Dalla penna al patibolo


I 7 autori più inquietanti della storia (e le loro morti oscure)

C’è un filo nero che collega la mente degli scrittori alla fine che li attende. Alcuni sembrano averlo saputo da sempre. Altri hanno solo raccontato l’oscurità… finché non li ha inghiottiti.
Scrivendo Il Vangelo delle Ombre, mi sono chiesto più volte se il male narrato possa lasciare un’eco reale in chi scrive.
Così ho scavato nei diari, nei giornali dell’epoca, nei testamenti. Quello che ho trovato è un elenco di autori che sembrano usciti dai miei romanzi, non per i libri, ma per la loro vita.

Ecco 7 scrittori realmente vissuti che potrebbero tranquillamente abitare le pagine dell’Archivio Blackwood.


1. Gérard de Nerval – impiccato con una gamba di donna

Poeta visionario, frequentatore di cimiteri e gatti neri. Nerval scriveva di sogni, allucinazioni, anime sdoppiate. Ma una notte del 1855 uscì di casa dicendo: “Sto per entrare nell’ignoto.”
Il giorno dopo fu trovato impiccato con la bretella di un vestito da donna. Nessuno seppe mai spiegare se fu suicidio, delirio o rituale.
Il medico che lo visitò annotò solo: “Aveva un volto sereno, ma era come se avesse già visto ciò che noi ignoriamo.”


2. August Strindberg – lo scrittore che vedeva i demoni

Strindberg è oggi celebrato come un drammaturgo svedese, ma pochi ricordano il suo periodo “alchemico”.
Convinto di essere perseguitato da spiriti malvagi e da una setta segreta, passò anni a scrivere trattati esoterici.
Dormiva con una pistola sotto il cuscino e affermava di vedere facce deformi apparire sui muri.
Morì nel 1912, tra febbri, visioni e profezie mai chiarite.


3. Edgar Allan Poe – la morte perfetta per un suo racconto

Fu trovato a Baltimora nel 1849, con abiti non suoi, delirante, incapace di spiegare cosa gli fosse successo. Morì dopo quattro giorni di agonia.
Mai saputo se fu omicidio, avvelenamento, o una di quelle “coincidenze troppo perfette” per sembrare reali.
Poe aveva scritto spesso di sepolture premature, morte mentale, allucinazioni…
Morì proprio come i suoi personaggi: da solo, parlando con fantasmi che nessuno vedeva.


4. Girolamo Segato – lo scienziato che pietrificava i cadaveri

Non era uno scrittore nel senso classico, ma i suoi diari e appunti sono tra i più macabri mai esistiti.
Nel XIX secolo, Segato sviluppò un metodo per trasformare il corpo umano in pietra.
I suoi “reperti” si trovano ancora oggi a Firenze. Quando morì, portò con sé il segreto, temendo che finisse nelle mani sbagliate.
I suoi scritti sono stati studiati anche per Il Vangelo delle Ombre


5. Robert E. Howard – autore di Conan, ma prigioniero della madre

Creatore del mitico Conan il Barbaro, Howard fu uno scrittore prodigioso. Ma anche un uomo tormentato da dipendenze, incubi e da un legame morboso con la madre malata.
Quando capì che lei stava morendo, salì in macchina, si puntò la pistola alla tempia e sparò.
Morì due giorni dopo… proprio mentre la madre esalava l’ultimo respiro.


6. Georg Trakl – poeta maledetto e il mistero della sorella

Trakl era poeta, farmacista… e forse qualcosa di più oscuro.
Scriveva versi che parlavano di incesto, morte, angeli deformi. Venne trovato morto per overdose in un ospedale da campo durante la Prima Guerra Mondiale.
Molti biografi sospettano una relazione ossessiva con la sorella Grete, anche lei morta in circostanze misteriose.


7. Thomas Ligotti – l’autore che vive come un fantasma

Ancora in vita, ma praticamente invisibile. Ligotti non appare in pubblico, non concede interviste.
Nei suoi racconti, la realtà è solo una maschera appesa al nulla, e l’esistenza un errore cosmico.
Se mai lo incontrassi, lo immaginerei in una stanza chiusa, con tende pesanti e una macchina da scrivere che sputa incubi.
Molti credono che sia il vero erede di Lovecraft. Forse qualcosa di più.


Scrivere dell’orrore, a volte, è come evocarlo.
Ma questi autori non si sono limitati a scriverlo.
Lo hanno vissuto. Lo hanno subito. Alcuni, forse, non ne sono mai usciti.

E tu?
Hai mai letto qualcosa che ti è rimasto dentro… troppo a lungo?


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Accanto a Padre Quinn


L’ho seguito nel buio senza parlare.
Le sue mani tremavano appena, ma non per paura. Per il peso.

Quel genere di peso che non si vede, ma si avverte, come il freddo di una cripta che non si è mai richiusa del tutto.
Padre Marcus Quinn camminava davanti a me, il passo deciso di chi ha già perso tutto eppure continua. Il mantello frustava il vento e nella destra stringeva il rosario, annerito dal tempo, rigido come un’arma. Non era più un prete. Era qualcos’altro. Qualcuno che ha guardato nell’abisso e ha deciso di rientrare, pur sapendo che non ne uscirà.

Voltò lo sguardo una volta sola. Non disse nulla. Non doveva.
Davanti alla casa — quella casa — l’aria era densa di ceneri invisibili.
Il rituale lo stava aspettando.

Io?
Ero lì per assisterlo, ma anche per non farlo restare solo. Perché a volte l’unica difesa contro il Male… è non combatterlo da soli.

Nella stanza dove il soffitto si piegava e il legno scricchiolava come un lamento, Quinn tracciò i simboli con mano ferma. Bruciò una pagina antica, recitò in latino versi che suonavano come minacce. E poi si inginocchiò.
Ma non per pregare.

Per sfidare.

Il Viaggiatore lo stava guardando. E io lo seppi. Non c’era bisogno di vederlo. Lo sentivo in ogni fibra.

Ci sono momenti in cui la fede non è un atto di devozione.
È un’arma.
E Quinn… era pronto a usarla.

Quando uscii da quella casa, qualcosa era cambiato.
Dentro di me.
Dentro di lui.
E dentro il lettore che troverà il coraggio di aprire Il Vangelo delle Ombre.

Perché questo libro non si legge.
Si affronta.


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5 Oggetti Reali Inquietanti Trovati in Case Vittoriane


Certe case non parlano. Sussurrano soltanto… attraverso gli oggetti che vi abitano ancora.

La Londra vittoriana era un teatro di ombre, superstizioni e stranezze. In quel mondo, nulla era davvero solo un oggetto: tutto poteva nascondere un segreto, una maledizione o un ricordo impossibile da cancellare. Nel mio lavoro di ricerca per l’universo di Blackwood, mi sono imbattuto in alcuni reperti davvero esistiti, oggi conservati in musei, collezioni private o semplicemente… dimenticati nei diari del tempo.

Ecco 5 oggetti reali e documentati trovati in abitazioni dell’epoca, oggetti che potrebbero benissimo appartenere all’Archivio Blackwood.


1. Il cuscino con denti da latte cuciti

Nel 1879, a Bethnal Green, durante il restauro di un’abitazione abbandonata, venne trovato un piccolo cuscino imbottito… non di piume, ma di denti da latte cuciti con filo nero. Secondo alcune credenze popolari, cucire i denti proteggeva l’anima del bambino dalla possessione.
O forse, la intrappolava.


2. La Bibbia incisa con capelli umani

Nella zona di Clerkenwell, nel 1883, fu rinvenuta una Bibbia da viaggio le cui pagine recavano incisioni sottili eseguite con capelli intrecciati a punta d’ago. Ogni versetto riportava una data di lutto familiare. Un vero libro del cordoglio privato, dove la fede si confondeva con l’occulto.


3. Lo specchio che non rifletteva le donne

A Whitechapel, un vecchio specchio ottagonale conservato oggi al Museum of London fu al centro di una credenza straziante: non rifletteva il volto delle donne, solo degli uomini. Si scoprì che, in realtà, lo specchio era stato inclinato leggermente verso l’alto per anni. Ma i racconti delle inquiline lo descrivevano come “uno specchio che conosce il peccato”.


4. La bambola cieca con palpebre cucite

Trovata in una soffitta a Limehouse, nel 1891: una bambola di stoffa dai bottoni rimossi e le palpebre cucite con filo rosso. Nessuna spiegazione fu mai trovata, se non una nota: “Non deve guardare”. Alcuni ipotizzarono che appartenesse a un rituale per tenere lontani spiriti maligni.
O per tenerli dentro.


5. Il baule delle ossa

Scoperto nel 1902 durante una demolizione a Seven Dials: un piccolo baule chiuso da due lucchetti arrugginiti, contenente ossa animali miste a resti umani infantili, secondo il referto dell’epoca. Non venne mai aperto pubblicamente: fu confiscato dalla polizia e… sparì.


Perché inserirli nei tuoi racconti?

Ogni oggetto è un frammento narrativo in potenza. Ognuno contiene:

  • Un simbolo (la bambola cieca = ignorare la verità)
  • Un enigma (lo specchio = percezione selettiva)
  • Un trauma (la Bibbia incisa = lutto e colpa)
  • Una possibilità per fare paura senza mostri.

Nel mio romanzo Il Vangelo delle Ombre, questi elementi non sono solo suggestione: diventano porta d’accesso a un altro mondo, e danno forma al Male stesso.
Perché il Male, spesso, indossa il volto dell’abitudine.


Hai mai trovato un oggetto inquietante in una casa antica?

Scrivilo nei commenti o raccontamelo su Instagram o Telegram: potresti ispirare il prossimo caso dell’Archivio…


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Un giorno qualunque nel 1888… o forse no


“Alcuni giorni si lasciano raccontare. Altri si nascondono. Questo, invece, ci ha trovato.”


12 dicembre 1888 – Bethnal Green, Londra

Un uomo cammina lungo Cambridge Road. È l’alba. Porta con sé una borsa di pelle consumata e un piccolo mazzo di fiori secchi.

Dice che è per la moglie.

Dice che l’aspetta ogni giorno, da quando è morta nel 1879.

Ma nessuno gli ha mai chiesto nulla.

Nessuno tranne un ragazzo, stamattina, poco dopo le 6:00.

Gli ha chiesto: “Perché lo fai?”

E l’uomo ha risposto:
“Perché oggi è il giorno in cui torna.”

Poi si è voltato verso la cancellata del cimitero.
E ha sorriso.

Il cancello era già aperto.

Ma nessuno aveva le chiavi.

Né il custode. Né il vicario. Né Scotland Yard.
Eppure, il cimitero era aperto dall’interno.

L’uomo? Mai più visto.
La sua borsa? Trovata vicino a una tomba mai registrata.
I fiori secchi? Disposti a forma di croce rovesciata.

Sul retro della lapide c’era incisa una frase:
“Un giorno qualunque, per chi non ascolta.”


Perché ho scritto questo?

Perché i miei romanzi nascono da notti così.
Da appunti scritti su fogli che nessuno ha mai chiesto.
Da storie come questa, che sembrano finte, ma suonano vere.
Oppure sono vere, ma sembrano scritte.

E tu, lettore, che stai leggendo ora,
dimmi:
sei sicuro che oggi sia solo un giorno qualunque?


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I titoli che ho scartato prima de Il Vangelo delle Ombre


Trovare il titolo giusto per un libro è come cercare il battito del cuore in una stanza buia. Sai che c’è. Ma non basta sentire un rumore. Devi riconoscerlo come quel rumore. Quello giusto. Quello che farà vibrare anche il lettore.

Per Il Vangelo delle Ombre, ho scartato almeno cinque titoli. Alcuni belli. Altri evocativi. Ma nessuno… funzionava davvero.


I titoli scartati (veri)

1. “Il Libro del Vuoto”
Suonava bene. Era cupo, denso, persino un po’ mistico. Ma era anche troppo astratto, troppo filosofico. E il romanzo non è solo vuoto. È pieno. Di sangue. Di ricordi. Di segreti.

2. “La Croce Nascosta”
Un titolo forte, simbolico, quasi biblico. Ma sembrava anticipare troppo. E poi c’era un rischio: sembrava un thriller religioso canonico. Il mio libro è altro.

3. “Il Sermone del Silenzio”
Mi piaceva. Molto. Ma era troppo vicino al titolo del terzo volume: Il Carnefice del Silenzio. Rischiavo confusione.

4. “L’Evangelium Tenebris”
Latinismi. Mi piacciono. Ma non tutti i lettori li amano. E un titolo deve attirare, non intimidire.

5. “Il Canto delle Cripte”
Suona gotico, giusto? Ma anche… fumettistico. E un po’ troppo barocco.


Perché ho scelto Il Vangelo delle Ombre

Alla fine, l’ho capito: serviva un titolo che fosse solenne, ma inquietante. Qualcosa che evocasse:

  • Religione deviata
  • Luce spenta
  • Parola scritta… ma maledetta

E così è nato:
Il Vangelo delle Ombre.
Un titolo che non spiega, ma sussurra. Che non mostra… ma attira dentro.

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Cosa deve avere un titolo, per funzionare?

Secondo me, tre cose:

  1. Risuonare con il cuore del libro
    Non basta suonare bene. Deve contenere l’anima.
  2. Farsi ricordare
    Un titolo debole è come una porta anonima. Nessuno la apre.
  3. Accendere una domanda
    “Che cos’è questo vangelo? E perché è delle ombre?”
    Se un titolo genera una domanda, ha già vinto.

Ci sono titoli che sembrano perfetti, ma non sono il tuo. E altri che arrivano piano, come un sussurro dietro la spalla, e capisci che non potrai chiamarlo in nessun altro modo.


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Le cose che butto via quando riscrivo un capitolo


Una delle domande che mi sento fare più spesso è:
“Quanto cambi rispetto alla prima stesura?”
La risposta breve?
Tantissimo. A volte tutto.

Perché ogni volta che rileggo un capitolo, mi accorgo che qualcosa — una scena, un personaggio, un dialogo — non serve più alla storia. O peggio: la rallenta.

E allora butto via.
Senza pietà. Ma con un certo rispetto.


Cose che taglio senza rimpianti:

  • Scene bellissime… ma inutili.
    Quelle che “suonano bene”, ma non portano avanti nulla. Né la trama, né l’atmosfera, né l’anima del libro.
    Le lascio andare. Se mi servivano solo per dimostrare che “so scrivere”, allora non mi servivano affatto.
  • Personaggi che non sanno chi sono.
    A volte nascono per dire una cosa, poi non parlano più. O dicono troppo. O non aggiungono nulla.
    Meglio eliminarli che tenerli come comparse confuse.
  • Finali alternativi.
    Sì, ne scrivo spesso più di uno.
    Ma alla fine ne tengo solo uno. Quello giusto per la storia, non quello più comodo, né quello più clamoroso.

Cancellare è un atto d’amore

Scrivere non è solo aggiungere.
Scrivere è anche togliere. Togliere il superfluo. Il debole. Il finto.
Tagliare vuol dire avere il coraggio di fare spazio a quello che conta davvero.

Ci sono scene che ho riscritto sei o sette volte.
Una in particolare — un dialogo tra Blackwood e il suo antagonista — ha cambiato forma talmente tante volte che potrei pubblicare un libro solo con le versioni scartate.

Eppure… solo nell’ultima ha funzionato.


Dietro ogni libro pubblicato c’è un libro mai nato

Un libro fatto di pagine cancellate, finali alternativi, personaggi sacrificati, idee accantonate.
Ma è proprio quel libro invisibile che dà forza a quello che resta.

Perché ciò che leggi non è mai tutto ciò che è stato scritto.
È solo ciò che — alla fine — è sopravvissuto.


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Chi è Claudio Bertolotti quando spegne la luce?


Quando chiudo il portatile, spengo la luce e mi stendo nel letto, la nebbia resta con me.

Non scrivo solo di nebbia, oscurità e silenzi perché amo il gotico. Lo faccio perché, una volta chiuso il sipario del giorno, mi rendo conto che è in quel tipo di mondo che la mia mente torna a casa. Quello che scrivo nasce lì: in quella zona grigia tra il sonno e la veglia, dove tutto si fa più poroso, dove i contorni si sfumano, e le ombre — finalmente — parlano.

Ma chi sono davvero, una volta spento tutto?

Sono un padre che guarda sua figlia dormire e si chiede in che mondo crescerà.
Un uomo che ha paura, spesso. Che combatte contro l’ansia, contro la stanchezza, contro il bisogno — a volte crudele — di essere all’altezza di qualcosa che non ha ancora un nome.
Un marito che si siede accanto alla donna che ama e, tra una cena e un film a metà, prova a tenere accesa una scintilla che gli ricorda perché ha scelto di vivere con lei.

Sono uno che ha scoperto tardi che scrivere non è un gioco, ma una necessità.
Che ci sono storie che ti abitano anche quando non vuoi. E che a un certo punto, se non le scrivi, cominciano a parlare da sole.

Non sono un eroe. Non ho poteri.
Ma ho un vizio — quello sì — che non riesco a smettere: non riesco a voltarmi dall’altra parte.

Quando sento una storia, un dolore, una stortura che fa rumore nell’anima… lo so che prima o poi finirà dentro una pagina.
Non per giudicare. Ma per capirla.
O almeno per lasciarle un posto in cui vivere.

E allora, chi è Claudio Bertolotti quando spegne la luce?

È qualcuno che spera che, nel buio, ci sia ancora qualcosa di vero.
Che scrive per restare.
E che ha imparato a parlare con le ombre.
Non perché sia coraggioso. Ma perché le ombre, a volte, sono le uniche a rispondere.


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L’Oscura Eredità di Lovecraft


Come il maestro dell’orrore cosmico ha influenzato il mio modo di scrivere

Ci sono autori che si leggono. Altri che si studiano.
E poi c’è Lovecraft.

Il suo nome evoca abissi insondabili, creature che nessun uomo dovrebbe nominare, e un orrore che non viene mai spiegato fino in fondo. Un orrore che si intuisce, che serpeggia, che trasforma la realtà in una vertigine. È questo il suo dono più oscuro: l’aver insegnato che ciò che ci spaventa davvero… è l’invisibile.

Quando iniziai a scrivere Il Vangelo delle Ombre, e ancora prima Le Ombre di Whitechapel, le sue parole mi tornavano spesso alla mente:

“Non è morto ciò che in eterno può attendere,
e col volgere di strani eoni anche la morte può morire.”

Questa frase da sola contiene tutta la filosofia lovecraftiana: la piccolezza dell’uomo, l’illusione del tempo, la fragilità della mente.

Lovecraft non costruiva trame nel senso classico.
Costruiva atmosfere.
Le sue storie sono fosche, nebulose, spesso senza risoluzioni consolatorie. Non esiste eroe, non esiste vittoria, esiste solo l’incontro – spesso casuale – con l’insondabile.

Quello che ho cercato di fare nei miei romanzi è proprio questo: creare una tensione costante, una nebbia mentale che avvolge il lettore, dove i protagonisti (Blackwood, Monroe, Padre Quinn) non affrontano solo mostri, ma dubitano del reale, dei simboli, di se stessi.

Lovecraft mi ha insegnato che l’orrore non deve essere spiegato. Anzi:
più tenti di spiegarlo, più lo riduci.

Ne Il Carnefice del Silenzio ho lasciato che certi eventi restassero sospesi, che alcune immagini emergessero solo come sussurri. Come avrebbe voluto lui.

Mi piace pensare che il mio Archivio Blackwood sia, nel suo piccolo, una lanterna accesa nella stessa caverna oscura in cui scriveva Lovecraft.
Una lanterna fioca, certo.
Ma che continua a tremare. A resistere.

Perché la paura non è solo un genere.
È un linguaggio.
E Lovecraft ce l’ha insegnato meglio di chiunque altro.


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Caso n.17 – La maschera che sussurra


Archivio riservato – Accesso limitato | Scotland Yard, Settore X | Londra, 14 ottobre 1887


Oggetto repertato:
Maschera rituale in avorio annerito, scolpita a mano, di origine sconosciuta. Occhi senza pupille. Nessuna apertura per bocca o naso. Interno liscio, ma con lievi incisioni simili a caratteri ebraici corrotti.

Circostanze del ritrovamento:
Recuperata nella camera da letto del professor Oswin T. Halberd, docente di linguistica antica presso il King’s College. Il corpo del professore giaceva in posizione eretta, completamente rigido, con la maschera indossata. Nessun segno di violenza. Nessuna ferita. Solo una parola graffiata sul muro:
“Zayin.”


Testimonianze raccolte:

“Sentivamo mormorii anche a porte chiuse. La voce… non sembrava umana. Né maschile, né femminile. Più simile al vento che passa tra le ossa.”
Sig.ra Halberd, moglie del defunto

“Il professore parlava da solo. Diceva che la maschera gli stava insegnando una lingua perduta. Diceva che ormai sapeva tradurre anche il silenzio.”
Studente anonimo


Nota personale – Isp. Edgar Blackwood:

“La maschera è stata rinchiusa nell’Armadio di Ferro, settore XIII. Durante l’interrogatorio, l’assistente di Halberd ha cominciato a parlare una lingua ignota, ma la voce… non era la sua. C’era qualcosa di innaturale nella cadenza.
Non era possessione.
Era traduzione.”


Conclusione provvisoria:
Nonostante la mancanza di prove tangibili di aggressione o agenti tossici, l’espressione del cadavere e lo stato muscolare fanno pensare a una morte per spavento estremo o autosuggestione letale. L’anomalia riscontrata nei nastri registrati (voci udibili a frequenze diverse) è ancora in fase di analisi.


CLASSIFICAZIONE:
Oggetto Vocale / Livello di Rischio: Alto
Da maneggiare solo con guanti isolanti.
Non indossare mai, nemmeno per simulazione.
Non rispondere alle domande della maschera.


Domanda aperta:
Se una maschera riesce a sussurrare, chi o cosa la indossa da dentro?


Il rituale del silenzio: quando uccidere è un messaggio


Certe morti non sono solo delitti. Sono simboli. Sono segnali tracciati con il sangue, destinati a chi sa leggere tra le righe di un corpo abbandonato, o nel gelo di una stanza sigillata.

Nel cuore di Il Carnefice del Silenzio, l’omicidio si trasforma in rituale, in codice, in profezia. Ogni vittima è una parte di un disegno più grande, ogni silenzio forzato è un eco che parla a chi ha orecchie abbastanza dannate per ascoltarlo.

Chi è davvero il carnefice? Un semplice assassino o un messaggero antico, legato a una voce che affonda le radici in un culto perduto?

Nel romanzo, l’ispettore Edgar Blackwood si trova a decifrare molto più che indizi: deve comprendere una lingua dimenticata, fatta di simboli, mutilazioni e silenzi rituali. Ma c’è di più. Ogni omicidio sembra risvegliare qualcosa che dormiva… nel cuore stesso di Londra.

La domanda non è più solo chi uccide. Ma perché il silenzio è diventato la vera arma?

Se non avete ancora letto Il Carnefice del Silenzio, vi consiglio di prepararvi a un’indagine che non vi darà risposte facili. Perché in fondo, come dice Blackwood:

“Le verità sussurrate sono le uniche a sopravvivere ai secoli.”


Il Vangelo delle Ombre sta per raggiungere la stampa!
Abbiamo superato le 250 copie preordinate, ma vogliamo accelerare l’editing e la pubblicazione finale.

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