I casi criminali che ispirarono (o vennero ispirati da) Ed Gein


Il Culto della Madre

Nel vasto panorama del crimine americano, pochi nomi risuonano con l’eco disturbante di Ed Gein. Ma se è vero che il “Macellaio di Plainfield” ha lasciato un’impronta indelebile nella cultura pop e nella cronaca nera, è altrettanto vero che Gein stesso non fu un’isola. I suoi atti disumani si collocano in un contesto più ampio di influenze reciproche tra realtà e finzione, tra mitologia del male e carne viva.

Prima di Gein: chi ha ispirato l’orrore?

Alcuni studiosi e profiler criminali ritengono che Gein, pur vivendo in un isolamento rurale quasi totale, abbia assorbito suggestioni dell’immaginario gotico e della cronaca nera locale. I racconti orali, i pulp magazine dell’epoca e le leggende sul body-snatching (il furto di cadaveri) avevano già contribuito a creare un’atmosfera malata in certe aree del Midwest.

Tra le figure più vicine al suo immaginario, anche se molto anteriori, possiamo citare:

  • Albert Fish: il “Vampiro di Brooklyn”, che nei primi decenni del ‘900 compì orrendi crimini legati a pulsioni sessuali e religiose. Sebbene diverso per modalità, Fish creò un precedente nella costruzione di un mostro che usava la propria “fede” come giustificazione per atti indicibili.
  • H.H. Holmes: il costruttore del famigerato “Castello degli Orrori” a Chicago, che nel 1893 trasformò un albergo in un labirinto mortale. La struttura mentale deviata e manipolativa di Holmes può essere vista come un lontano predecessore di certi aspetti del controllo materno subito da Gein.

Dopo Gein: il mostro genera altri mostri

Ma è soprattutto dopo Gein che il suo nome diventa seme oscuro per nuove mostruosità. I suoi crimini, come narrato nel Libro Il Culto della Madre, hanno ispirato decine di personaggi letterari e cinematografici, ma anche – e tristemente – altri assassini reali.

Alcuni casi emblematici:

  • Jerry Brudos: collezionista di scarpe femminili e feticista necrofilo, attivo negli anni ’60, mostrava una forte ossessione per il corpo femminile “conservato”, in modalità non troppo distanti da Gein.
  • Ted Bundy: sebbene molto diverso per intelligenza e modus operandi, è interessante notare come Bundy abbia letto avidamente di Gein durante i suoi anni di formazione criminale. Alcuni suoi comportamenti con i cadaveri sembrano echeggiare una fascinazione necrofila, anche se più “raffinata”.
  • Gary Heidnik: sequestrava donne nel seminterrato, costruendo una realtà parallela fatta di controllo, punizione e ossessione. La sua casa, come quella di Gein, divenne un santuario del delirio.

Quando il male diventa specchio

La figura di Ed Gein è, in un certo senso, uno specchio oscuro in cui molti altri criminali hanno proiettato le proprie fantasie. Un nome che è diventato quasi un archetipo, il “prototipo” del serial killer prima ancora che questa figura venisse definita scientificamente.

Nel mio Libro, Il Culto della Madre, ho analizzato in dettaglio come Gein sia stato ispirato dalla madre, dalla Bibbia, dalla psicosi… ma anche da un tessuto culturale e narrativo che non è mai innocente.

E forse è proprio questo il punto più inquietante: la linea tra l’invenzione e la realtà è molto più sottile di quanto vogliamo credere.


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La fatica di costruire un mondo: la genesi dell’Archivio Blackwood


Ogni storia ha un inizio. Ma costruire un intero mondo… richiede molto di più.

Quando ho iniziato a scrivere Le Ombre di Whitechapel, non avevo ancora idea che stavo posando la prima pietra di qualcosa di più grande. Pensavo si trattasse di un racconto gotico, autoconclusivo, ambientato nella Londra vittoriana. Poi sono arrivati i dettagli: una pergamena scritta in latino, un culto antico, una figura enigmatica col cappotto scuro e il vizio del sigaro. Edgar Blackwood non era solo un personaggio: era una porta d’ingresso.

Un mondo che si espande… a colpi di ostinazione

La fatica di costruire un mondo narrativo non sta solo nella documentazione storica, anche se quella è fondamentale. Sta nel dare coerenza a ogni gesto, ogni parola, ogni ombra. Quando una saga si allarga, devi ricordare cosa è successo nel 1888, cosa accadrà nel 1889, e come ogni piccolo evento si ripercuote su quelli futuri.

Ho creato file, scalette, mappe mentali, cronologie interne  ma spesso sono serviti solo a farmi capire che dovevo reimmaginare tutto da capo. Alcuni personaggi sono stati eliminati, altri sono morti perché così doveva andare. Blackwood ha perso compagni, ha trovato nuovi alleati, e io con lui ho perso e trovato la direzione.

Le idee scartate? Più numerose di quelle pubblicate

Ci sono interi capitoli mai scritti. Titoli accantonati. Idee che sembravano geniali e si sono rivelate vuote. Alcuni nemici non erano abbastanza potenti. Alcuni misteri non abbastanza oscuri. A volte sono stati proprio quei fallimenti a spingermi oltre.

Il Vangelo delle Ombre è nato da uno scarto. Era un frammento, un’idea gettata via… finché non ho deciso di esplorarla fino in fondo. La mia paura più grande si è trasformata nella chiave per raccontare un nuovo orrore, più profondo.

Quando arriva l’intuizione giusta

L’intuizione arriva tardi. A volte nel sonno. A volte mentre stai facendo tutt’altro. La figura del Viaggiatore, per esempio, è nata da un sogno disturbante. E quel sogno è diventato il cuore del secondo volume. Così come il personaggio di Monroe – un alleato nato quasi per caso – ha conquistato un posto fondamentale nella saga.

Blackwood stesso non doveva nemmeno essere protagonista. Ma la sua voce ha preso forza, e io ho dovuto ascoltarla.

Non è solo “scrivere una storia”. È costruire una mitologia

Ogni racconto della saga Archivio Blackwood è parte di qualcosa di più ampio. Una cronologia. Una tensione. Un mondo.
Chi legge i miei libri trova riferimenti, simboli ricorrenti, nomi già uditi. Nulla è lasciato al caso, ma molto viene lasciato nel mistero, come è giusto che sia in una storia gotica.

Londra diventa un personaggio. I suoi vicoli, la sua nebbia, i suoi segreti. E ogni nuova pagina deve rispettare ciò che è stato scritto prima, ma anche osare qualcosa di nuovo.


In conclusione…

Costruire l’Archivio Blackwood è stato (ed è ancora) un lavoro duro. Fatica, ricerca, tagli, riscritture, dubbi. Ma è anche ciò che mi ha reso davvero autore. E ogni volta che un lettore mi scrive per dirmi che ha riconosciuto un simbolo o ha seguito un’indagine pagina dopo pagina… capisco che questa fatica ha senso.

Grazie per essere parte di questo viaggio nell’ombra.
A lume di candela, continueremo a cercare la verità tra le pieghe del Velo.



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I miei personaggi soffrono. Perché devono farlo?


La sofferenza non è un espediente narrativo.
Non è nemmeno una punizione.
È il prezzo da pagare per essere reali.

Nella mia saga L’Archivio Blackwood, ogni personaggio – che sia un detective, un sacerdote, una bambina o un assassino – attraversa il proprio inferno. Non perché io, come autore, voglia condannarli. Ma perché non credo nella salvezza senza l’ombra della caduta.

Declan O’Connor, ad esempio, non è morto per stupire il lettore. È morto perché quella era l’unica strada coerente con la sua storia, con la sua lealtà e con ciò che la sua presenza significava per Blackwood.
E Blackwood stesso non è l’eroe invincibile. È il risultato di ciò che ha perso.


La sofferenza come verità

Viviamo in un’epoca in cui spesso si scrivono personaggi “giusti”, “forti”, “risolti”. Ma io credo che il dolore sia l’unico elemento narrativo in grado di dire la verità.
Quando Elias Monroe sbaglia, quando Padre Quinn vacilla, quando la bambina de Il Vangelo delle Ombre pronuncia parole che non le appartengono… lì, in quei momenti, smettono di essere personaggi. Diventano persone.

La sofferenza li umanizza. Li spezza e li scolpisce.
E se non soffrissero, sarebbero solo funzioni nella trama. Non anime.


Il dolore ha un prezzo. Anche per chi legge.

Chi legge i miei libri lo sa: nessuno è al sicuro.
Non perché io voglia scioccare. Ma perché la vita vera non protegge chi amiamo, e quindi nemmeno la narrativa dovrebbe farlo, se vuole restare sincera.
C’è chi ha pianto per la fine di un personaggio. Chi mi ha scritto di aver rivisto sé stesso in una crisi di fede.
Chi ha sentito che, forse, anche lui stava lottando contro un “Viaggiatore”.

La sofferenza dei miei personaggi è un patto.
Io la scrivo, tu la attraversi. Insieme ne usciamo un po’ più sporchi.
Ma anche un po’ più vivi.


Soffrono. Ma non smettono di cercare la luce.

Questa è l’unica cosa che non tolgo mai.
Una candela, una voce, un simbolo inciso nel legno.
Un gesto piccolo, inutile forse. Ma umano.

Perché se è vero che i miei personaggi soffrono… è altrettanto vero che nessuno di loro accetta di spegnersi completamente.

Ed è in quella resistenza silenziosa che, forse, si trova l’unico spiraglio di salvezza.
Per loro.
E per noi che li leggiamo.


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Gli oggetti del male: quando il potere è nelle mani sbagliate


Ci sono oggetti che nascono innocenti, creati per difendere, guarire o pregare.
Poi, un giorno, finiscono nelle mani sbagliate  e smettono di appartenere al mondo dei vivi.

Le croci, le reliquie, gli amuleti e gli strumenti di tortura non sono soltanto elementi del passato o simboli religiosi: nella storia dell’umanità hanno rappresentato la soglia tra fede e dominio, tra salvezza e dannazione. E nella narrativa gotica, quella soglia diventa spesso una trappola.


Croci che non proteggono

Nella saga de L’Archivio Blackwood, le croci sono un segno ambiguo: pendono dai colli dei fedeli e dei peccatori allo stesso modo.
Padre Quinn, nel Vangelo delle Ombre, impugna la croce come un’arma, ma ogni volta che la solleva lo fa con paura, come se temesse che Dio non rispondesse più.
Perché nel mondo di Blackwood non è la croce a proteggere l’uomo: è l’uomo a dare senso alla croce.
E quando la fede si spegne, resta solo il metallo freddo, incapace di distinguere il bene dal male.


Reliquie e inganni

La storia reale non è diversa.
Dal Medioevo fino all’età vittoriana, l’Europa fu invasa da reliquie, frammenti di ossa, schegge di croci, lacrime imbalsamate di santi.
Ogni reliquia era una promessa, un modo per vendere redenzione a chi non aveva più fede.
Nelle mani giuste, una reliquia è un simbolo di speranza; in quelle sbagliate, diventa uno strumento di potere.
Ed è proprio questo il nucleo oscuro di molte delle tue opere: il male non risiede nell’oggetto, ma in chi lo desidera.


Amuleti e superstizione

Nel XIX secolo, a Londra, non era raro trovare amuleti cuciti nei vestiti o nascosti nelle tasche dei defunti.
Servivano a proteggere l’anima durante il viaggio nell’aldilà, ma spesso erano oggetti intrisi di paura più che di fede.
In Il Carnefice del Silenzio, alcuni di questi amuleti riemergono dagli archivi di Scotland Yard, sporchi di sangue e di segreti: simboli cabalistici tracciati sul rame, occhi d’animale, piccoli ossi umani avvolti in nastri neri.
Ognuno racconta una storia, ognuno è il frammento di una disperazione.


Strumenti di tortura e volontà del potere

Dagli inquisitori ai medici alienisti, l’uomo ha sempre usato il dolore come metodo per conoscere, controllare, redimere.
Gli strumenti di tortura, nella storia come nella narrativa, sono la prova che la curiosità può diventare crudeltà quando si veste da scienza.

Perché a volte il male non vuole uccidere, vuole capire.


Il vero potere

Ogni oggetto maledetto nasce da un gesto umano:
Ecco perché nell’universo di Blackwood — come nella realtà — il male non è mai soprannaturale. È un’eco di ciò che abbiamo costruito noi.

Gli oggetti del male non ci scelgono.
Siamo noi a prenderli in mano, a dargli voce, e a credere che possano salvarci.


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Nella mente del Mostro: cosa spinge un uomo a oltrepassare il limite


Ci sono crimini che non si esauriscono nei fatti, ma continuano a vivere nelle domande che lasciano dietro di sé. La figura del “mostro” affascina e spaventa da sempre, perché non rappresenta solo la devianza, ma anche il riflesso più oscuro dell’animo umano.
Dietro l’orrore di un delitto c’è quasi sempre una mente che si è spezzata, un’identità che ha perso il confine tra realtà e delirio. È in quel momento che l’uomo oltrepassa il limite, trasformandosi in ciò che la società non riesce più a comprendere.

Molti dei casi più inquietanti della storia — da Jack lo Squartatore a Ed Gein — mostrano un filo invisibile che lega la violenza al bisogno di controllo, al trauma, alla solitudine e, spesso, a un’ossessione profonda verso la figura materna o verso il divino.
Ed Gein, in particolare, rappresenta una frattura simbolica: l’uomo che ha trasformato la propria casa in un mausoleo, confondendo amore, colpa e fede. Dietro la cronaca, si nasconde una mente fragile e disorientata, incapace di distinguere peccato e purificazione.

Studiare il male non significa giustificarlo, ma comprenderlo. Ogni omicidio rituale, ogni gesto apparentemente inspiegabile, è il sintomo di un vuoto che si riempie di follia. E solo guardando dentro quel vuoto possiamo capire quanto sottile sia la linea che separa l’essere umano dal suo abisso.

Il mio saggio Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana nasce proprio da questa domanda: cosa spinge un uomo a credere che la morte possa essere un atto di redenzione?

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La casa come tempio del Mostro


Anatomia delle abitazioni dei killer seriali

Quando il Male mette radici, ha bisogno di un luogo in cui crescere.
Spesso, quel luogo è una casa. Apparentemente normale. A volte isolata. A volte nel cuore del vicinato. Ma sempre, sempre diversa.
In questo articolo esploriamo la dimensione domestica del crimine seriale, con particolare attenzione alla figura di Ed Gein — cuore del mio recente saggio Il Culto della Madre — ma anche in relazione ad altri casi reali e alle inquietanti somiglianze con le dimore gotiche del mio universo narrativo.


Non è solo un luogo: è un corpo vivente

Le case dei serial killer non sono semplici contenitori. Sono estensioni simboliche della mente del carnefice: ogni oggetto, ogni stanza, ogni odore racconta un bisogno, una frattura, un’ossessione.

Nel caso di Ed Gein, la casa di Plainfield divenne un vero e proprio teatro rituale, un santuario della madre morta e al tempo stesso un laboratorio della carne. Le stanze chiuse, i cadaveri sezionati, i trofei umani: tutto all’interno rifletteva la trasformazione di un lutto non elaborato in culto mortale.


La casa come psicodiagramma

In criminologia ambientale, lo spazio domestico viene spesso analizzato come “psicogeografia del crimine”: la disposizione degli ambienti, la scelta degli oggetti, la loro alterazione (o conservazione) offrono indizi sulla psiche del soggetto.

  • Nella stanza di Gein dove dormiva la madre, nulla era stato toccato.
  • Nella cucina, i resti umani erano stati trattati come utensili.
  • In cantina, si compivano atti al limite tra necrofilia e arte sacrificale.

Questa dicotomia tra conservazione del sacro e profanazione del corpo ritorna spesso anche nei miei romanzi: la stanza sigillata di una bambina morta, il laboratorio rituale sotto una chiesa, la biblioteca dove ogni scaffale contiene frammenti di dolore.


Narrativa gotica e verità disturbanti

Molti lettori mi chiedono se le case descritte nell’Archivio Blackwood siano ispirate a luoghi reali.
La risposta è: sì, ma non solo.
Ho preso spunto da documenti reali — come le foto dell’abitazione di Gein dopo l’arresto — ma anche da suggestioni letterarie, teologiche e simboliche: la casa non è solo luogo fisico, è sempre una porta verso qualcosa.
Nel gotico, la casa è spesso corrotta, viva, malata, esattamente come lo è nella mente di un assassino.


Il passato non se n’è mai andato

Le case in cui sono avvenuti crimini orribili non perdono mai del tutto il loro carico. Non è solo superstizione. È psicologia dell’ambiente.
Il trauma impregna i muri, e spesso chi entra dopo — vittima o lettore — lo sente.

È per questo che, in narrativa o nella realtà, il Male non muore mai davvero tra quelle pareti.
Resta lì, in attesa.
Di essere riscoperto.
O riattivato.


Tratto da riflessioni nate durante la stesura del saggio
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INTERVISTA A CLAUDIO BERTOLIOTTI


“Perché ho scritto un saggio su Ed Gein”

Ho deciso di raccontare il dietro le quinte di questo saggio in una forma un po’ diversa dal solito: un’intervista immaginaria, ma realistica, per condividere meglio le motivazioni, le scelte e il percorso che mi hanno portato a scrivere Il Culto della Madre.
Un modo diretto e sincero per chi mi segue dall’inizio – o mi scopre solo ora – per entrare con me nelle radici di un progetto nato dieci anni fa, e solo oggi finalmente compiuto.


Intervistatore – Claudio, sei conosciuto soprattutto per la tua narrativa gotica, per la saga dell’Archivio Blackwood. Ma stavolta hai sorpreso tutti con un saggio disturbante e affascinante. Perché Ed Gein?

Claudio Bertolotti – Perché incarna perfettamente il confine tra realtà e incubo. Chi mi segue sa che nei miei romanzi mi muovo sempre tra crimine, occulto e psicologia deviata. Ma Ed Gein non è una creazione letteraria. È esistito. E quello che ha fatto – o meglio, quello che ha rappresentato – va ben oltre l’horror. È stato l’archetipo del mostro moderno, la matrice nascosta dietro personaggi come Norman Bates, Leatherface, Hannibal Lecter. Volevo togliergli la maschera da cinema e riportarlo alla sua vera natura: un uomo solo, spezzato, vittima e carnefice al tempo stesso.


Intervistatore – Quando hai iniziato a lavorare a questo saggio?

Claudio Bertolotti – Dieci anni fa. Era il 2013, e stavo guardando American Horror Story: Asylum. Il personaggio di Bloody Face mi colpì come un pugno: inquietante, magnetico, terribilmente plausibile. Quando scoprii che era ispirato a Ed Gein, iniziai a fare ricerche. E da lì si aprì un mondo. Ho letto verbali processuali, articoli d’epoca, studi di criminologia, ma anche testi meno convenzionali. È stato un lavoro lungo, frammentato, che si è intrecciato con la mia scrittura narrativa. Ma non l’ho mai abbandonato.


Intervistatore – Cosa ti ha spinto a pubblicarlo proprio adesso?

Claudio Bertolotti – Era il momento giusto. Dopo aver pubblicato tre romanzi gotici – Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio – sentivo il bisogno di dire qualcosa di reale, di storico, ma che fosse comunque in linea con il mio mondo creativo. Ed Gein non è solo un fatto di cronaca. È una lente deformante sul concetto di madre, di fede, di identità. Il titolo, Il Culto della Madre, non è casuale. È un viaggio dentro una mente spezzata, ma anche dentro una cultura che ha prodotto quel tipo di mostro. E che forse continua a produrli.


Intervistatore – A chi è rivolto questo saggio?

Claudio Bertolotti – A chi ama il true crime, certo. Ma anche a chi cerca un approccio più profondo. Non troverete dettagli morbosi o macabri gratuiti: ho voluto scavare nella psicologia, nell’infanzia, nella religione e nel contesto culturale. Ho scritto questo saggio come se fosse un’indagine. Ma anche come una confessione. Perché alla fine, ogni autore scrive per capire qualcosa di sé. E in Ed Gein, per quanto paradossale possa sembrare, ho ritrovato il lato più oscuro del bisogno di appartenere, di amare, di non essere soli.


Intervistatore – Progetti futuri in ambito saggistico?

Claudio Bertolotti – Sì. Questo è solo l’inizio. Dopo aver rotto il silenzio con Il Culto della Madre, sto già lavorando a nuovi saggi sul rapporto tra crimine, mitologia e religione. Ma continuerò anche con la narrativa gotica. Le due cose non sono in contrasto, anzi: si alimentano a vicenda.


Intervistatore – Una frase per chi sta decidendo se leggere o meno il tuo saggio?

Claudio BertolottiSe pensi di sapere tutto su Ed Gein, ti sbagli. Se credi che sia solo un mostro, ti sbagli ancora di più. Solo entrando nella sua mente, capirai perché il vero orrore non è ciò che ha fatto… ma ciò che lo ha creato.


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Quando l’amore diventa ossessione


Madri, figli e controllo nella mente criminale

C’è un confine sottile, fragile come un filo di seta, tra amore e dominio. Lo si attraversa senza accorgersene, spesso con le migliori intenzioni. È un confine che ho imparato a conoscere studiando la storia di Ed Gein, e che continuo a esplorare nei miei romanzi gotici, dove la devozione si trasforma in prigione e la fede si piega all’ossessione.

Nel caso di Gein, tutto nasce in una casa isolata nel Wisconsin, dove una madre impone al figlio una religione privata, fatta di colpa e castigo. Gli insegna a temere il mondo, a diffidare delle donne, a rifugiarsi solo in lei. Quando quella figura muore, Ed resta solo con i suoi fantasmi… e con l’impossibilità di lasciarla andare.
La madre diventa la sua voce interiore, il suo idolo e la sua condanna.
L’amore si trasforma in idolatria necrotica.

Non è solo follia, è un meccanismo umano e universale: la paura di perdere il controllo sull’unica cosa che ci fa sentire vivi.
Ecco perché storie come questa ci attraggono tanto: perché parlano, in fondo, della nostra fragilità più antica.
Il bisogno di essere amati.

Nei miei romanzi, da Le Ombre di Whitechapel a Il Vangelo delle Ombre, la maternità, la fede e la protezione assumono spesso forme oscure.
Dietro la luce dell’amore si nasconde sempre un’ombra che pretende obbedienza.
E a volte, per liberarsi da essa, serve un atto di distruzione.
È la stessa dinamica che muove Gein, ma anche molti dei miei personaggi: uomini e donne prigionieri di una voce che li chiama “figlio mio”, e che non permette loro di esistere da soli.

Perché l’amore, quando diventa possesso, non salva più. Divora.


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Dal Saggio al Romanzo: due lingue, una sola voce


Quando ho iniziato a scrivere Il Culto della Madre oltre dieci anni fa, non avrei mai immaginato che sarebbe diventato il mio primo saggio pubblicato. È nato da un’urgenza di verità, da un fascino oscuro che mi ha accompagnato per anni, anche mentre iniziavo a muovere i primi passi nel mondo della narrativa gotica.

Sì, perché il mio primo romanzo l’ho scritto circa 5 anni fa, e da allora non mi sono più fermato. Ma quel saggio, iniziato molto prima, mi ha sempre seguito come un’ombra. E oggi capisco che questi due percorsi — il saggio e il romanzo — non sono così lontani come sembrano.


Il romanzo: evocare

Nella narrativa, il mio compito è evocare. Raccontare senza spiegare tutto, lasciare zone d’ombra, costruire un’atmosfera che dialoga con il lettore a livello emotivo. Un dettaglio descritto al momento giusto può valere più di mille analisi. Posso usare simboli, metafore, sogni, visioni. L’ambiguità è un alleato.

Il lettore, in fondo, è un complice. Legge perché vuole immergersi, perché vuole sentire il respiro di Edgar Blackwood nelle nebbie di Whitechapel o nelle cripte dimenticate di Hollowgate. Non devo convincerlo di nulla, devo solo farlo sentire.


Il saggio: dimostrare

Nel saggio, tutto cambia. Devo essere lucido, preciso, responsabile. Non si tratta più di evocare, ma di dimostrare. Le parole devono avere un peso documentale. Ogni affermazione dev’essere sostenuta da fonti, testimonianze, prove. Non posso lasciarmi andare alla suggestione, ma nemmeno scrivere un freddo resoconto tecnico. Devo raccontare una storia vera… senza tradirla, e senza ingannare il lettore.

È come camminare in equilibrio tra etica e stile.
Tra cronaca e riflessione.
Tra rispetto e narrazione.


Un horror vero fa più paura

Paradossalmente, scrivere un saggio come Il Culto della Madre è stato più disturbante che descrivere rituali occulti o possessioni letterarie. Perché stavolta, tutto ciò che raccontavo è accaduto davvero.

Non c’è metafora. Non c’è filtro gotico.
C’è solo un uomo reale, fragile, disturbato, che ha vissuto con i cadaveri, che ha trasformato la follia in rituale, che ha fatto della madre il proprio culto personale.

Eppure, anche in quel delirio, ho sentito riecheggiare qualcosa dei miei romanzi: lo sguardo interiore, l’ombra come simbolo, il desiderio (fallito) di controllare la morte. Forse è proprio lì il punto di contatto tra il mio stile gotico e il saggio: la necessità di guardare il Male negli occhi, anche quando non possiamo spiegarlo.


Due linguaggi, un’unica voce

Alla fine, scrivere narrativa e scrivere saggistica non sono due mondi separati. Sono due strumenti diversi per raccontare ciò che ci ossessiona. Con uno costruisco mondi. Con l’altro, li decifro.

Ma in entrambi i casi, ciò che muove la mia scrittura è sempre la stessa cosa:
la volontà di scavare nell’oscurità dell’essere umano, senza cercare risposte semplici. Solo domande vere.


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Dietro il Mito di Ed Gein: L’uomo oltre il mostro


Quando si sente il nome Ed Gein, l’immaginario collettivo corre subito a film horror, maschere di pelle umana, case degli orrori. Ma quanto c’è di vero dietro la leggenda? E soprattutto: chi era davvero l’uomo dietro il mito?
Per scrivere “Il Culto della Madre”, ho deciso di spogliarlo dai sensazionalismi, dalle fantasie morbose e dai filtri cinematografici. Quello che emerge è un individuo fragile, disturbato, vittima a sua volta di una madre manipolatrice e di un ambiente isolato e patologico.

Una figura lontana dal killer cinematografico

Contrariamente a quanto si pensa, Ed Gein non fu mai un serial killer nel senso tradizionale. Venne condannato per due omicidi accertati, ma il vero orrore fu ciò che si scoprì nella sua abitazione a Plainfield nel 1957: corpi dissepolti, resti umani manipolati, oggetti ricavati dalla pelle delle vittime.
Gein non uccideva per piacere o per sadismo. Le sue azioni erano l’espressione tragica di una psicosi profonda, di un disturbo dell’identità sessuale, e soprattutto, del trauma mai risolto legato alla madre Augusta.

Un contesto di abbandono e silenzi

Il piccolo Ed crebbe in una fattoria isolata, in Wisconsin, con una madre fanatica religiosa, che lo convinceva che le donne (tutte tranne lei) erano creature malvagie, e che il peccato si annidava ovunque. Il padre, alcolizzato e assente, morì quando Ed era adolescente. Poco dopo, perse anche il fratello.
Quando Augusta morì, il mondo di Gein collassò. Da quel momento, iniziò la deriva mentale: la casa venne trasformata in un tempio macabro dedicato alla madre, Ed conservava i suoi oggetti, chiudeva le stanze come reliquie, e si rifugiava in fantasie di resurrezione.

L’uomo che non voleva fare male… ma l’ha fatto

Molti lo descrissero come mite, gentile, quasi infantile. Non era il mostro urlante di Leatherface. Era uno spettro umano consumato dal delirio, dalla solitudine e da una sessualità repressa e contorta.
Questo non lo giustifica. Ma lo umanizza, e ci pone una domanda difficile: Cosa genera davvero l’orrore? Una mente malata? Una società che non vede? O una combinazione di entrambe?

Perché è importante raccontare la verità

Scrivere di Ed Gein non è stato semplice. Ma era necessario. Il mio saggio nasce proprio da qui: dal desiderio di fare luce storica su un caso trasformato nel tempo in leggenda nera, restituendo alla realtà – cruda e disturbante – la sua complessità.
Raccontare Gein non significa assolvere, ma capire. E in fondo, è proprio la comprensione ciò che più spaventa: perché ci costringe a guardarci dentro.


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