L’Oscura Eredità di Lovecraft


Come il maestro dell’orrore cosmico ha influenzato il mio modo di scrivere

Ci sono autori che si leggono. Altri che si studiano.
E poi c’è Lovecraft.

Il suo nome evoca abissi insondabili, creature che nessun uomo dovrebbe nominare, e un orrore che non viene mai spiegato fino in fondo. Un orrore che si intuisce, che serpeggia, che trasforma la realtà in una vertigine. È questo il suo dono più oscuro: l’aver insegnato che ciò che ci spaventa davvero… è l’invisibile.

Quando iniziai a scrivere Il Vangelo delle Ombre, e ancora prima Le Ombre di Whitechapel, le sue parole mi tornavano spesso alla mente:

“Non è morto ciò che in eterno può attendere,
e col volgere di strani eoni anche la morte può morire.”

Questa frase da sola contiene tutta la filosofia lovecraftiana: la piccolezza dell’uomo, l’illusione del tempo, la fragilità della mente.

Lovecraft non costruiva trame nel senso classico.
Costruiva atmosfere.
Le sue storie sono fosche, nebulose, spesso senza risoluzioni consolatorie. Non esiste eroe, non esiste vittoria, esiste solo l’incontro – spesso casuale – con l’insondabile.

Quello che ho cercato di fare nei miei romanzi è proprio questo: creare una tensione costante, una nebbia mentale che avvolge il lettore, dove i protagonisti (Blackwood, Monroe, Padre Quinn) non affrontano solo mostri, ma dubitano del reale, dei simboli, di se stessi.

Lovecraft mi ha insegnato che l’orrore non deve essere spiegato. Anzi:
più tenti di spiegarlo, più lo riduci.

Ne Il Carnefice del Silenzio ho lasciato che certi eventi restassero sospesi, che alcune immagini emergessero solo come sussurri. Come avrebbe voluto lui.

Mi piace pensare che il mio Archivio Blackwood sia, nel suo piccolo, una lanterna accesa nella stessa caverna oscura in cui scriveva Lovecraft.
Una lanterna fioca, certo.
Ma che continua a tremare. A resistere.

Perché la paura non è solo un genere.
È un linguaggio.
E Lovecraft ce l’ha insegnato meglio di chiunque altro.


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Dietro le quinte: il diario segreto dell’autore durante la scrittura


«A volte le parole mi vengono addosso come lame. Altre, invece, si nascondono tra le pieghe del silenzio, e io resto lì, a cercarle.»

Scrivere Il Carnefice del Silenzio e Il Vangelo delle Ombre non è stato solo un lavoro creativo. È stato un attraversamento. Ogni pagina è nata da una notte insonne, da una passeggiata interrotta, da una voce che sembrava parlarmi da lontano.

E se vi dicessi che, in certi momenti, ho davvero temuto che quei personaggi mi stessero seguendo?


Una pagina reale del mio taccuino

8 dicembre 2024 – ore 3:14
“Sto riscrivendo la scena di Blackwood davanti alla finestra. Ma stasera non riesco a farlo muovere. È immobile, come me. Abbiamo lo stesso dubbio: se scendere in strada… o aspettare che qualcosa bussi. Continuo a sentire un rumore nel corridoio. Non c’è nessuno. Ne sono quasi certo.”


Scrivere paura, sentire paura

Non puoi scrivere l’oscurità senza entrare, almeno un po’, nella sua ombra. Quando ho descritto la casa della famiglia Fairweather, ho spento la luce. Volevo vedere quanto sarei riuscito a resistere. E ho resistito. Ma solo perché, scrivendo, qualcosa si accende comunque. Una candela. Una voce. Un nome che ritorna.


Quando le parole si rifiutano

Ci sono stati giorni in cui ho odiato questa storia. E non lo nascondo. Ho odiato Declan per la sua assenza. Ho odiato Monroe per la sua ingenuità. Ho odiato Blackwood… perché si stava allontanando anche da me.

Ma poi bastava una frase, una visione, un ricordo… e la macchina ripartiva. Come se la storia non mi appartenesse, ma volesse comunque essere raccontata. E io, più che scrittore, ero solo il suo archivista.


Una promessa

A chi legge i miei libri: sappiate che ogni parola è stata vissuta. Anche se finta. Anche se immaginata. Perché per creare un incubo credibile, bisogna averci camminato dentro. In silenzio. Con una torcia in mano. E senza sapere se alla fine… si uscirà davvero.


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Le Radici del Terrore – Omaggio a Edgar Allan Poe


Recensione e riflessione su “Il cuore rivelatore”

Prima ancora che nascesse L’Archivio Blackwood, prima che prendessero forma i miei personaggi e i loro tormenti, c’era lui: Edgar Allan Poe.
Un nome che non è solo un riferimento letterario, ma una fessura nella parete del tempo, da cui filtra una voce. È una voce disturbata, disturbante, ossessiva.
Una voce che ho ascoltato più volte prima di iniziare a scrivere.

Tra i suoi racconti più celebri, ce n’è uno che, ancora oggi, mi stringe lo stomaco come una morsa: “Il cuore rivelatore” (The Tell-Tale Heart, 1843).
Un racconto breve, secco, ma spietato. Una discesa in prima persona nella follia, nella paranoia, nel suono costante di una colpa che non vuole essere sepolta.

La trama in breve (senza spoiler)

Un uomo, ossessionato dall’occhio di un vecchio, decide di eliminarlo. Ma ciò che lo distruggerà non sarà la giustizia umana, bensì il battito insistente di un cuore che non smette di pulsare.

Perché questo racconto mi ha influenzato

Ciò che rende questo testo immortale non è il fatto in sé, ma la voce del narratore.
Non sappiamo chi sia. Non sappiamo nemmeno se ciò che racconta sia reale.
Ma sentiamo la sua angoscia, le sue giustificazioni, il suo delirio.

Questa ambiguità tra realtà e follia è una delle cifre che ho portato nei miei racconti.
In Il Vangelo delle Ombre o in Il Carnefice del Silenzio, il lettore è spesso lasciato sospeso tra ciò che è accaduto e ciò che si crede sia accaduto.
Poe mi ha insegnato che la vera paura non nasce dal mostro…
ma dal dubbio.

Una scrittura che parla all’inconscio

La lingua di Poe è musicale e ipnotica.
Ogni parola è un passo verso l’abisso, ogni frase è costruita come una spirale che ti stringe.
Eppure è semplice. Mai pretenziosa. Mai sterile.

Da lui ho imparato che non serve spiegare il male.
Basta lasciarlo parlare con la propria voce.
Una voce che, a volte, suona troppo simile alla nostra.


Se non avete mai letto “Il cuore rivelatore”, fatelo.
Se lo avete letto, rileggetelo.
E poi… ascoltate.
Perché là fuori, o forse dentro di voi, un cuore batte ancora.


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Il tempo nel Carnefice – Quando il passato non è passato


C’è qualcosa di guasto nel tempo, dentro l’Archivio Blackwood.
Le lancette si muovono, è vero, ma non sempre nella direzione che crediamo. I corridoi si polverizzano, le stanze cambiano forma, ma alcune memorie… non si lasciano bruciare.

In Il Carnefice del Silenzio, il tempo non è solo un contesto. È un avversario. Un alleato sleale. Un prigioniero che ogni tanto riesce a evadere.

Il passato non dorme

Le indagini che Blackwood conduce nel terzo volume si intrecciano in modo quasi patologico con ciò che è già avvenuto. Ogni luogo visitato –  l’archivio ecclesiastico, le stanze murate – è impregnato di “già accaduto”. Come se i muri non avessero mai smesso di raccontare.

Il passato emerge attraverso:

  • Oggetti che tornano (maschere, lettere, simboli già visti)
  • Persone che sembrano invecchiate senza mai cambiare
  • Silenzi che durano da dieci anni, ma non si sono mai interrotti davvero

Non si tratta solo di nostalgia o trauma. È qualcosa di più inquietante.
È come se il tempo stesso si fosse spezzato e qualcosa fosse rimasto incastrato tra le fessure.


I varchi temporali dell’indagine

Il romanzo gioca con l’idea che ogni caso irrisolto sia una porta lasciata socchiusa nel tempo.
Non solo giustizia sospesa, ma dolore congelato.

Ciò che accade nel presente ha spesso bisogno di essere letto con le lenti del passato.
È qui che Blackwood eccelle: non è solo un detective, è un lettore di rovine.
Sa che:

“Nessun caso si chiude davvero. Solo alcuni nomi smettono di essere pronunciati.”

E quando i nomi vengono sussurrati di nuovo… il tempo riprende a scorrere.


Quando il futuro imita l’orrore

C’è infine un’altra dimensione temporale nel Carnefice: il futuro che imita l’orrore passato.
Una specie di maledizione ciclica.
Ciò che è stato non si limita a tornare. Si evolve.
Assume nuove forme, più subdole, più insidiose.

È il caso di certi riti dimenticati, di culti che sembravano estinti, di presenze che trovano nuovi corpi da abitare.
E così, il futuro smette di essere una via di fuga.
Diventa una seconda condanna.


L’unico modo per vincere il tempo?

Non voltarsi mai.


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Manoscritti e follia: quando la scrittura consuma chi scrive


C’è un confine sottile tra l’atto della scrittura e l’ossessione. Tra l’inchiostro e il sangue. Tra chi racconta e chi viene raccontato.

Nei corridoi dell’Archivio Blackwood, questo confine è spesso superato. I diari si scrivono da soli. Le lettere non arrivano mai. E i manoscritti… a volte sussurrano.

Ma questa non è solo finzione gotica. Esistono casi documentati, realmente accaduti, in cui la scrittura ha condotto alla pazzia, al silenzio eterno o a gesti inspiegabili.

Quando la penna scava nell’abisso

Nel 1865, lo scrittore britannico Richard Dadd, autore di poesie e schizzi fiabeschi, fu internato a Bethlem Hospital dopo aver ucciso il padre. Nelle sue lettere dal manicomio, scrisse che “l’inchiostro era la lingua di un altro”. Le sue opere più tarde erano fitte di simboli e calligrafie spezzate, come se il testo tentasse di fuggire da sé stesso.

Altri, come il gallese Reverendo Glynn, scomparso nel 1892, lasciarono dietro di sé centinaia di pagine scritte in una lingua inventata, sepolte sotto assi marce di una chiesa in rovina. L’unica frase tradotta: “Non è Dio che ascolta. È qualcun altro.”

L’ossessione del dettaglio

Molti scrittori, soprattutto nel XIX secolo, credevano che ogni parola possedesse una vibrazione. Alcuni stilavano le proprie opere in più copie, a mano, convinti che la macchina da stampa potesse “contaminare” il significato originale. Altri, come l’enigmatico autore di Il Codex Umbrae (volume mai ufficialmente pubblicato), annotavano le correzioni sulla pelle animale, anziché sulla carta, “per renderle vive”.

Questo tipo di follia ha ispirato anche la mia scrittura. Nei racconti dell’Archivio Blackwood esistono manoscritti che non si possono rileggere, lettere che cambiano testo da sole, preghiere scritte al contrario, e testamenti pieni di parole cancellate con sangue.

Sono simboli. Ma anche avvertimenti.

Chi scrive si consuma

Scrivere significa evocare. Richiamare alla luce qualcosa che non vuole essere visto. E, a volte, ciò che si evoca… guarda indietro.

Nel mondo dell’Archivio Blackwood, i manoscritti non sono semplici oggetti narrativi: sono portali. Mappe del trauma. Tracce della mente che ha osato troppo.

Chi scrive, lascia una parte di sé sulla pagina. Ma attenzione: non sempre si ha il permesso di riprenderla.

Il Vangelo delle Ombre è il nuovo romanzo gotico che prosegue l’indagine nelle ombre.

Un preordine può portare questo libro in tutte le librerie.

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Grazie per il vostro sostegno – Il Vangelo delle Ombre in Campagna Crowdfunding


In questi giorni carichi di emozioni, desidero prendermi un momento per ringraziare pubblicamente alcune persone e realtà che hanno deciso di sostenere e condividere la campagna di crowdfunding per il mio nuovo libro Il Vangelo delle Ombre, edito da Bookabook.

Un grazie sincero a:

🔹 @premiletterari – Per aver dato voce al mio progetto tra le loro storie e post, aiutandomi a raggiungere nuovi lettori.
🔹 @latelanera – Una realtà che seguo da tempo e che mi ha onorato con una menzione nelle sue pagine.
🔹 @gabri_libri – Per l’entusiasmo con cui ha presentato il mio romanzo e per la cura nel raccontarlo.
🔹 @lucindalibri – Per aver creduto nel mio lavoro e averlo condiviso con i propri lettori.

In un’epoca in cui l’editoria indipendente fatica a trovare spazio, ogni condivisione è un atto di resistenza culturale. Non lo dimentico. Il vostro supporto ha un valore enorme.


Il Vangelo delle Ombre – La Campagna è Online

Il mio nuovo libro è attualmente in campagna di crowdfunding con la casa editrice Bookabook.
Ogni preordine è un passo fondamentale per portarlo nelle librerie italiane.

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Se hai già preordinato, grazie di cuore.
Se stai pensando di farlo, questo è il momento perfetto.
E se ti va, condividi il link con amici, gruppi di lettura o chiunque ami le storie oscure, gotiche, e profonde.

Con stima e gratitudine,
Claudio Bertolotti


Dietro le Ombre del Carnefice – La nascita di un romanzo disturbante

C’è sempre un momento in cui una storia chiama. A volte con un’immagine. Altre con un sussurro. Il Carnefice del Silenzio non ha fatto rumore. È arrivato in punta di piedi… ma ha lasciato un graffio profondo.

Questo libro è nato dal bisogno di esplorare un altro volto dell’oscurità, più personale, più interiore. Dopo le reliquie insanguinate di Whitechapel e i demoni invocati nel Vangelo delle Ombre, sapevo che il male doveva cambiare forma. Non più una minaccia esterna, ma qualcosa che si insinua nell’anima delle vittime. E dei carnefici.

Un’idea cucita con il silenzio

La prima immagine che ho visto nella mia mente è quella che in realtà ho tagliato dal Libro, nella scena della cripta:
una figura incatenato, con la bocca cucita, il corpo inciso da simboli rituali
Lì, ho capito che il nuovo nemico non sarebbe stato soltanto un uomo. Ma una fede deviata. Una punizione sacrificale. Un culto muto.

Da lì è partito tutto. Ho passato settimane a studiare le mutilazioni rituali, i simboli di costrizione, i significati del silenzio nella religione e nella psiche umana. Il silenzio non come assenza… ma come arma.

Ricerche e simboli

Molti mi hanno chiesto: “Ma da dove viene quella maschera cucita?”.
Non posso rivelare troppo. Ma posso dirvi che ogni simbolo inciso nel libro ha un’origine reale o plausibile.
Dalla croce patriarcale usata nei riti occulti alle forme di punizione usate in monasteri medievali per chi tradiva il voto del silenzio.
Tutto è stato studiato. Manipolato. Distorto.
Come fa il culto all’interno della storia.

La scrittura come discesa

Non è stato semplice scrivere questo libro.
Ci sono state scene disturbanti anche per me. Momenti in cui mi sono chiesto se fosse giusto spingermi così oltre.
Eppure era necessario.
Perché le tenebre non vanno addolcite. Vanno affrontate. Con rispetto. E precisione.

Ci ho messo settimane per chiudere alcuni capitoli. Altri sono venuti di getto. Ma ogni parola è stata scelta. Ogni silenzio è voluto.

Grazie a chi lo ha letto

Se siete arrivati fin qui, forse avete già sentito il respiro del Carnefice dietro di voi.
O forse siete solo all’inizio.
In entrambi i casi, grazie.
Grazie a chi ha letto, consigliato, condiviso. Grazie a chi ha lasciato parole sincere – anche critiche – perché un libro vive davvero solo quando qualcuno lo ascolta.

Il Carnefice del Silenzio – ora disponibile

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Dietro la Maschera: Il linguaggio del silenzio

Analisi del significato simbolico della maschera cucita nel romanzo
Il Carnefice del Silenzio

Non gli fu chiesto di parlare. Gli fu chiesto di obbedire.»

La maschera cucita. Un’immagine che ritorna, disturbante, nel cuore del romanzo Il Carnefice del Silenzio. Più che un oggetto, è un marchio. Un messaggio. Una punizione. Ma anche, paradossalmente, un atto di fede.

La bocca sigillata: controllo o penitenza?

Nel culto deviato dell’Arcidiacono Mallory, il silenzio non è solo l’assenza di parole. È dogma. Un fedele che parla rischia di tradire. Di dubitare. Di contaminare. Per questo, la cucitura della maschera non è solo simbolica: è fisica, brutale, irreversibile.
Chi la indossa non è più un individuo. È un contenitore.
Un tramite.

Il Carnefice e la voce negata

Il personaggio del Carnefice incarna pienamente questa idea. Imprigionato, segnato, mascherato: la sua voce è stata cancellata dalla fede. La sua volontà, ridotta in catene. Non si tratta solo di sottomissione, ma di una trasformazione rituale. L’uomo viene svuotato per diventare mezzo del culto, corpo offerto, punizione vivente.

Il silenzio diventa così un linguaggio sacro.
Un linguaggio che urla senza suono.

Il culto e la mistica del silenzio

Nel cuore del culto di Mallory vi è un’idea rovesciata di purezza.
Chi tace è puro.
Chi ascolta è degno.
Chi parla è pericoloso.

Le frasi rituali incise sulle pareti delle cripte — “Verbum tacitum est verbum sanctum” — sono la prova che il silenzio è stato elevato a sacramento. La cucitura della bocca è quindi l’ultimo atto, il più sacro, il più oscuro.

Un simbolo che inquieta… perché ci riguarda

Nel mondo moderno, dove siamo sommersi da parole, immagini, opinioni, il gesto di cucire una bocca colpisce nel profondo.
Non è solo orrore. È specchio.
Cosa siamo disposti a tacere pur di essere accettati?
Quante volte abbiamo scelto il silenzio per paura, per fede, per sfinimento?

Nel Carnefice, quella maschera cucita parla.
E dice molto più di quanto sembri.

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Dietro il Velo: Come Nasce un Libro di Racconti Gotici

di Claudio Bertolotti

Scrivere una raccolta di racconti gotici è come entrare in una casa abbandonata sapendo che ogni stanza ha una voce. Nessuna guida, nessuna piantina. Solo un odore familiare – muffa, carta umida, cera spenta – e la sensazione costante che qualcosa ti stia guardando dalle fessure.

Non nasce tutto insieme. Non c’è un progetto prestabilito, né una mappa lineare. Ogni racconto ha origine da un’immagine disturbante, da una frase appuntata nel cuore della notte, da un sogno, da un articolo letto per caso, o – spesso – da un silenzio che inquieta più di qualunque urlo.

Prendiamo Il Figlio delle Campane o Il Sussurro del Pozzo : non sono racconti nati per riempire un volume. Sono creature con un ritmo proprio. Uno respira con i rintocchi che vibrano dentro le ossa. L’altro si insinua nel concetto di ascolto, trasformando l’udito nel veicolo del male. Eppure, col tempo, ho capito che avevano qualcosa in comune: il bisogno di essere raccontati attraverso sensazioni profonde, disturbanti, spesso scomode.

Dalla Scena alla Struttura

Scrivere una raccolta significa accettare la frammentazione. Ogni racconto è un microcosmo, ma deve risuonare in armonia con gli altri. Non può esserci un tono troppo dissonante, né uno stile che stona. Il filo conduttore non è solo il protagonista – Edgar Blackwood – ma anche l’atmosfera: la Londra del tardo Ottocento, gotica, umida, densa di segreti e superstizione. Un mondo dove l’aria ha odore di ottone, vino da messa andato a male e ricordi sepolti.

Ogni scena richiede studio: come si muove la luce in quella stanza? Che odore ha il respiro del personaggio? Che suono fa il silenzio tra due frasi?

Dietro una riga, spesso ci sono dieci tentativi. Dietro un dettaglio, una pagina di appunti. E quando scrivo scene come Il silenzio che resta o Il nodo della Voce, non sto solo raccontando una trama. Sto costruendo un’esperienza sensoriale. Perché il gotico, se non lo si sente sulla pelle, non è autentico.

La Solitudine Creativa

C’è una fase in cui scrivere significa isolarsi. Letteralmente. Spegnere il telefono, chiudere le finestre, e lasciarsi guidare dai personaggi. Blackwood non è solo un nome: è un tono di voce, un passo, una cicatrice emotiva. E Declan, con le sue fragilità sempre più evidenti, è lo specchio di un’umanità che lotta ogni giorno per restare lucida davanti all’indicibile.

Nei momenti più intensi, arrivano i dubbi. È troppo cupo? È troppo disturbante? E se nessuno capisce? Ma poi arriva la scena giusta, la frase che vibra al centro del petto. E sai che valeva la pena scavare.

Dalla Pagina alla Copertina

Quando la scrittura si chiude, inizia l’altra metà del lavoro: impaginazione, copertina, revisione. Ogni racconto deve diventare anche oggetto. Un libro da tenere in mano, da annusare (sì, anche quello), da leggere accanto a una candela o in una sera di pioggia. E qui torna l’importanza dei dettagli visivi: ogni copertina ha un’anima. Non deve solo “funzionare”. Deve sussurrare qualcosa, come le storie che contiene.

Il Privilegio del Brivido

Scrivere gotico è un privilegio. Non è solo paura. È malinconia, è lutto, è mistero, è bellezza distorta. È un modo per raccontare quello che non si può dire a voce alta. E ogni volta che un lettore mi scrive “ho avuto i brividi”, so che non è solo una formula: è il segnale che il rito ha funzionato.

Grazie a chi entra in queste stanze buie con me.
Chi non ha paura del silenzio.
Perché è lì che la voce comincia.

Scopri i libri dell’Archivio Blackwood:

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Titolo: Il boia e il culto del silenzio: quando giustizieri e sacerdoti coincidono

Nel cuore più oscuro dell’Europa ottocentesca, là dove le ombre della religione si intrecciano con le viscere della giustizia terrena, esistevano figure ambigue e disturbanti: uomini che erano al tempo stesso carnefici e custodi del sacro. Il boia, archetipo di morte e silenzio, veniva talvolta assimilato a un sacerdote di un culto perduto, nascosto tra le pieghe del dogma cristiano e le superstizioni rurali.

Questa sinistra sovrapposizione non è solo simbolica. Nei registri dimenticati delle prigioni e nei racconti sussurrati tra i vicoli londinesi, si parlava di confraternite silenziose, gruppi clandestini che officiavano le esecuzioni come riti iniziatici. Il condannato non era solo un colpevole, ma un’offerta. Il patibolo diventava altare. La corda, sacra reliquia. E il boia, vestito di scuro, taceva: perché ogni parola poteva rompere l’incanto.

Molti di questi uomini vivevano isolati, in case ai margini della città, circondati da simboli apotropaici, croci rovesciate, monili in osso umano. Alcuni avevano tatuaggi con scritte in latino arcaico. In certe notti d’inverno, si raccontava che pregassero ad alta voce, da soli, nel dialetto di chissà quale ordine monastico dimenticato.

Una delle testimonianze più inquietanti proviene da un documento riservato del 1842, rinvenuto nell’archivio della Workhouse di Bethnal Green. In esso, un certo “S.H.”, condannato a morte per omicidio rituale, racconta che il boia gli avrebbe detto, sottovoce: “oggi diventi silenzio puro“. Una frase che ritorna, identica, in almeno altri tre resoconti anonimi.

Alcuni storici marginali, spesso tacciati di follia, hanno ipotizzato che esistesse una linea segreta che collegava questi giustizieri, tramandata per secoli. Un lignaggio. Una confraternita del silenzio. Con rituali, simboli, giuramenti. Si dice che uno di loro, prima di essere trovato impiccato nella sua stessa botola, avesse inciso sul muro: “In caede silentium est“.

Nel mondo dell’Archivio Blackwood, questa teoria prende forma e carne. Il Carnefice del Silenzio non è solo un assassino. È il discendente di un culto antichissimo, uno dei pochi sopravvissuti. La sua missione non è uccidere: è zittire. Uccidere è solo un mezzo.

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