Ed Gein: cosa ci racconta davvero la sua mente?


Psicopatologia e simbolismo tra realtà e abisso

“Non era pazzo. O almeno non nel modo in cui lo intendiamo.”
Questa è una delle frasi più inquietanti pronunciate da uno psichiatra chiamato a valutare Ed Gein, l’uomo che, con la sua follia rurale e il culto morboso per la madre, ha ispirato decine di figure dell’orrore moderno: Norman Bates, Leatherface, Buffalo Bill.

Ma al di là del sensazionalismo, chi era davvero Ed Gein?

Dissociazione e rituale

Secondo i referti psichiatrici redatti dopo il suo arresto nel 1957, Gein soffriva di schizofrenia paranoide con forti componenti dissociative. Ma ciò che colpì gli analisti non fu solo la patologia, bensì la struttura rituale che permeava ogni sua azione:

  • la scelta delle vittime
  • l’uso dei corpi per creare “oggetti” (maschere, abiti, arredi)
  • la conservazione ossessiva dei resti

Tutto in lui obbediva a una logica simbolica disturbata, non a un impulso caotico. Ed Gein non uccideva per godimento. Uccideva per ricostruire un altare alla madre. Perché lei tornasse.

La madre come centro del cosmo

Augusta Gein era tutto per lui: figura religiosa fanatica, ossessiva, manipolatrice. Le sue parole — “tutte le donne sono peccatrici” — si scolpirono nella mente del figlio come un dogma ineluttabile. Quando morì, Ed Gein restò solo con Dio e con i cadaveri.

Nel tempo, cominciò a ricostruire un mondo materno fatto di pelle, ossa, abiti ricuciti. Voleva rivestirsi della madre, diventare la madre.
In questo senso, il delitto per Gein non era fine a sé stesso, ma un mezzo per colmare un’assenza cosmica, una ferita metafisica.

Il significato profondo dell’orrore

Gein non è un semplice assassino. È un simbolo.
Un archetipo dell’uomo che, di fronte alla perdita, cerca di manipolare la morte attraverso riti, oggetti e simboli. Un uomo che, privato di identità, usa il corpo dell’altro per tentare di ritrovare sé stesso.

Nella sua follia, non c’è disordine. C’è struttura, c’è culto.
Un culto privato, oscuro, in cui la madre diventa divinità, e l’omicidio un’offerta sacra.

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Mondi narrativi condivisi: come nasce un universo gotico coerente?


Dietro le quinte dell’Archivio Blackwood e delle future trilogie

Nel cuore di ogni saga gotica c’è un elemento invisibile, eppure fondamentale: la coerenza dell’universo narrativo.
Non basta creare atmosfere cupe, personaggi inquieti o misteri irrisolti. Serve una struttura invisibile ma solida, fatta di regole, riferimenti interni, luoghi ricorrenti e cronologie condivise.
Solo così il lettore potrà sentirsi dentro un mondo, non semplicemente davanti a una storia.

L’Archivio Blackwood: un mosaico di oscurità

Nato con Le Ombre di Whitechapel e sviluppato in Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio, l’Archivio Blackwood è molto più di una semplice trilogia.
È una rete di indagini, eventi, alleanze e segreti, distribuita su più anni, più casi e più livelli.
Ogni volume ha una sua autonomia, ma tutti contribuiscono a un quadro più ampio:

  • le apparizioni ricorrenti di determinati simboli
  • le connessioni sotterranee tra personaggi
  • gli eventi passati che tornano a tormentare il presente
  • i riferimenti a “dossier”, “documenti interdetti” e “interludi” che ampliano la narrazione

Ogni dettaglio — anche il più piccolo — viene archiviato, etichettato e ripreso al momento giusto.
Come in un vero archivio segreto.

Le nuove trilogie: espandere senza contraddirsi

L’universo si espande con nuove linee temporali, nuovi protagonisti, nuove derive del Male.
Ma la regola rimane: coerenza totale.
Ogni trilogia futura avrà una sua anima — epica, religiosa, medica, folklorica — ma resterà compatibile con l’atmosfera, lo stile e le implicazioni dell’universo Blackwood.

Ad esempio:

  • Il Sangue… (no spoiler!) esplorerà le origini del mito di Dracula, ma filtrate attraverso lo sguardo di un medico ossessionato, legato a un ordine segreto.
  • L’Abisso… sarà una spirale temporale in una casa “affamata di tempo”, con apparizioni e cronologie impazzite.
  • La Muta… tornerà indietro nel tempo per raccontare il primo caso mai affrontato da Edgar Blackwood, e i traumi che lo hanno segnato.

Il dietro le quinte: come si costruisce tutto questo?

  • Timeline centralizzata: ogni evento è collocato su una mappa temporale principale. Nulla è casuale.
  • Archivio dei personaggi: ogni figura, anche secondaria, ha una scheda evolutiva. Così può tornare (o scomparire) in modo credibile.
  • Lessico coerente: certi nomi, certi concetti, certi oggetti ricorrono. Sono le “parole chiave” di un mondo.
  • Simboli e mitologie originali: come nei miti antichi, il linguaggio del Male (e del Bene) ha codici visivi e rituali precisi. Viene creato a monte, e poi declinato nei romanzi.

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Spiriti e superstizioni inglesi: cosa credevano davvero nel 1800?


In un’epoca in cui la scienza muoveva i primi passi verso la modernità, Londra era ancora un luogo di nebbia, superstizione e terrore quotidiano.

Non si trattava solo di paura dell’ignoto: nella Londra vittoriana, l’invisibile era ovunque. In ogni scricchiolio del pavimento, in ogni finestra illuminata dopo la mezzanotte, in ogni croce appesa nelle stanze dei poveri, c’era la sensazione concreta che qualcosa — o qualcuno — potesse osservare da un’altra dimensione.

La casa infestata non era un mito

Nel XIX secolo, centinaia di case londinesi erano ufficialmente considerate “infestate”, tanto da influenzare il valore degli immobili. Le cronache dell’epoca parlano di ombre nei corridoi, oggetti che si muovevano da soli e, soprattutto, “colpi alle pareti senza causa apparente”. Molti appartamenti venivano benedetti da preti o svuotati dopo notti troppo lunghe.

Alcune famiglie arrivavano a murare le stanze, pur di non sentire più le voci.

Il fazzoletto nero sullo specchio

Una delle superstizioni più diffuse riguardava gli specchi: quando qualcuno moriva in casa, lo specchio veniva coperto o voltato verso il muro. Si credeva che l’anima potesse restarvi imprigionata, oppure che l’entità della morte potesse “passare” attraverso il riflesso.

Un gesto semplice, quotidiano, ma profondamente simbolico.

Il sangue dei morti parlava

Nel folklore inglese, il sangue delle vittime di omicidio non giaceva mai in silenzio. Secondo una credenza popolare, se l’assassino si avvicinava al corpo, il sangue avrebbe “ribollito”, emettendo un suono sordo. In alcuni villaggi, questo era sufficiente per accusare qualcuno, ben prima dell’arrivo della polizia scientifica.

Candele, sali e protezioni

In molte abitazioni, venivano lasciate candele accese alle finestre per “illuminare la via ai defunti”, soprattutto in novembre. Altre famiglie spargevano sale agli angoli della casa o sotto il letto, convinte che potesse fermare spiriti erranti o entità maligne. In certi casi, si dormiva con una Bibbia sotto il cuscino o una chiave d’argento al collo.


Ancora oggi, nei romanzi gotici ambientati nell’Inghilterra ottocentesca — come L’Archivio Blackwoodqueste credenze non sono solo dettagli d’epoca: sono il cuore pulsante della paura. Perché l’orrore più potente nasce quando il passato non smette di parlare.


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Come nasce un mostro: infanzia, isolamento e delirio nella mente di un assassino


Non basta un crimine efferato per creare un mostro. A volte, il mostro non nasce: si costruisce nel silenzio di una casa isolata, tra parole sussurrate all’orecchio da una madre possessiva e il lento disfacimento della realtà.

Questa è la premessa inquietante da cui prende vita il viaggio psicologico e narrativo de Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana. Ma al di là del caso Gein, resta aperta una domanda che continua ad affascinare e inquietare lettori, criminologi e narratori: come si arriva a compiere l’orrore?

Il mostro non nasce: si plasma

Ogni serial killer ha una storia. Ma non tutte le storie portano al sangue.

Nel caso di Ed Gein, l’origine del male sembra annidarsi in un ambiente familiare chiuso, claustrofobico, dove la religione veniva usata come strumento di colpa e controllo, e dove il mondo esterno era considerato impuro. È l’infanzia il terreno fertile in cui attecchisce la radice del delirio: quando il legame con la madre diventa assoluto, totalizzante, insostituibile.

Il bambino Ed cresce in un mondo dove tutto è peccato, tranne la devozione a colei che ha il potere di benedire o maledire. Un mondo in cui le emozioni vengono represse, la sessualità demonizzata, la libertà annientata.

Isolamento e rimozione

La fattoria dei Gein non è solo un luogo fisico, ma una prigione mentale. Il progressivo isolamento da tutto e da tutti genera una frattura interiore. La realtà diventa elastica, sostituibile. La morte non è più un limite, ma un’interruzione temporanea del legame.

È così che, nel tempo, la mente può arrivare a colmare l’assenza con il rituale, il delirio, la ricostruzione dell’amato perduto. Non per sadismo, non per crudeltà, ma per necessità simbolica.

Il delirio come unico linguaggio

Ciò che per l’osservatore è follia, per chi la vive può diventare coerenza. Nel caso di Gein, il culto della madre si trasforma in azione concreta: non per uccidere, ma per “riportare ordine” nella propria visione distorta del mondo.

Questo meccanismo di rielaborazione patologica della perdita, unito a disturbi psicotici gravi e all’assenza di qualsiasi rete sociale o affettiva, porta alla costruzione del “mostro” che la cronaca ha reso famoso. Ma il vero orrore non è nel sangue: è nella logica contorta ma perfetta che guida la sua mente.

Una domanda senza risposta

Alla fine, resta l’interrogativo che accompagna ogni lettura di true crime: può succedere ancora? E può succedere ovunque?
Finché esisteranno solitudini, silenzi e infanzie negate, forse sì.

Il Culto della Madre non offre risposte, ma accompagna il lettore in un viaggio disturbante dove l’orrore non è solo nel crimine… ma nel contesto che lo ha generato.


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Quando la realtà supera l’incubo: 5 case dell’orrore che hanno ispirato libri e film


C’è qualcosa nelle case abbandonate che ci attrae e ci respinge allo stesso tempo. Forse è la promessa di un mistero sepolto sotto il pavimento, o quel silenzio pesante che sembra nascondere grida lontane. Ma alcune abitazioni non hanno bisogno della fantasia per essere spaventose. Sono reali, documentate, teatro di indicibili atrocità. E proprio per questo, sono diventate il cuore pulsante di romanzi, film e leggende.

Ecco cinque case dell’orrore realmente esistite, dove la cronaca ha incontrato l’incubo. Luoghi dove la morte ha lasciato il segno, ispirando intere generazioni di scrittori, registi e lettori.


1. La casa di Ed Gein – Plainfield, Wisconsin (USA)

Un’abitazione isolata in mezzo ai campi. All’apparenza anonima, quasi banale. Ma al suo interno, gli agenti di polizia scoprirono uno degli orrori più profondi della psiche umana: teschi trasformati in ciotole, maschere di pelle umana, organi essiccati, mobili rivestiti con resti umani.
Gein, affetto da delirio religioso e complesso materno ossessivo, ha ispirato personaggi iconici come Norman Bates, Leatherface e Buffalo Bill.

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2.  La casa di Lizzie Borden – Fall River, Massachusetts

«Lizzie Borden took an axe…» inizia così una filastrocca popolare. L’assassinio del padre e della matrigna con una quarantina di colpi di ascia sconvolse l’America puritana del 1892.
Lizzie fu processata ma mai condannata. La casa, oggi trasformata in B&B, conserva ancora il letto insanguinato e i mobili originali.
Un luogo impregnato di non detti, isteria collettiva e fantasmi del patriarcato.


3.  Il Castello di H. H. Holmes – Chicago

Durante l’Expo del 1893, Henry Howard Holmes costruì un “hotel” pieno di passaggi segreti, stanze senza uscite, botole e camere a gas.
Il primo serial killer “ingegnere del male”, Holmes progettò un edificio pensato per la tortura, la morte e la dissoluzione dei corpi.
La stampa dell’epoca lo battezzò “The Murder Castle”.
L’edificio venne demolito, ma la sua ombra aleggia ancora su Chicago e nelle pagine di molti romanzi gotici americani.


4. La casa di Amityville – New York

Resa celebre dai Warren e dalla serie di film horror, la casa di Amityville fu teatro di un massacro nel 1974, quando Ronald DeFeo Jr. uccise tutta la sua famiglia.
Successivamente, i nuovi inquilini dichiararono di aver vissuto fenomeni paranormali: voci, odori nauseanti, crocifissi capovolti.
Molti elementi furono poi contestati o rivelati come invenzioni, ma la casa è diventata il simbolo moderno della casa infestata per eccellenza.


5. La prigione di Moorside – Yorkshire, Regno Unito

Non una casa, ma una villa-prigione trasformata da Ian Brady e Myra Hindley in luogo di sevizie, torture e omicidi su minori.
Tra gli anni ’60 e ’70, i due portarono avanti una serie di crimini che ancora oggi scuotono l’Inghilterra.
La casa fu demolita per volontà pubblica, ma le registrazioni delle confessioni e le fotografie degli ambienti restano nei fascicoli della polizia come prova vivente del Male banale.


Conclusione

Queste case non fanno paura per ciò che promettono… ma per ciò che è realmente accaduto.
Non servono demoni o fantasmi quando l’essere umano è capace di generare l’orrore più profondo.
Ed è proprio in questo spazio ambiguo tra realtà e finzione che nasce la mia scrittura: laddove il crimine diventa specchio dell’anima, e l’orrore è reale.


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Quando l’orrore è reale: perché leggere true crime oggi?


Viviamo in un’epoca in cui l’intrattenimento si nutre di paura, e la paura – paradossalmente – ci attrae. Ma mentre fiction, horror e thriller ci offrono una via di fuga nell’immaginario, esiste un genere che invece ci costringe a restare nella realtà, a guardarne il volto più disturbante, più crudo, più autentico: il true crime.

Non è una moda. Non è solo voyeurismo.
È qualcosa di più profondo.


Lettori dell’abisso

Chi legge true crime non è necessariamente attratto dalla violenza, ma dalla necessità di capire.
Capire perché accade l’orrore.
Capire come una mente possa frantumarsi fino al punto di non ritorno.
Capire dove la società ha fallito, nascosto, ignorato.

C’è chi guarda queste storie con sospetto, come se leggessimo per compiacere un gusto morboso. Ma la verità è che il true crime non coccola il lettore.
Lo mette a disagio. Lo sfida. Lo obbliga a confrontarsi con domande scomode.
E a volte, lo cambia.


Il fascino del reale

Il successo di documentari come Making a Murderer, Don’t F**k With Cats o podcast come Serial dimostra che oggi abbiamo fame di verità, anche quando è disturbante.
Perché leggere un libro sul caso Ed Gein – ad esempio – è diverso dal guardare un film ispirato a lui.
Nella narrazione romanzata puoi chiudere gli occhi.
Nel true crime no.

Quando l’orrore è reale, ogni dettaglio ha un peso.
Ogni omissione conta. Ogni parola pronunciata in tribunale è una fessura nella coscienza collettiva.


Leggere per ricordare

Leggere true crime significa anche ricordare chi è stato dimenticato.
Le vittime che non hanno avuto voce.
Le famiglie lasciate nel vuoto.
Le epoche che hanno preferito l’oblio alla verità.

E allora leggere questi libri – anche se faticosi, anche se spiazzanti – diventa un atto di memoria, di responsabilità.
Non si tratta di glorificare il male.
Si tratta di interrogarlo.
Di conoscerlo per riconoscerlo, quando tenta di tornare sotto nuove forme.


Il culto della madre. Ed Gein e l’orrore nella mente umana

Questo è il motivo per cui ho scritto questo libro.
Non per raccontare l’ennesimo “mostro”, ma per entrare in quel vuoto psicologico e culturale che ha permesso a una storia del genere di accadere.

Perché Ed Gein non è solo un nome da cinema.
È il prodotto di una solitudine malata, di un’educazione distorta, di una devozione spinta all’estremo.
E, purtroppo, non è un caso isolato.


Leggere true crime, oggi, non è un vezzo. È una scelta consapevole.
È affrontare le paure del mondo reale con la mente aperta, il cuore saldo, e il desiderio di non ignorare.
Perché finché continueremo a raccontare l’orrore, forse, potremo impedirgli di diventare silenzio.


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Lizzie Borden – Parricidio, isteria e moralismo americano


Tra le tante storie oscure che hanno marchiato la memoria collettiva americana, quella di Lizzie Borden resta una delle più enigmatiche, disturbanti e affascinanti. Non solo per l’atrocità del delitto, ma per tutto ciò che si muove attorno al silenzio, alle omissioni, alle reazioni di un’intera società.
Un caso di cronaca nera diventato specchio distorto dell’America puritana di fine Ottocento.

Da mesi sto approfondendo le fonti storiche, giornalistiche e psicologiche che ruotano attorno a questa figura, così sospesa tra realtà e mito. Ogni documento che riemerge, ogni fotografia, ogni ritaglio di giornale dell’epoca pare raccontare qualcosa di più profondo di un semplice omicidio: una crepa nel perbenismo di un’intera nazione.

Lizzie Borden fu solo un capro espiatorio? Una vittima di isteria collettiva? O davvero incarnava una forma di ribellione nascosta, tutta al femminile, in un mondo che la voleva silenziosa e devota?
Sono domande a cui la storia non ha mai dato una risposta definitiva. Ed è proprio questo a renderla ancora viva.

Non svelerò nulla, per ora. Ma posso dirti che sto lavorando a un nuovo progetto che toccherà proprio questi temi: parricidio, repressione sessuale, moralismo religioso e isteria sociale.
Un libro narrativo che non si limita a ricostruire il crimine, ma ne esplora le ombre psicologiche e culturali, restituendo al lettore il clima malato e ambivalente della Fall River del 1892.

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Le Lettere Nere: tra superstizione e verità


Certe storie iniziano a scriversi molto prima che qualcuno decida di raccontarle.
Le Lettere Nere sono una di quelle storie.

Chi ha seguito le indagini di Blackwood sa che ci sono misteri ancora più antichi degli omicidi, dei culti o delle reliquie. Voci che circolano negli archivi sigillati, negli appunti cancellati, nei margini di un passato che nessuno ha mai osato sfogliare del tutto. È lì che vivono le Lettere Nere.

Non sono ancora apparse, non ancora. Ma ci sono indizi, dettagli lasciati apposta come briciole in una casa stregata. Chi conosce bene il sottosuolo della saga, sa che qualcosa sta arrivando.

Le Lettere Nere non sono messaggi qualunque. Sono parole che aprono portali, scritte con mani tremanti e inchiostro che non sbiadisce. Ogni lettera è un sussurro che sopravvive al tempo, un codice che collega morti distanti, visioni frammentarie, e verità sepolte.

Nel Prequel della saga, per la prima volta scopriremo la loro origine. La loro prima vittima. E soprattutto, chi o cosa le scrive davvero.

Perché una cosa è certa: non sono semplici lettere. Sono avvertimenti.
E non sempre chi li riceve è ancora in tempo per cambiare il proprio destino.


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La casa degli orrori


Esplorazione simbolica della fattoria di Ed Gein

C’è un’immagine che resiste, più di ogni altra, quando si nomina il nome di Ed Gein: una casa solitaria, immersa nella neve, con le finestre cieche e una porta che sembra trattenere il respiro.
Non è solo una casa. È un organismo chiuso, un ventre, un altare, un carcere. È la mappa mentale dell’uomo che l’ha abitata.
E forse, in qualche modo oscuro, anche la nostra.


La casa come proiezione mentale

Situata nel Wisconsin, la fattoria di Ed Gein non era nulla di speciale all’apparenza: due piani di legno sbiadito, un piccolo portico, un granaio e un capanno degli attrezzi. Ma ciò che avveniva dentro – e ciò che venne scoperto nel 1957 – trasformò quel luogo in una leggenda dell’orrore.

Ogni stanza sembrava appartenere a un’identità diversa: c’era quella vissuta, disordinata, dove Ed mangiava e dormiva, circondato da resti umani, giornali, riviste, pezzi di bambole e oggetti impensabili.
E poi c’era quella sigillata, la camera della madre, rimasta intatta per anni, come se il tempo dovesse fermarsi alla sua morte. Polvere, tessuti ingialliti, odore di chiuso e preghiere mai ascoltate.


La conservazione come culto

Quello che Ed fece nel tempo fu ricostruire la madre attraverso oggetti e parti di corpo: una sedia foderata di pelle umana, maschere ricavate da volti di donne defunte, cinture fatte di capezzoli, un grembiule di pelle femminile.

Non c’era solo necrofilia o squilibrio. C’era un disegno simbolico, per quanto aberrante: riportare Augusta in vita, possederla, ricrearla, dominare la sua figura sacra e terrificante.

La casa diventò un tempio profanato, un luogo dove sacro e osceno si confondevano, dove la religione veniva piegata alle pulsioni più antiche.


Ogni stanza un confine

Visitare – anche solo con l’immaginazione – quella casa significa attraversare i livelli di una mente fratturata. Ogni ambiente corrisponde a uno stadio della psicosi:

  • Il soggiorno: caotico, delirante, contaminato dal presente.
  • La cucina: luogo del nutrimento e dell’orrore fuso insieme (ricordiamo che Ed conservava organi umani in barattoli).
  • La camera della madre: santuario inaccessibile, memoria intoccabile.
  • Il seminterrato: zona sepolta, prelogica, sede del rituale.

Quando un luogo diventa simbolo

La fattoria di Ed Gein venne data alle fiamme nel 1958, probabilmente da un cittadino indignato. Eppure, la casa non è mai scomparsa: è diventata archetipo del Male domestico, è finita nel subconscio collettivo, citata da Psycho, Non aprite quella porta, Il silenzio degli innocenti.

Come se avessimo bisogno di un luogo fisico per collocare le nostre paure, per renderle tangibili.

E così, la casa non è più solo la casa di Ed.
È la casa del Male possibile, quel Male che, forse, abita a una distanza più breve di quanto vorremmo credere.


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Dalla cronaca alla leggenda: come Ed Gein ha cambiato la cultura horror


C’era una volta un uomo silenzioso, schivo, ai margini di una comunità già isolata nel cuore del Wisconsin. Il suo nome era Ed Gein, e la sua storia avrebbe cambiato per sempre non solo la cronaca nera americana, ma l’immaginario dell’orrore mondiale.

Un caso isolato, un’eco infinita

Nel novembre del 1957, la polizia di Plainfield entrò nella fattoria di Gein per cercare una donna scomparsa. Quello che trovarono fu oltre ogni possibilità di previsione: resti umani conservati in modi impensabili, maschere fatte con pelle umana, teschi trasformati in ciotole, organi conservati nei barattoli. E una realtà psicologica ben più disturbante.

La fattoria di Gein divenne subito il nuovo castello di Dracula, ma reale, tangibile, americana. Da quel momento, l’horror non sarebbe stato più lo stesso.


L’alba di un nuovo incubo: il cinema cambia volto

Non c’era bisogno di inventare mostri: Gein lo aveva dimostrato. Bastava guardare l’umanità più disturbata.

Tra gli anni ’60 e ’80, il caso Gein diventò ispirazione diretta per personaggi iconici:

  • Norman Bates in Psycho (Robert Bloch – 1959, Hitchcock – 1960): come Gein, vive con l’ombra ossessiva della madre morta, incapace di distinguere realtà e allucinazione.
  • Leatherface in Non aprite quella porta (Tobe Hooper – 1974): ispirato all’uso che Gein faceva dei corpi, compresa la maschera di pelle umana.
  • Buffalo Bill in Il silenzio degli innocenti (Jonathan Demme – 1991): come Gein, si veste con pelle umana, cercando una trasformazione identitaria estrema.

Da qui, il filone del serial killer disturbato dalla madre, immerso in un’ambientazione claustrofobica e rurale, diventò un sottogenere.


Oltre il sangue: l’eredità psichica

Quello che fa paura non è la violenza in sé. È la normalità che la precede. Ed Gein non era un assassino seriale nel senso classico: ha ucciso solo due persone (accertate), ma ha profanato decine di tombe per motivi che univano trauma, psicosi, superstizione e delirio religioso.

In lui, il confine tra malattia mentale e male assoluto si fa sottile. Ed è proprio qui che il cinema, la letteratura e il true crime hanno trovato la loro linfa: nella zona d’ombra tra follia e colpa, tra dolore e depravazione.


Gein oggi: tra verità e mito

Nel mio libro “Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”, ho cercato di fare chiarezza, andando oltre le leggende.

Ho studiato i documenti originali, le perizie, le interviste e i rapporti ufficiali. Quello che emerge non è un mostro, ma un uomo devastato, cresciuto sotto l’influenza totalizzante di una madre fanatica e in un isolamento patologico.

Ed è proprio questo che ci inquieta: non il sangue. Ma il fatto che potrebbe succedere ancora. In una casa qualunque, dietro una porta chiusa. Basta un seme malato in un terreno già fragile.


Conclusione

Ed Gein ha cambiato la cultura horror perché ci ha costretti a guardare il male senza maschere sovrannaturali, ma con la carne della realtà. Il suo caso ha generato miti, ma soprattutto ha creato una nuova paura: quella di ciò che si nasconde nell’ordinario.


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