Le Lettere Nere: tra superstizione e verità


Certe storie iniziano a scriversi molto prima che qualcuno decida di raccontarle.
Le Lettere Nere sono una di quelle storie.

Chi ha seguito le indagini di Blackwood sa che ci sono misteri ancora più antichi degli omicidi, dei culti o delle reliquie. Voci che circolano negli archivi sigillati, negli appunti cancellati, nei margini di un passato che nessuno ha mai osato sfogliare del tutto. È lì che vivono le Lettere Nere.

Non sono ancora apparse, non ancora. Ma ci sono indizi, dettagli lasciati apposta come briciole in una casa stregata. Chi conosce bene il sottosuolo della saga, sa che qualcosa sta arrivando.

Le Lettere Nere non sono messaggi qualunque. Sono parole che aprono portali, scritte con mani tremanti e inchiostro che non sbiadisce. Ogni lettera è un sussurro che sopravvive al tempo, un codice che collega morti distanti, visioni frammentarie, e verità sepolte.

Nel Prequel della saga, per la prima volta scopriremo la loro origine. La loro prima vittima. E soprattutto, chi o cosa le scrive davvero.

Perché una cosa è certa: non sono semplici lettere. Sono avvertimenti.
E non sempre chi li riceve è ancora in tempo per cambiare il proprio destino.


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Il giorno in cui bussai a una porta che non c’era

Ci sono giorni in cui Londra sembra decidere da sola dove farti andare.
Oggi fu uno di quelli.

Era un pomeriggio umido, appiccicoso. La nebbia aveva un odore ferroso, come se gocciolasse ruggine anziché pioggia. Stavo camminando lungo Ashcroft Lane, un vicolo stretto di cui non ricordavo l’esistenza. Né sulle mappe né nei miei ricordi.

Le case ai lati erano tutte murate. Finestre inchiodate, porte annerite, come occhi chiusi da troppo tempo.

Poi la vidi.
Una porta rossa.

Non c’era nel tratto che avevo appena percorso. Ne sono certo. Eppure adesso era lì: incastonata in un muro cieco, con la vernice sfogliata, ma ancora viva. Sembrava… aspettarmi.

Mi fermai.
La strada era silenziosa. Troppo silenziosa.
Nessun passo, nessun cigolio, nessun odore se non quello — metallico — della nebbia.

Alzai una mano e bussai. Tre colpi secchi.
Lo feci senza pensarci. Come se il mio corpo sapesse qualcosa che la mia mente ignorava.

La porta si aprì.
Non cigolò. Non si spalancò.
Semplicemente non c’era più.

Davanti a me, un corridoio lungo. Pieno di specchi, uno dopo l’altro. Tutti coperti da lenzuola grigie.
C’era odore di cera bruciata e fiori marci.
Il pavimento era bagnato, ma non pioveva. Non lì dentro.

Entrai.
Dietro di me, nessun rumore. Solo i miei passi.
Eppure lo giuro: sentivo il fiato di qualcuno sul collo.

Alla fine del corridoio, una porta identica alla prima.
Rossa.
Ma con qualcosa inciso sopra.
Un simbolo che avevo già visto — in un incubo.

Posai la mano sulla maniglia.
Fredda.

Aprii.

E non vi dirò cosa vidi.
Non oggi.

Ma da quel giorno, ho cominciato a ritrovare la porta.
A Limehouse. A Kensington. A due passi dalla mia casa.
Sempre identica.
Sempre non presente.
Finché non la cerchi davvero.

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Dietro la copertina: come nasce l’estetica di Blackwood

Ogni storia ha un volto. E per L’Archivio Blackwood, quel volto è fatto di nebbia, ombre e silenzi.
Molti lettori mi hanno chiesto com’è nata la copertina del primo volume, quali scelte ci sono state dietro e cosa rappresentano davvero le immagini e i colori. Questo articolo vuole raccontarvelo — senza filtri, ma con tutta la cura che merita un lavoro gotico e visivo come il mio.

Niente verde, niente filtri digitali

Fin dall’inizio ho stabilito alcune regole inderogabili per lo stile visivo:

No ai toni verdi, spesso associati a filtri digitali freddi e artificiali.

No alla grafica piatta o digitale eccessiva: l’atmosfera doveva essere tangibile, quasi materica.

Sì a una palette profonda, naturale, con colori realistici e ombre pesanti.

L’obiettivo era creare copertine che sembrassero uscite da un archivio polveroso dell’epoca vittoriana, non da un software di grafica moderno. Le immagini dovevano avere anima — e imperfezione.

La figura di spalle, sotto il lampione

Nella copertina di “Le Ombre di Whitechapel” e de “Il Vangelo delle Ombre”, la figura maschile di spalle — probabilmente Edgar Blackwood stesso — non mostra mai il volto.
Perché?
Perché il mistero non si rivela mai tutto. E perché il lettore deve avere lo spazio per proiettare se stesso nell’indagine. La luce del lampione, unica fonte in mezzo alla nebbia, rappresenta l’intuizione, la verità che tenta di farsi largo nel buio.

Brossura o copertina rigida? Due anime dello stesso libro

La versione in brossura è sobria, elegante, perfetta per chi ama leggere ovunque.
La copertina rigida, invece, è un oggetto da collezione. La prima tiratura, arrivata in questi giorni, aveva un piccolo difetto sul bordo, ma il risultato estetico è stato sorprendente: sembrava un diario maledetto ritrovato in una biblioteca dimenticata.

Quella versione rischia di diventare rarissima: presto, con l’avvio di una nuova strada editoriale, potrei dover sospendere la produzione indipendente di questi formati.

Un libro che deve anche farsi guardare

Credo che una copertina non debba solo “piacere”. Deve evocare. Deve fare domande, non dare risposte.
L’Archivio Blackwood non è solo una saga gotica: è un viaggio tra ombre, colpe e verità sepolte. E ogni immagine, ogni sfumatura della copertina, vuole suggerirlo senza mai gridarlo.

Se non avete ancora tra le mani una copia, ecco i link diretti:

Brossura:
Copertina rigida:

A presto con nuovi dossier, nuove immagini e forsenuovi segreti dall’Archivio.
Restate nell’ombra.
– Claudio Bertolotti

Gli incubi dell’ispettore Blackwood

Quando la notte non è un rifugio

Nessun uomo attraversa l’oscurità senza portarsela dentro.
Edgar Blackwood è un investigatore, sì.
Ma anche un sopravvissuto.
Ogni caso che affronta lascia una traccia.
Ogni incontro con l’ignoto produce qualcosa che non si dissolve con la luce del mattino.

Blackwood non racconta i suoi incubi.
Ma li scrive.
O almeno, li annota a margine dei suoi taccuini, come se volesse decifrarli.
Come se temesse che ignorarli significhi lasciare qualcosa in sospeso.

Ecco alcuni estratti, ritrovati tra le ultime pagine di un dossier non protocollato.

1. “Il letto era vuoto. Ma il cuscino era affondato.”

Ho sognato di entrare nella mia stanza. C’era silenzio. La finestra era chiusa.
Il letto rifatto.
Eppure… il cuscino mostrava ancora la forma della testa.
E nel mio cassetto c’erano pagine scritte da una mano che non era la mia.”

Un incubo ricorrente nei giorni successivi al caso Fairweather.
Blackwood non è certo che fosse solo un sogno.

2. “L’organo della chiesa suonava, ma non c’erano mani.”

Una melodia lenta, sbagliata, suonava nell’aria.
Entravo, e vedevo solo il vento muovere le tende.
E poi, un frammento di carne sulla tastiera.

Mi svegliavo sempre con le dita irrigidite.

Questo sogno appare nel taccuino datato dicembre 1888.
Padre Quinn lo aveva definito “un sogno guida”. Ma Blackwood non ne ha mai parlato apertamente.

3. “Non parlavano. Ma le bocche erano aperte.”

Un sogno senza suono.
Volti immobili, occhi sbarrati, bocche spalancate.
Tutti rivolti verso di me. Nessuno emetteva un suono.
Ma sentivo le parole nella testa: “Tu sei l’eco.”

Forse il più disturbante.
Annotato all’alba, su una pagina strappata, ritrovata con segni di inchiostro cancellato a forza.

Incubi come indizi

Per Blackwood, i sogni non sono solo frutti della mente.
Sono residui di qualcosa che ha visto, ma che non riesce ancora ad accettare.
Sono spazi dove l’ordine cede il passo al simbolo, dove l’indagine razionale deve cedere alla visione.

E forse è proprio nei suoi incubi che si trova la chiave per comprendere davvero i casi più oscuri dell’Archivio.

I taccuini di Blackwood: tra superstizione e scienza

Dentro le pagine che non dovevano essere lette

C’è una Londra che si legge sui giornali.
E ce n’è un’altra, molto più pericolosa, che si trova solo nei taccuini di Edgar Blackwood.

Appunti tracciati a matita, macchie di cera, bordi strappati, simboli copiati da pareti scomparse.
I suoi taccuini non sono diari, e non sono rapporti.
Sono luoghi in cui logica e superstizione si incontrano senza giudicarsi.

Scrivere è un atto rituale

Blackwood non prende appunti per ricordare.
Scrive per capire.
Ogni parola che segna sulle sue pagine serve a dare forma a qualcosa che non riesce ancora a nominare.

Ha taccuini per tutto:

uno per gli eventi inspiegabili

uno per i testimoni disturbati

uno interamente dedicato a simboli e segni incontrati nei casi

Ogni volume è numerato. Ma spesso anche rimaneggiato, bruciato, ricucito.
Come se il contenuto stesso volesse cambiare forma nel tempo.

La scienza non basta

Nelle sue prime indagini, Edgar annotava solo i fatti.
Ma con l’avanzare dei casi, qualcosa è cambiato.
Ha cominciato ad affiancare agli orari e alle testimonianze:

presagi

sogni

intuizioni improvvise

Nel taccuino del caso Fairweather, ad esempio, accanto a un verbale medico, troviamo un appunto strano:

L’odore di incenso non è descritto da nessuno, ma persiste nel mio cappotto. Nessuno l’ha sentito tranne me.”

Annotazioni non autorizzate

Alcuni taccuini non sarebbero mai dovuti esistere.
Contengono nomi di sacerdoti, dettagli di cerimonie interdette, appunti presi durante rituali che nessuna autorità avrebbe riconosciuto come “indagine”.

In uno, Edgar scrive:

Le forze che agiscono qui non cercano giustizia. Cercano ascolto. E lo trovano nei silenzi degli innocenti.”

Taccuino finale: La Mano Nascosta

L’ultimo volume (mai ufficialmente protocollato) è un taccuino nero senza etichetta.
Nella prima pagina, solo tre parole:
La Mano Nascosta.”

Contiene simboli, disegni, citazioni da testi proibiti e brevi messaggi in latino.
Si dice che Blackwood lo portasse con sé anche quando dormiva.

Nessuno sa cosa contenga davvero.
Ma da quel momento in poi, l’ispettore non fu mai più lo stesso.

Conclusione

I taccuini dell’Archivio Blackwood non sono solo strumenti investigativi.
Sono reliquie di una mente che ha camminato sull’orlo del reale, raccogliendo tracce di un male che sfugge alle regole.

E chi li sfoglia… difficilmente torna indietro.

L’oggetto che non doveva esistere

Non compariva in nessun inventario, né nei registri della polizia.
Non era mai stato descritto nei giornali dell’epoca, né ricordato dai superstiti.
Eppure quell’oggetto esisteva.
Un piccolo medaglione d’ottone annerito, inciso con un simbolo che nessuno seppe mai decifrare davvero.
Fu ritrovato — secondo alcune versioni — nei sotterranei di Whitechapel, tra i resti di un rituale interrotto.
Secondo altre, fu portato via da un uomo che poi scomparve per sempre nei corridoi del Bedlam Hospital.

Nel mio racconto Le Ombre di Whitechapel, questo medaglione compare solo per pochi istanti.
Ma chi legge con attenzione sa che in quelle poche righe si annida un significato oscuro, una chiave che forse — nel prossimo capitolo — potrebbe aprire qualcosa che non dovrebbe essere aperto.
Ogni oggetto ha una storia.
Ma alcuni, come questo, hanno un’eco.