C’è un’idea profondamente sbagliata che circola da anni: quella secondo cui il lettore vada sempre accompagnato, rassicurato, protetto. Come se la narrativa fosse una stanza imbottita, dove nulla può ferire davvero.
Non è così. E non dovrebbe esserlo.
Ci sono storie che devono mettere a disagio. Non per provocazione gratuita, ma perché parlano di zone dell’essere umano che non sono ordinate, né sicure, né spiegabili con facilità. Il disagio non è un errore di scrittura: è spesso il segnale che qualcosa sta funzionando.
Il problema nasce quando si confonde il disagio con l’eccesso. Mostrare tutto, spiegare tutto, giustificare tutto. In quel momento il lettore non è più inquieto: è anestetizzato. L’orrore vero non urla. Rimane. Si deposita. Fa compagnia anche dopo l’ultima pagina.
Un lettore a disagio è un lettore coinvolto. È qualcuno che non può voltare pagina senza sentire una frizione interna. Una domanda irrisolta. Un’ombra che non trova subito un nome.
Nel gotico, nel noir, nel saggio narrativo, il disagio è uno strumento etico. Serve a ricordare che il Male non è sempre altro da noi. Che spesso abita luoghi comuni, case normali, gesti ripetuti. Spiegare troppo significa assolvere. Rassicurare troppo significa banalizzare.
Non tutte le storie devono far stare bene. Alcune devono restare addosso.
Se un lettore chiude un libro sentendosi leggermente fuori posto, allora forse ha letto qualcosa di onesto. E l’onestà, in letteratura, raramente è confortevole.
C’è un equivoco diffuso nella narrativa contemporanea: l’idea che il lettore debba uscire dalla storia rassicurato, con tutto spiegato, ordinato, ricondotto a una causa chiara. Come se il Male fosse accettabile solo quando diventa comprensibile.
Ma il Male non chiede permesso. E soprattutto non spiega sé stesso.
Scriverlo significa spesso resistere alla tentazione di giustificare, di chiudere il cerchio, di offrire una spiegazione psicologica o morale che rimetta tutto al suo posto. Ogni spiegazione è una forma di controllo. Ogni controllo è una carezza. E non tutte le storie hanno il diritto — o il dovere — di accarezzare.
Il gotico, l’orrore, il vero perturbante funzionano perché lasciano una crepa aperta. Un gesto inspiegabile, una scelta che non trova redenzione, una presenza che non viene decifrata fino in fondo. Quando tutto è chiarito, l’inquietudine muore. Quando resta qualcosa di irrisolto, il Male continua a respirare.
Il lettore non va sempre protetto. A volte va messo davanti a qualcosa che non può sistemare.
Scrivere senza spiegazioni rassicuranti non significa essere gratuiti o confusi. Significa scegliere consapevolmente di non trasformare l’orrore in una lezione morale o in un caso clinico. Significa accettare che alcune storie non chiudano, ma restino addosso.
Perché nella realtà il Male non arriva mai con una nota a piè di pagina. Accade. Rimane. E spesso non si lascia capire.
Ed è proprio lì, in quell’assenza di consolazione, che la narrativa smette di intrattenere… e comincia a disturbare davvero.
C’è un errore che si commette spesso quando si parla di orrore: si pensa che nasca dalla violenza. Dal sangue. Dall’atto estremo. In realtà, l’orrore più persistente nasce prima. E rimane dopo.
Nasce nel silenzio.
Il silenzio delle case chiuse. Il silenzio delle stanze inutilizzate. Il silenzio di chi non ha lasciato tracce evidenti, ma solo spazi vuoti.
I casi che continuano a inquietarci — quelli che tornano, che non smettono di essere studiati, raccontati, riscritti — non sono quasi mai i più rumorosi. Non sono quelli che hanno fatto più vittime, né quelli che hanno prodotto più clamore mediatico al momento dei fatti. Sono quelli in cui qualcosa non torna, e non viene mai spiegato del tutto.
Il sangue si asciuga. Il silenzio no.
L’orrore che non urla
Pensiamo ai grandi casi di cronaca nera che hanno superato la loro epoca. Non colpiscono per la spettacolarità dell’atto, ma per ciò che manca: una motivazione chiara, una progressione logica, una confessione liberatoria.
Il vero disagio nasce quando l’orrore non ha voce.
Quando non c’è un manifesto. Quando non c’è un proclama. Quando non c’è un nemico dichiarato.
In questi casi, il male non si presenta come un’esplosione, ma come una sedimentazione. Si accumula negli anni, nei gesti ripetuti, nelle abitudini apparentemente innocue. E quando emerge, lo fa in modo quasi casuale, come se fosse sempre stato lì, in attesa.
Case che parlano troppo piano
Un elemento ritorna spesso nei racconti più disturbanti della storia reale: la casa.
Non come semplice luogo del crimine, ma come prolungamento della mente. Una casa che non racconta nulla apertamente, ma che suggerisce. Trattiene. Nasconde.
Stanze chiuse a chiave. Oggetti lasciati al loro posto per anni. Pareti che non hanno mai sentito una voce alzarsi.
Queste case non gridano. Sussurrano.
Ed è proprio questo sussurro che rende l’orrore persistente. Perché il lettore, lo studioso, l’osservatore, è costretto a colmare i vuoti. A immaginare. A ricostruire.
Il sangue offre una risposta immediata. Il silenzio, no.
Il bisogno umano di spiegare
Di fronte a questi casi, il pubblico reagisce sempre allo stesso modo: cerca una spiegazione definitiva. Una diagnosi. Un’etichetta.
Mostro. Folle. Deviante.
Ma queste parole non servono a comprendere. Servono a chiudere.
Il problema è che certi casi non si lasciano chiudere. Non perché manchino i dati, ma perché i dati non bastano. C’è sempre un residuo. Un’ombra. Una zona grigia che resiste all’analisi.
Ed è proprio lì che nasce l’orrore autentico: nella consapevolezza che non tutto può essere ordinato.
Il silenzio come specchio
Il silenzio, in fondo, non ci spaventa perché è vuoto. Ci spaventa perché riflette.
In assenza di spiegazioni chiare, siamo costretti a guardare noi stessi. A chiederci fino a che punto certi meccanismi siano davvero estranei. A riconoscere che il confine tra normalità e devianza non è una linea netta, ma una zona d’ombra.
L’orrore silenzioso non ci dice “guarda cosa ha fatto”. Ci dice: “guarda cosa è stato possibile”.
E questo è molto più difficile da accettare.
Perché continuiamo a tornare lì
I casi fondati sul silenzio non vengono mai archiviati davvero. Cambiano forma. Cambiano linguaggio. Cambiano medium.
Diventano saggi. Romanzi. Film. Dossier. Ma il nucleo resta intatto.
Perché il silenzio non invecchia. Non perde potenza. Non si consuma.
E ogni volta che qualcuno riapre quelle porte chiuse, non cerca solo la verità storica. Cerca di capire fino a che punto il buio può convivere con l’ordinario.
Questa è la vera domanda che l’orrore ci pone. Ed è una domanda a cui nessun sangue potrà mai rispondere.
Entrare nella casa di Ed Gein non è come attraversare un luogo abbandonato. È più simile a varcare una soglia che nessuno avrebbe mai dovuto riaprire.
Scrivo queste righe in prima persona, come se le stanze fossero ancora in piedi e io potessi toccarne le pareti, respirarne la polvere, ascoltare ciò che non parla ma resta intrappolato nell’aria. Non lo faccio per gusto del macabro, ma perché per comprendere davvero una mente devi farti attraversare dai suoi silenzi.
La porta che non doveva aprirsi
La maniglia è fredda, più di quanto dovrebbe. Appena la giro, la casa sembra trattenere il respiro, come se stesse decidendo se permettermi di entrare o respingermi. Il corridoio è stretto, impregnato di odore di terra umida e qualcosa che ricorda il cuoio vecchio.
Il pavimento scricchiola. Ogni passo sembra un errore.
La luce filtra a fatica dalle finestre sporche, e la polvere danza nell’aria come se avesse una memoria propria. Mi sorprendo a pensare che queste particelle abbiano visto tutto: il silenzio, la solitudine, la devozione ossessiva e il delirio.
La stanza chiusa da anni
La porta della stanza di Augusta — la madre — è l’unica apparentemente intatta. Nessuno entra, nessuno osa sfiorare ciò che Ed conservava come un altare. È la stanza che racconta tutto: la sua fragilità, la sua dipendenza emotiva, il suo crollo mentale dopo la perdita di chi era l’unico punto fermo della sua realtà distorta.
Il letto è perfettamente ordinato. Le tende sono chiuse, eppure so che oltre quei tessuti scoloriti il mondo scorreva, indifferente al disfacimento psicologico che stava maturando dentro queste mura.
Il laboratorio dell’orrore
È questo il punto in cui tremo.
La porta cigola solo quando la spingo con forza. Dentro, l’odore cambia. Qui la polvere non basta a coprire ciò che è stato.
È un luogo che non si descrive facilmente, non perché è troppo macabro, ma perché ogni oggetto pare raccontare un gesto compiuto con ritualità, quasi con devozione. Un tavolo di legno segnato da anni di tagli. Una lampadina nuda che sembra ancora oscillare. E quei silenzi che si attorcigliano come corde… o come lembi di qualcosa che non voglio nominare.
Ed era un uomo che cercava di costruire — letteralmente — ciò che non riusciva più ad avere: sua madre. È questa la radice di tutto. Non la violenza, non la follia spettacolarizzata nei film. La perdita. E il modo terribile, impossibile, insostenibile, in cui ha tentato di colmarla.
Perché scrivere di Ed Gein oggi
Perché ci serve ricordare che il male non nasce dal nulla. Ha sempre un seme, un trauma, una frattura da cui filtra qualcosa che non dovrebbe passare.
Il mio saggio esplora proprio questo: non l’orrore fine a sé stesso, ma l’orrore dentro la mente umana, il punto in cui una persona smette di essere recuperabile e diventa qualcosa di diverso.
Se questo viaggio nella casa di Gein ti ha sfiorato anche solo per un istante, allora sai perché vale la pena leggerlo.
L’immaginario collettivo è pieno di creature impossibili: demoni, entità, fantasmi, presenze che emergono dal buio di qualche luogo dimenticato. Ma la verità, quella che disturba davvero, è molto più semplice e molto più vicina: il peggiore dei mostri non arriva dall’esterno. Nasce dentro l’uomo.
È un concetto che destabilizza perché toglie distanza. A differenza del soprannaturale, che possiamo confinare nella fantasia, l’orrore umano ha un volto, un passato, una logica deformata che sfugge ma non scompare. Il male creato dalla mente umana non è spettacolare, non è epico: è intimo. Ed è proprio questo a renderlo inquietante.
L’uomo può deviare. Può piegare l’affetto in ossessione, la solitudine in rituale, il dolore in culto. Può trasformare ciò che dovrebbe essere quotidiano in qualcosa che non riconosciamo più. Questo tipo di orrore non ha bisogno di magie o creature delle leggende. Vive nei dettagli: una stanza spoglia, un oggetto fuori posto, un silenzio troppo lungo, un gesto ripetuto fino a diventare rituale. Lì nasce la distorsione.
Le storie che si basano su fatti reali — o che esplorano il lato psicologico dell’oscurità — fanno paura perché ci costringono a guardarci allo specchio. Non mostrano l’innaturale: mostrano il possibile. Ci ricordano che la linea che separa l’equilibrio dallo squilibrio è più fragile di quanto vorremmo ammettere. E che una mente umana, sotto pressione, può costruire mondi propri, convinzioni proprie, realtà alternative che diventano tempeste interiori pronte a traboccare.
Ciò che spaventa non è l’ignoto. È il riconoscibile.
È quell’ombra familiare che assume una forma diversa quando la osserviamo più da vicino. È il pensiero che, in fondo, l’abisso non è così distante dalla superficie della normalità.
Questo è il cuore dell’orrore umano: non l’eccezione, ma la possibilità. E ogni volta che leggiamo — o scriviamo — una storia che affonda in questa dimensione, ciò che ci colpisce davvero non è il mostro… ma ciò che rivela di noi, delle nostre fragilità, delle nostre paure, dei labirinti invisibili che tutti portiamo dentro.
Qui trovi Il Culto della Madre Ed Gein e l’orrore nella mente umana
Quando si scrive partendo da fatti realmente accaduti – come nel caso dei miei saggi narrativi su Ed Gein, Lizzie Borden o i casi dimenticati dell’Inghilterra vittoriana – si cammina su una linea sottile: quella che separa la verità storica dalla necessità narrativa. Una linea che può diventare lama, se non si maneggia con attenzione.
La verità: punto di partenza, non di arrivo
La Storia ci offre frammenti: atti processuali, testimonianze, articoli di giornale, verbali lacunosi, dettagli clinici. Ma non sempre ci racconta tutto. Non ci dice cosa provava un assassino nel silenzio della sua stanza, né quali parole non dette hanno cambiato il corso di una confessione. È qui che interviene lo scrittore.
Quando affronto un personaggio storico come Ed Gein, parto da ciò che è verificabile: date, perizie, cronache. Ma dove la documentazione tace – ed è inevitabile che accada – scelgo di evocare, non di inventare. Creo verosimiglianza, non finzione pura.
Verosimile non significa falso
Un lettore attento percepisce la differenza tra chi inventa una scena per spettacolarizzare e chi invece costruisce un ponte narrativo dove le fonti non arrivano. Ad esempio, se riporto un dialogo tra Ed Gein e un investigatore, non lo sto “inventando”: sto traducendo in forma narrativa ciò che il contesto suggerisce, le emozioni ricostruite, la tensione psicologica reale. La finzione, in questi casi, è uno strumento di comprensione, non una bugia.
Licenza narrativa: quando è legittima?
La licenza narrativa diventa legittima solo quando non altera i fatti storici fondamentali. Non cambierei mai una data di omicidio, non inventerei mai un crimine non accaduto, né attribuirei a un personaggio reale parole che stravolgano il senso del suo vissuto.
Tuttavia, posso scegliere di ambientare una scena in una stanza vuota e silenziosa anche se il verbale non la descrive. Posso usare immagini, suoni, atmosfere, per far emergere una verità emotiva che i documenti non sanno raccontare. È questa la forza della narrazione storica fatta con rispetto.
Perché scrivo così?
Perché credo che la memoria vada tramandata, non archiviata. Perché un lettore, leggendo Il Culto della Madre o i miei racconti gotici ambientati nel 1888, deve sentire l’odore del tempo, il peso delle decisioni, il sussurro delle parole non dette.
E anche perché il mio compito non è giudicare, ma riportare alla luce. Con rispetto, profondità, e – quando necessario – con la delicatezza dell’immaginazione.
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Ci sono figure criminali che non si limitano a commettere un atto violento: scrivono sul corpo delle vittime, imprimono un messaggio, trasformano la scena del crimine in un linguaggio disturbante e inevitabile. È ciò che accomuna – pur con enormi differenze storiche, psicologiche e culturali – due nomi scolpiti nell’immaginario del macabro: Jack lo Squartatore e Ed Gein.
Il corpo come narrazione del male
In criminologia, il corpo della vittima viene analizzato come un testo: ogni ferita, ogni mancanza, ogni postura racconta qualcosa dell’autore. Non è solo anatomia, è semiotica del delitto.
Jack lo Squartatore usava il corpo per inviare prove di superiorità, dominare l’investigazione, dimostrare controllo.
Ed Gein, al contrario, trasformava il corpo in materia rituale, parte di un mondo interiore deformato da ossessione materna, religione distorta e isolamento sociale.
In entrambi i casi, il cadavere non è più un corpo: diventa un messaggio.
Jack: la chirurgia improvvisata del terrore
Londra, 1888. Nebbia, vicoli, lampioni tremolanti. Jack lo Squartatore non uccideva soltanto: incideva, apriva, esponeva. La disposizione dei corpi, la precisione delle mutilazioni, la scelta delle aree anatomiche… tutto suggeriva un rituale di potere.
Il messaggio era chiaro: “Io vedo. Io decido. Io sfido.”
La narrativa gotica dell’epoca, da Stevenson a Wilde, non era distante: raccontava lo stesso conflitto tra identità e ombra, tra normalità e pulsione inconfessabile.
Gein: quando il corpo diventa oggetto
Salto di mezzo secolo e migliaia di chilometri: Wisconsin, 1957. La casa di Ed Gein non è una scena del crimine, ma un museo dell’ossessione. Qui il corpo smette di essere messaggio per diventare strumento: maschere, cinture, coppe, rivestimenti, reliquie.
Non c’è sfida alla polizia. Non c’è messinscena pubblica. C’è un uomo che usa il corpo come materia prima per ricostruire la figura della madre e placare una solitudine che ha divorato la sua mente.
In criminologia, questo passaggio è decisivo: Jack comunica col mondo; Gein comunica con se stesso.
Due epoche, un’unica domanda: perché?
Narrativa e criminologia si incontrano proprio qui: nella necessità di capire cosa spinge un essere umano a trasformare un altro essere umano in un testo, un trofeo o un simbolo.
Per Jack, il corpo era un palco. Per Gein, un altare. Per entrambi, però, il corpo delle vittime è diventato l’unico linguaggio possibile per esprimere ciò che non poteva essere detto.
E forse per questo, ancora oggi, queste storie ci inquietano più di qualsiasi romanzo: perché mostrano un male che non parla… scrive.
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Chi pensa che basti “scrivere una frase” in un’app di intelligenza artificiale per ottenere una buona immagine, vive un’illusione. La realtà è molto diversa, soprattutto quando si ha un’estetica ben precisa da rispettare. Nel mio caso, ogni immagine che pubblico è il frutto di una precisa progettazione, di un codice visivo coerente con l’universo narrativo dell’Archivio Blackwood e delle regole grafiche che ho fissato nel tempo: gotico, realistico, atmosferico, senza toni verdi o filtri digitali innaturali. Ogni elemento conta.
La scelta dello stile: gotico Lovecraft, realistico, narrativo
Ogni immagine deve evocare un’atmosfera immersiva. Per i miei romanzi utilizzo uno stile gotico-lovecraftiano, con colori profondi, freddi, desaturati, spesso con elementi di nebbia, fumo, luce fioca, ambientazioni vittoriane (Londra, cripte, biblioteche, strade fangose) e una composizione cinematografica.
Le immagini non devono mai sembrare moderne o digitali. Odio le grafiche plasticose, cartoon, fantasy da videogioco: servono texture invecchiate, ombre naturali, superfici imperfette. Per questo, le app vanno guidate con attenzione chirurgica.
Prompt e linguaggio visuale
Creo ogni immagine a partire da prompt lunghi, dettagliati, scritti in inglese. Esempio:
“Victorian London at night, foggy street, gaslamps, dark shadows, carriages, gothic cathedral in the background, realistic style, old stone buildings, wet cobblestone, no modern elements, 19th century”
Aggiungo sempre specifiche su stile, epoca, atmosfera, palette cromatica, eliminando elementi indesiderati con frasi come: “no green filter, no blur, no cartoon, no text”.
Ogni prompt ha bisogno di almeno 4-5 tentativi per trovare il giusto equilibrio. Spesso correggo manualmente le versioni finali per uniformare luci, ombre, colori o ritoccare dettagli fuori tono.
Le app che uso: dalle AI alle rifiniture
Le piattaforme principali sono:
Leonardo AI: molto utile per le composizioni architettoniche e ambientazioni urbane complesse. Va calibrata bene per evitare distorsioni o estetica da fantasy moderno.
Midjourney: quando serve più atmosfera che dettaglio. Ottima per scene nebbiose, visioni oniriche, interni gotici.
Photoshop / Canva / Snapseed: le uso in fase di ritocco per inserire elementi manuali (come il mio LOGO ufficiale), regolare contrasto e saturazione, rimuovere errori evidenti.
Per le copertine dei libri, le immagini devono essere a 600 DPI se stampate, e in formato 7575×5400 px per Amazon. Controllo ogni dettaglio: allineamento, spaziature, centratura, posizione del logo, eventuali testi (solo se richiesti).
Il LOGO e la coerenza visiva
Ogni immagine ufficiale include il mio logo CB Claudio Bertolotti, in basso a destra. Deve essere coerente con l’immagine, ridimensionato ma ben visibile, senza mai essere invasivo. Serve a garantire l’autenticità delle immagini e costruire una firma visiva forte e riconoscibile.
La verità è che ogni immagine è progettata come una piccola scena narrativa. Deve raccontare qualcosa, evocare un dettaglio del libro, o amplificarne l’estetica. Non è un “contenuto da social”: è parte del mondo dell’Archivio Blackwood. E ogni mondo, per funzionare, ha bisogno di coerenza assoluta tra testo e immagine.
Quando si pensa al volto del male nei film horror più iconici, spesso non si sa che dietro quei mostri c’è un nome reale: Ed Gein.
La sua storia — fatta di solitudine, repressione sessuale, culto ossessivo della madre e macabri rituali — ha ispirato alcuni dei personaggi più disturbanti della storia del cinema, trasformandolo in un archetipo del male nascosto dietro volti ordinari.
Norman Bates (Psycho, 1960)
Il primo e più diretto esempio è Norman Bates, protagonista del capolavoro di Alfred Hitchcock. Come Gein, vive isolato con il cadavere imbalsamato della madre, con cui mantiene un dialogo interiore distorto. La “casa su tre livelli” di Psycho richiama la stratificazione mentale: inconscio, conscio e repressione, proprio come nella mente di Ed.
Leatherface (Non aprite quella porta, 1974)
Il personaggio di Leatherface è ispirato all’abitudine di Gein di utilizzare pelle umana per creare maschere e indumenti. Il film, pur spingendosi verso l’eccesso splatter, mantiene l’essenza disturbante di un uomo che ha trasformato il corpo umano in un materiale da lavoro. Il silenzio, la famiglia degenerata e l’ambiente rurale riportano alla Wisconsin di Gein.
Buffalo Bill (Il silenzio degli innocenti, 1991)
In questo caso l’ispirazione è più simbolica. Buffalo Bill scuoia le sue vittime per creare una “seconda pelle” e diventare ciò che desidera. Il tema dell’identità, della pelle come confine tra essere e apparire, ha un legame diretto con Gein e il suo desiderio inconscio di diventare la madre perduta.
L’influenza oltre l’horror
Ed Gein ha lasciato un’impronta anche nella cultura pop, nei fumetti, nei romanzi e persino nei videogiochi. La sua storia ha superato i confini del true crime, diventando un simbolo della paura che nasce dentro casa, in silenzio, senza clamore.
Non era un serial killer classico. Ha ucciso poco, ma ha disturbato profondamente.
E Hollywood ha saputo cogliere quell’abisso e trasformarlo in mito.
Nel mio saggionarrativoIl Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana, esploro proprio questi legami tra realtà e rappresentazione, tra cronaca e immaginario. Un viaggio disturbante, ma necessario, per comprendere da dove nascono davvero i mostri.
C’è un luogo, in Italia, dove l’editoria digitale ha saputo raccogliere ciò che molti consideravano disperso: voci fuori dal coro, racconti disturbanti, narrativa di genere che non chiede il permesso. Quel luogo ha un nome che gli appassionati del fantastico conoscono bene: Delos Digital.
Fondata come evoluzione naturale dell’universo narrativo di Delos Books, questa realtà editoriale ha saputo imporsi nel panorama italiano con un’offerta ricca, specializzata e sorprendentemente accessibile. Ebook agili, curati, in grado di spaziare dal thriller al dark fantasy, dall’horror alla fantascienza più visionaria.
Ma la forza di Delos Digital non è solo nella varietà di collane. È nella sua capacità di dare spazio ad autori con una voce forte, spesso spigolosa, a volte scomoda, ma sempre autentica. È l’unica casa editrice, nel suo genere, capace di pubblicare ebook seriali che costruiscono universi narrativi coerenti, come accade con le grandi collane anglosassoni. E di farlo senza snaturare l’identità dell’autore.
Per me, come autore, è un onore annunciare che una delle mie prossime opere vedrà la luce proprio all’interno di questo catalogo. Un libro che si addentra nei meandri più inquieti della mente umana. Ma per ora, non aggiungerò altro. Solo questo: restate sintonizzati.
Nel frattempo, vi invito a esplorare il mondo di Delos Digital: scoprirete antologie visionarie, saggi coraggiosi, racconti che lasciano cicatrici. Non è solo intrattenimento: è una forma di esplorazione del lato oscuro della letteratura.