o solo della verità?

Molti lettori si chiedono: Blackwood crede davvero nel soprannaturale?

La risposta è… irrilevante.
Ciò che conta è che agisce. Interviene dove nessuno vuole guardare.
Che si tratti di possessioni o follia, di reliquie o manipolazioni mentali, Blackwood non si chiede “perché?” ma “come lo fermo?”.
E non è forse questa la forma più pura di responsabilità?

In conclusione

Blackwood non cambia perché è costruito per resistere.
Ogni sua risposta fredda. Ogni silenzio. Ogni gesto metodico e imperturbabile è parte di un codice più grande.
Un codice che tiene in piedi l’Archivio.
Un codice che dice:

“Non è necessario comprendere il male. È sufficiente riconoscerlo.”

Hai una domanda sull’Archivio o un personaggio che ti ossessiona?
Scrivila nei commenti del blog o su Instagram: potresti ricevere risposta nel prossimo episodio di Domande all’Archivista.

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Scrivere nel 1888 – Le difficoltà e il fascino della ricostruzione storica

Londra, 1888. L’aria sa di carbone e nebbia, i lampioni a gas crepitano nella notte, le carrozze sferragliano tra vicoli sconnessi e portoni serrati. Scrivere una storia ambientata in quel mondo significa — prima di ogni cosa — entrarci in punta di piedi. Non basta conoscere i fatti. Bisogna imparare a vivere con loro.

Per chi scrive narrativa gotica e investigativa, il 1888 non è solo un anno: è una soglia. È l’anno di Jack lo Squartatore, l’anno in cui la metropoli vittoriana rivela il suo volto più oscuro. Ma è anche l’anno in cui tecnologia e occulto, razionalismo e superstizione convivono nello stesso respiro. È un equilibrio fragile, affascinante, e difficilissimo da ricreare.

Le difficoltà

Documentazione accurata
Ogni parola sbagliata rischia di spezzare l’incanto. Serve conoscere non solo la cronologia degli eventi, ma anche i dettagli minimi: come si vestiva un ispettore di Scotland Yard? Come si pagava un biglietto del treno? Quali parole erano in uso nel parlato quotidiano? Ogni anacronismo è un rumore che rompe il silenzio della pagina.

Lingua e stile
Non si può scrivere come nel 2025. Ma nemmeno come nel 1888. Serve un compromesso. Uno stile evocativo, ricercato, ma accessibile. Una lingua che sappia accarezzare la carta come farebbe una piuma d’oca in un archivio impolverato. Non è semplice, ma è proprio lì che nasce la magia.

Mentalità d’epoca
Il vero ostacolo? Entrare nella testa di chi viveva allora. Il dolore, l’onore, la colpa, la fede, la paura: tutto aveva un altro peso. Un personaggio del 1888 non reagisce come noi. Non pensa come noi. E lo scrittore deve accettarlo, anche quando fa male.

Il fascino

Atmosfere dense
Il 1888 è un teatro perfetto per storie di mistero, occultismo e indagini impossibili. Ogni strada nasconde un segreto, ogni edificio ha una storia. La nebbia non copre: sussurra.

Il tempo come alleato
Raccontare un mondo senza cellulari, GPS o Internet obbliga il lettore (e l’autore) a rallentare. Ogni indizio viene cercato a lume di candela, ogni messaggio viaggia per posta o telegramma. E ogni decisione pesa di più.

Libertà narrativa
L’assenza di tecnologia permette di scavare in ciò che conta davvero: gli occhi, le parole, le ombre nei gesti. Il mistero non è risolto da un algoritmo, ma da un’intuizione, da un diario bruciato, da una pagina strappata che non voleva essere letta.

Scrivere nel 1888 è un viaggio. A volte frustrante. Spesso complesso. Ma quando tutto si incastra, quando la carta odora davvero di fumo e la voce del detective sembra provenire da una stanza vera… allora sì, vale ogni fatica.

Benvenuti nell’Archivio Blackwood. Le sue porte sono sempre aperte. Ma attenzione: non sempre vi faranno uscire.

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L’Inquisizione, i riti e l’occulto: cosa c’è di vero nelle fonti usate

Nel cuore dei racconti dell’Archivio Blackwood si nascondono simboli, rituali e riferimenti oscuri che affondano le radici in documenti reali. Ma quanto c’è di vero nei testi inquisitoriali, nei grimori citati, nei rituali descritti nelle pagine di Il Vangelo delle Ombre o Le Ombre di Whitechapel?

La risposta è disturbante: più di quanto si pensi.

I manuali dell’Inquisizione

Molti dialoghi tra Blackwood e padre Quinn sono ispirati direttamente al Malleus Maleficarum, al Directorium Inquisitorum e ai processi originali della Santa Inquisizione. Nei miei appunti ho spesso consultato testi latini che elencano formule per riconoscere i “posseduti“, interrogatori sui “segni del demonio“, e perfino modalità rituali per “chiudere i varchi“. Alcune frasi presenti nei romanzi sono citazioni quasi letterali, tradotte per essere comprese nel racconto.

I riti (non sempre) inventati

Non tutti i rituali descritti sono frutto di fantasia. Alcuni provengono da testi come il Clavicula Salomonis o il Lemegeton, usati realmente da alchimisti e occultisti tra Medioevo e Ottocento. Altri sono mescolanze, rielaborati per dare coerenza alla narrazione gotica.

La paura del corpo, il mistero dell’anima

L’orrore dell’epoca non era solo nella superstizione, ma anche nella scienza primitiva. Molte possessioni erano in realtà crisi epilettiche, isteria o traumi psichici. Ma l’Inquisizione, e gran parte della popolazione, vi vedeva la mano del diavolo. Nei miei romanzi ho cercato di mantenere questa ambiguità: non tutto è spiegabile, ma nulla è puramente fantastico.

Perché usare fonti reali?

Perché la paura più potente nasce dal dubbio. Se leggendo un rituale ti chiedi: “E se fosse esistito davvero?”, allora l’immaginazione è già in trappola.
E Blackwood sa bene che il confine tra realtà e incubo è sottile come un filo di cera sciolta.

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Diario di uno scrittore oscuro: come nascono le scene più disturbanti

Ci sono immagini che ti attraversano senza bussare.

Non chiedono permesso, non si annunciano con logica: arrivano come un sussurro nella notte, una lama sotto pelle, e restano lì. Impossibili da ignorare. E spesso, sono proprio quelle che finiscono nei racconti di Blackwood.

Molti mi chiedono: “Come nascono certe scene?”

Quelle della bambola con la bocca cucita, della donna in vestaglia che parla in latino davanti al camino o della scala che sale nel nulla tra la nebbia. E la risposta è sempre la stessa: non le creo. Le osservo.

L’origine di una visione

Di solito accade la sera, quando il rumore del mondo rallenta. Il cervello smette di costruire e comincia a raccogliere. Ed è lì che compaiono.

Una frase.
Un’ombra.
Un suono.

Una volta mi sono svegliato con una frase precisa in testa, come se me l’avessero detta nel sogno:

“L’unica porta che non dovresti aprire è quella che hai dentro.”

Da lì, è nata la scena della chiave nello sterno. Non sapevo ancora chi fosse il cadavere sul tavolo, né chi l’avesse aperto, ma la chiave era lì. Conficcata nel centro del petto. E ho iniziato a scrivere.

Luce fioca e simboli antichi

Altre volte, è tutto più razionale. Studio libri sul folklore, su culti oscuri, sulla simbologia medievale, e poi la mente fa il resto.
Un simbolo trovato in un grimorio del XVII secolo può finire inciso nel muro di una camera da letto. Una formula latina antica diventa un sussurro blasfemo nella bocca di una posseduta.

SPOILER: Anche il Viaggiatore dell’Ombra, apparso per la prima volta ne Il Vangelo delle Ombre, è nato così. Non volevo descriverlo in modo chiaro. Era troppo potente per essere limitato in una forma. Ma avevo un’immagine: un’ombra alta, senza occhi, che si piega sulle vittime come un velo unto.

Il tempo come alleato

Non tutte le idee arrivano complete.
A volte ci mettono mesi a maturare.
SPOILER: La scena dell’orfanotrofio nel racconto Hollowgate (in stesura) è nata da un incubo fatto nel 2024, che ho annotato nel telefono. Solo un anno dopo ho capito dove andava collocato: nel passato di Elias, il bambino con il simbolo tracciato sul muro.

Scrivere horror gotico non significa solo spaventare.
Significa riportare a galla tutto ciò che la società moderna ha dimenticato.
Le paure primordiali, le ombre interiori, il bisogno di dare un volto al male.

E quando non arriva nulla?

Non scrivo. Mai forzare l’oscurità.
Aspetto. Leggo. Cammino nella nebbia.
A volte la scena che cercavi arriva quando smetti di inseguirla.

E quando lo fa…
la riconosci subito.
È quella che ti fa abbassare gli occhi dopo averla scritta.

Vuoi scoprire da dove arrivano le altre visioni?

Allora tuffati nei racconti dell’Archivio Blackwood.
Ma attento: alcune porte, una volta aperte… non si richiudono.

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Come gestisco il lavoro tra scrittura, immagini e promozione

Nell’epoca degli algoritmi e dei contenuti istantanei, scrivere un libro gotico non significa più solo sedersi alla scrivania e battere parole sulla tastiera. È un lavoro che si ramifica, che chiede occhi su più dimensioni: narrativa, estetica, visiva, emotiva. E ogni dimensione ha bisogno di tempo, cura e disciplina. Oggi voglio raccontarti come gestisco tutto questo universo oscuro chiamato Archivio Blackwood.

La scrittura come ossessione organizzata

Scrivo ogni giorno, o almeno ci provo. Il mio metodo è semplice: fissare una scaletta dettagliata, con capitoli, sottotrame e scene chiave. Non inizio mai un racconto senza sapere dove voglio arrivare, anche se poi mi concedo deviazioni impreviste. Ogni scena che leggi è il frutto di una progettazione precisa: atmosfere, ritmo, struttura del dialogo e “densità gotica”. Niente è lasciato al caso. Ogni parola deve trasmettere qualcosa. Se non vibra, la riscrivo.

Controllo ossessivo della coerenza narrativa

Ogni libro dell’Archivio Blackwood è connesso agli altri. Questo significa che tutto deve combaciare: date, personaggi, eventi. Tengo un archivio interno con cronologie, mappe, genealogie e simboli. Lo consulto spesso, perché basta un dettaglio fuori posto per far crollare la magia dell’universo narrativo. Quando inizio un nuovo capitolo, rileggo quello precedente per assicurarmi che ci sia continuità fluida e coerenza emotiva.

Le immagini: non solo illustrazioni, ma estensione del testo

Le immagini che vedi su Instagram o nei reel non sono solo promozione: sono parte della narrazione. Ogni immagine è pensata per evocare un frammento del racconto. Lavoro ogni giorno con un sistema di prompt, revisioni e generazioni grafiche per ottenere una palette coerente, atmosfere realistiche e suggestioni disturbanti. Il logo cambia a seconda della scena, dei colori, del tono. L’estetica gotica è un linguaggio a sé: non può essere fissa, deve mutare, insinuarsi.

La promozione: costante, senza mai diventare invasiva

Non amo l’autopromozione fine a sé stessa. Preferisco raccontare. Ogni post sui social è un’estensione del mio mondo: un estratto, un’immagine, un simbolo, una frase. Uso il blog, Instagram, Facebook e Substack per creare connessioni, non per vendere. Eppure funziona. Quando un lettore sente che lo stai coinvolgendo in qualcosa di più grande, che lo stai guidando in un mondo, sarà lui a volerci restare.

Come tengo tutto insieme

Il segreto? Organizzazione maniacale.

Ogni settimana creo una lista di cose da fare, divisa per categorie: scrittura, immagini, articoli, correzioni, post, contatti editoriali.

Uso cartelle nominate per data e progetto, così trovo tutto subito.

Dedico una giornata fissa a settimana per la promozione. Gli altri giorni scrivo.

Tengo sempre un file Word con idee nuove, scene da recuperare e nomi da usare in futuro.

In sintesi

Scrivere oggi è un mestiere complesso, ma se hai una visione e non la tradisci, tutto si incastra. Ogni storia è un corpo. Ogni dettaglio è carne. Ogni immagine è pelle. E ogni post, se fatto bene, è una ferita aperta sul mondo reale, un invito per chi vuole entrare.

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L’Archivio Blackwood come universo narrativo

Tra simboli ricorrenti, luoghi che ritornano e verità mai dette

C’è chi legge L’Archivio Blackwood come una raccolta di racconti separati.
E, in parte, lo è.
Ogni storia può vivere da sola. Ogni volume può essere letto indipendentemente.
Ma chi legge con attenzione – chi si lascia immergere fino in fondo – comincia a notare connessioni. Segni. Echi.

Non è un caso.
L’Archivio Blackwood non è solo una serie di racconti gotici. È un universo narrativo coerente.
Un mondo fatto di simboli, luoghi, nomi e presenze che si intrecciano, a volte apertamente, più spesso in silenzio.

La coerenza invisibile

Non c’è bisogno di mappe o cronologie per orientarsi nei miei racconti.
La coerenza è fatta di dettagli: un cognome che riappare, un oggetto ricorrente, una frase identica sussurrata da due personaggi vissuti a chilometri di distanza.

Il mondo dell’Archivio funziona come un ecosistema chiuso: le sue regole non vengono spiegate, ma rispettate.
E i lettori più attenti se ne accorgono.
Non c’è bisogno di dichiarare “è un universo condiviso”: lo si intuisce dal modo in cui tutto vibra alla stessa frequenza.

Luoghi che parlano tra loro

Alcuni edifici ritornano. Non sempre con lo stesso nome.
A volte sono case, altre volte istituti, archivi, cliniche.
Ma dentro custodiscono lo stesso odore di cera, lo stesso silenzio.

Londra è il punto fermo, certo.
Ma una Londra filtrata dal mito e dalla paura, in cui non esistono certezze spaziali.
È la città stessa ad adattarsi al tono della storia, come se fosse parte viva del racconto.

Oggetti, non citazioni

Mi piace disseminare ogni storia di oggetti ricorrenti.
Non come citazioni nostalgiche, ma come elementi vivi.
A volte cambiano nome. Altre non vengono mai nominati, ma si intuiscono dalla forma o dal gesto.

Chi li riconosce non ottiene risposte.
Ma sa di essere sulla strada giusta.
È una ricompensa silenziosa per chi legge non solo con gli occhi, ma con l’ombra.

Perché tutto questo?

Perché scrivo come se stessi riempiendo uno stesso archivio, stanza dopo stanza.
Non tutte le cartelle sono etichettate. Alcune sono strappate.
Altre contengono due verità che si contraddicono.
Ma sono tutte nello stesso luogo.
E quel luogo è l’Archivio Blackwood.

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