Spiriti e superstizioni inglesi: cosa credevano davvero nel 1800?


In un’epoca in cui la scienza muoveva i primi passi verso la modernità, Londra era ancora un luogo di nebbia, superstizione e terrore quotidiano.

Non si trattava solo di paura dell’ignoto: nella Londra vittoriana, l’invisibile era ovunque. In ogni scricchiolio del pavimento, in ogni finestra illuminata dopo la mezzanotte, in ogni croce appesa nelle stanze dei poveri, c’era la sensazione concreta che qualcosa — o qualcuno — potesse osservare da un’altra dimensione.

La casa infestata non era un mito

Nel XIX secolo, centinaia di case londinesi erano ufficialmente considerate “infestate”, tanto da influenzare il valore degli immobili. Le cronache dell’epoca parlano di ombre nei corridoi, oggetti che si muovevano da soli e, soprattutto, “colpi alle pareti senza causa apparente”. Molti appartamenti venivano benedetti da preti o svuotati dopo notti troppo lunghe.

Alcune famiglie arrivavano a murare le stanze, pur di non sentire più le voci.

Il fazzoletto nero sullo specchio

Una delle superstizioni più diffuse riguardava gli specchi: quando qualcuno moriva in casa, lo specchio veniva coperto o voltato verso il muro. Si credeva che l’anima potesse restarvi imprigionata, oppure che l’entità della morte potesse “passare” attraverso il riflesso.

Un gesto semplice, quotidiano, ma profondamente simbolico.

Il sangue dei morti parlava

Nel folklore inglese, il sangue delle vittime di omicidio non giaceva mai in silenzio. Secondo una credenza popolare, se l’assassino si avvicinava al corpo, il sangue avrebbe “ribollito”, emettendo un suono sordo. In alcuni villaggi, questo era sufficiente per accusare qualcuno, ben prima dell’arrivo della polizia scientifica.

Candele, sali e protezioni

In molte abitazioni, venivano lasciate candele accese alle finestre per “illuminare la via ai defunti”, soprattutto in novembre. Altre famiglie spargevano sale agli angoli della casa o sotto il letto, convinte che potesse fermare spiriti erranti o entità maligne. In certi casi, si dormiva con una Bibbia sotto il cuscino o una chiave d’argento al collo.


Ancora oggi, nei romanzi gotici ambientati nell’Inghilterra ottocentesca — come L’Archivio Blackwoodqueste credenze non sono solo dettagli d’epoca: sono il cuore pulsante della paura. Perché l’orrore più potente nasce quando il passato non smette di parlare.


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La fatica di costruire un mondo: la genesi dell’Archivio Blackwood


Ogni storia ha un inizio. Ma costruire un intero mondo… richiede molto di più.

Quando ho iniziato a scrivere Le Ombre di Whitechapel, non avevo ancora idea che stavo posando la prima pietra di qualcosa di più grande. Pensavo si trattasse di un racconto gotico, autoconclusivo, ambientato nella Londra vittoriana. Poi sono arrivati i dettagli: una pergamena scritta in latino, un culto antico, una figura enigmatica col cappotto scuro e il vizio del sigaro. Edgar Blackwood non era solo un personaggio: era una porta d’ingresso.

Un mondo che si espande… a colpi di ostinazione

La fatica di costruire un mondo narrativo non sta solo nella documentazione storica, anche se quella è fondamentale. Sta nel dare coerenza a ogni gesto, ogni parola, ogni ombra. Quando una saga si allarga, devi ricordare cosa è successo nel 1888, cosa accadrà nel 1889, e come ogni piccolo evento si ripercuote su quelli futuri.

Ho creato file, scalette, mappe mentali, cronologie interne  ma spesso sono serviti solo a farmi capire che dovevo reimmaginare tutto da capo. Alcuni personaggi sono stati eliminati, altri sono morti perché così doveva andare. Blackwood ha perso compagni, ha trovato nuovi alleati, e io con lui ho perso e trovato la direzione.

Le idee scartate? Più numerose di quelle pubblicate

Ci sono interi capitoli mai scritti. Titoli accantonati. Idee che sembravano geniali e si sono rivelate vuote. Alcuni nemici non erano abbastanza potenti. Alcuni misteri non abbastanza oscuri. A volte sono stati proprio quei fallimenti a spingermi oltre.

Il Vangelo delle Ombre è nato da uno scarto. Era un frammento, un’idea gettata via… finché non ho deciso di esplorarla fino in fondo. La mia paura più grande si è trasformata nella chiave per raccontare un nuovo orrore, più profondo.

Quando arriva l’intuizione giusta

L’intuizione arriva tardi. A volte nel sonno. A volte mentre stai facendo tutt’altro. La figura del Viaggiatore, per esempio, è nata da un sogno disturbante. E quel sogno è diventato il cuore del secondo volume. Così come il personaggio di Monroe – un alleato nato quasi per caso – ha conquistato un posto fondamentale nella saga.

Blackwood stesso non doveva nemmeno essere protagonista. Ma la sua voce ha preso forza, e io ho dovuto ascoltarla.

Non è solo “scrivere una storia”. È costruire una mitologia

Ogni racconto della saga Archivio Blackwood è parte di qualcosa di più ampio. Una cronologia. Una tensione. Un mondo.
Chi legge i miei libri trova riferimenti, simboli ricorrenti, nomi già uditi. Nulla è lasciato al caso, ma molto viene lasciato nel mistero, come è giusto che sia in una storia gotica.

Londra diventa un personaggio. I suoi vicoli, la sua nebbia, i suoi segreti. E ogni nuova pagina deve rispettare ciò che è stato scritto prima, ma anche osare qualcosa di nuovo.


In conclusione…

Costruire l’Archivio Blackwood è stato (ed è ancora) un lavoro duro. Fatica, ricerca, tagli, riscritture, dubbi. Ma è anche ciò che mi ha reso davvero autore. E ogni volta che un lettore mi scrive per dirmi che ha riconosciuto un simbolo o ha seguito un’indagine pagina dopo pagina… capisco che questa fatica ha senso.

Grazie per essere parte di questo viaggio nell’ombra.
A lume di candela, continueremo a cercare la verità tra le pieghe del Velo.



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I miei personaggi soffrono. Perché devono farlo?


La sofferenza non è un espediente narrativo.
Non è nemmeno una punizione.
È il prezzo da pagare per essere reali.

Nella mia saga L’Archivio Blackwood, ogni personaggio – che sia un detective, un sacerdote, una bambina o un assassino – attraversa il proprio inferno. Non perché io, come autore, voglia condannarli. Ma perché non credo nella salvezza senza l’ombra della caduta.

Declan O’Connor, ad esempio, non è morto per stupire il lettore. È morto perché quella era l’unica strada coerente con la sua storia, con la sua lealtà e con ciò che la sua presenza significava per Blackwood.
E Blackwood stesso non è l’eroe invincibile. È il risultato di ciò che ha perso.


La sofferenza come verità

Viviamo in un’epoca in cui spesso si scrivono personaggi “giusti”, “forti”, “risolti”. Ma io credo che il dolore sia l’unico elemento narrativo in grado di dire la verità.
Quando Elias Monroe sbaglia, quando Padre Quinn vacilla, quando la bambina de Il Vangelo delle Ombre pronuncia parole che non le appartengono… lì, in quei momenti, smettono di essere personaggi. Diventano persone.

La sofferenza li umanizza. Li spezza e li scolpisce.
E se non soffrissero, sarebbero solo funzioni nella trama. Non anime.


Il dolore ha un prezzo. Anche per chi legge.

Chi legge i miei libri lo sa: nessuno è al sicuro.
Non perché io voglia scioccare. Ma perché la vita vera non protegge chi amiamo, e quindi nemmeno la narrativa dovrebbe farlo, se vuole restare sincera.
C’è chi ha pianto per la fine di un personaggio. Chi mi ha scritto di aver rivisto sé stesso in una crisi di fede.
Chi ha sentito che, forse, anche lui stava lottando contro un “Viaggiatore”.

La sofferenza dei miei personaggi è un patto.
Io la scrivo, tu la attraversi. Insieme ne usciamo un po’ più sporchi.
Ma anche un po’ più vivi.


Soffrono. Ma non smettono di cercare la luce.

Questa è l’unica cosa che non tolgo mai.
Una candela, una voce, un simbolo inciso nel legno.
Un gesto piccolo, inutile forse. Ma umano.

Perché se è vero che i miei personaggi soffrono… è altrettanto vero che nessuno di loro accetta di spegnersi completamente.

Ed è in quella resistenza silenziosa che, forse, si trova l’unico spiraglio di salvezza.
Per loro.
E per noi che li leggiamo.


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Gli oggetti del male: quando il potere è nelle mani sbagliate


Ci sono oggetti che nascono innocenti, creati per difendere, guarire o pregare.
Poi, un giorno, finiscono nelle mani sbagliate  e smettono di appartenere al mondo dei vivi.

Le croci, le reliquie, gli amuleti e gli strumenti di tortura non sono soltanto elementi del passato o simboli religiosi: nella storia dell’umanità hanno rappresentato la soglia tra fede e dominio, tra salvezza e dannazione. E nella narrativa gotica, quella soglia diventa spesso una trappola.


Croci che non proteggono

Nella saga de L’Archivio Blackwood, le croci sono un segno ambiguo: pendono dai colli dei fedeli e dei peccatori allo stesso modo.
Padre Quinn, nel Vangelo delle Ombre, impugna la croce come un’arma, ma ogni volta che la solleva lo fa con paura, come se temesse che Dio non rispondesse più.
Perché nel mondo di Blackwood non è la croce a proteggere l’uomo: è l’uomo a dare senso alla croce.
E quando la fede si spegne, resta solo il metallo freddo, incapace di distinguere il bene dal male.


Reliquie e inganni

La storia reale non è diversa.
Dal Medioevo fino all’età vittoriana, l’Europa fu invasa da reliquie, frammenti di ossa, schegge di croci, lacrime imbalsamate di santi.
Ogni reliquia era una promessa, un modo per vendere redenzione a chi non aveva più fede.
Nelle mani giuste, una reliquia è un simbolo di speranza; in quelle sbagliate, diventa uno strumento di potere.
Ed è proprio questo il nucleo oscuro di molte delle tue opere: il male non risiede nell’oggetto, ma in chi lo desidera.


Amuleti e superstizione

Nel XIX secolo, a Londra, non era raro trovare amuleti cuciti nei vestiti o nascosti nelle tasche dei defunti.
Servivano a proteggere l’anima durante il viaggio nell’aldilà, ma spesso erano oggetti intrisi di paura più che di fede.
In Il Carnefice del Silenzio, alcuni di questi amuleti riemergono dagli archivi di Scotland Yard, sporchi di sangue e di segreti: simboli cabalistici tracciati sul rame, occhi d’animale, piccoli ossi umani avvolti in nastri neri.
Ognuno racconta una storia, ognuno è il frammento di una disperazione.


Strumenti di tortura e volontà del potere

Dagli inquisitori ai medici alienisti, l’uomo ha sempre usato il dolore come metodo per conoscere, controllare, redimere.
Gli strumenti di tortura, nella storia come nella narrativa, sono la prova che la curiosità può diventare crudeltà quando si veste da scienza.

Perché a volte il male non vuole uccidere, vuole capire.


Il vero potere

Ogni oggetto maledetto nasce da un gesto umano:
Ecco perché nell’universo di Blackwood — come nella realtà — il male non è mai soprannaturale. È un’eco di ciò che abbiamo costruito noi.

Gli oggetti del male non ci scelgono.
Siamo noi a prenderli in mano, a dargli voce, e a credere che possano salvarci.


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La casa come tempio del Mostro


Anatomia delle abitazioni dei killer seriali

Quando il Male mette radici, ha bisogno di un luogo in cui crescere.
Spesso, quel luogo è una casa. Apparentemente normale. A volte isolata. A volte nel cuore del vicinato. Ma sempre, sempre diversa.
In questo articolo esploriamo la dimensione domestica del crimine seriale, con particolare attenzione alla figura di Ed Gein — cuore del mio recente saggio Il Culto della Madre — ma anche in relazione ad altri casi reali e alle inquietanti somiglianze con le dimore gotiche del mio universo narrativo.


Non è solo un luogo: è un corpo vivente

Le case dei serial killer non sono semplici contenitori. Sono estensioni simboliche della mente del carnefice: ogni oggetto, ogni stanza, ogni odore racconta un bisogno, una frattura, un’ossessione.

Nel caso di Ed Gein, la casa di Plainfield divenne un vero e proprio teatro rituale, un santuario della madre morta e al tempo stesso un laboratorio della carne. Le stanze chiuse, i cadaveri sezionati, i trofei umani: tutto all’interno rifletteva la trasformazione di un lutto non elaborato in culto mortale.


La casa come psicodiagramma

In criminologia ambientale, lo spazio domestico viene spesso analizzato come “psicogeografia del crimine”: la disposizione degli ambienti, la scelta degli oggetti, la loro alterazione (o conservazione) offrono indizi sulla psiche del soggetto.

  • Nella stanza di Gein dove dormiva la madre, nulla era stato toccato.
  • Nella cucina, i resti umani erano stati trattati come utensili.
  • In cantina, si compivano atti al limite tra necrofilia e arte sacrificale.

Questa dicotomia tra conservazione del sacro e profanazione del corpo ritorna spesso anche nei miei romanzi: la stanza sigillata di una bambina morta, il laboratorio rituale sotto una chiesa, la biblioteca dove ogni scaffale contiene frammenti di dolore.


Narrativa gotica e verità disturbanti

Molti lettori mi chiedono se le case descritte nell’Archivio Blackwood siano ispirate a luoghi reali.
La risposta è: sì, ma non solo.
Ho preso spunto da documenti reali — come le foto dell’abitazione di Gein dopo l’arresto — ma anche da suggestioni letterarie, teologiche e simboliche: la casa non è solo luogo fisico, è sempre una porta verso qualcosa.
Nel gotico, la casa è spesso corrotta, viva, malata, esattamente come lo è nella mente di un assassino.


Il passato non se n’è mai andato

Le case in cui sono avvenuti crimini orribili non perdono mai del tutto il loro carico. Non è solo superstizione. È psicologia dell’ambiente.
Il trauma impregna i muri, e spesso chi entra dopo — vittima o lettore — lo sente.

È per questo che, in narrativa o nella realtà, il Male non muore mai davvero tra quelle pareti.
Resta lì, in attesa.
Di essere riscoperto.
O riattivato.


Tratto da riflessioni nate durante la stesura del saggio
“Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”,
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Il Futuro dell’Archivio Blackwood


Anticipazioni, ritorni e nuove discese nell’oscurità

Scrivere un romanzo gotico non è solo una scelta narrativa. È un rituale, un patto con l’ombra che ti osserva mentre scrivi. Ogni parola è una chiave, ogni libro un varco. Quando ho iniziato Le Ombre di Whitechapel, non immaginavo che mi avrebbe condotto tanto lontano. E ora, con Il Carnefice del Silenzio nelle mani dei lettori e Il Vangelo delle Ombre che ancora brucia come un’incisione nella carne, posso finalmente dirlo: l’Archivio Blackwood non si ferma. Anzi, si espande.

In tanti me lo chiedete: “Cosa verrà dopo?”
E oggi voglio iniziare a rispondere.


Un Prequel – La Muta dei Santi

C’è un tempo prima di Whitechapel, prima che l’ispettore Edgar Blackwood diventasse ciò che è oggi. Quel tempo ha un nome: La Muta dei Santi.
Un prequel ambientato anni prima, in una Londra ancora più cupa e violenta, in cui ritornerà un personaggio molto amato. Non posso dirvi chi, ma chi ha letto Le Ombre di Whitechapel potrà intuire…

Questa storia affonda nel passato più oscuro di Blackwood, un’indagine proibita che lo segnerà per sempre. Un viaggio nella Londra degli orfanotrofi sconsacrati, delle chiese murate e delle sette che strappano la voce a…


Un Sequel – Dopo Il Carnefice del Silenzio

Ci sono cose che nemmeno il silenzio può seppellire. E se avete letto Il Carnefice del Silenzio, sapete che qualcosa — o qualcuno — è rimasto in sospeso.
Il sequel è già in fase di progettazione. Sarà un romanzo più maturo, più doloroso e ancora più inquietante. Un’indagine che porterà Blackwood a uscire dai confini di Londra e a scoprire che il Male non è mai solo in un luogo. A volte è dentro di noi.


Uno Spin-off – L’Ombra di un Altro (non è il titolo del romanzo)

Alcuni personaggi non escono mai davvero di scena. Anzi, sono loro a guardarti, in attesa che tu li riscriva.
Sto lavorando a uno spin-off dedicato a un altro personaggio amato dai lettori, che in Il Vangelo delle Ombre  ha lasciato un segno profondo. La storia avrà un tono diverso, più personale e malinconico, e mostrerà cosa succede quando l’orrore non viene più investigato, ma subito.


La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto

E poi c’è lei. La saga che non vi aspettate, ma che torna all’origine del gotico.
La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto è il mio progetto parallelo: una saga gotica per ragazzi, ma non per questo meno inquietante.
Orfanotrofio, magia, silenzi che diventano mostri, amicizie salvifiche e varchi nascosti dietro i muri.
Una storia intensa, malinconica, piena di visioni e simboli, che parlerà ai lettori più giovani… e ricorderà agli adulti quello che avevano dimenticato.


Ogni libro che scrivo è un pezzo di un mosaico. E anche se ogni storia può essere letta da sola, tutto è connesso. Ogni personaggio, ogni simbolo, ogni frase non detta.

L’Archivio Blackwood non è mai stato solo una serie di romanzi.
È un mondo.
E vi assicuro: abbiamo appena iniziato a sfogliarlo.

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Dalla penna al patibolo


I 7 autori più inquietanti della storia (e le loro morti oscure)

C’è un filo nero che collega la mente degli scrittori alla fine che li attende. Alcuni sembrano averlo saputo da sempre. Altri hanno solo raccontato l’oscurità… finché non li ha inghiottiti.
Scrivendo Il Vangelo delle Ombre, mi sono chiesto più volte se il male narrato possa lasciare un’eco reale in chi scrive.
Così ho scavato nei diari, nei giornali dell’epoca, nei testamenti. Quello che ho trovato è un elenco di autori che sembrano usciti dai miei romanzi, non per i libri, ma per la loro vita.

Ecco 7 scrittori realmente vissuti che potrebbero tranquillamente abitare le pagine dell’Archivio Blackwood.


1. Gérard de Nerval – impiccato con una gamba di donna

Poeta visionario, frequentatore di cimiteri e gatti neri. Nerval scriveva di sogni, allucinazioni, anime sdoppiate. Ma una notte del 1855 uscì di casa dicendo: “Sto per entrare nell’ignoto.”
Il giorno dopo fu trovato impiccato con la bretella di un vestito da donna. Nessuno seppe mai spiegare se fu suicidio, delirio o rituale.
Il medico che lo visitò annotò solo: “Aveva un volto sereno, ma era come se avesse già visto ciò che noi ignoriamo.”


2. August Strindberg – lo scrittore che vedeva i demoni

Strindberg è oggi celebrato come un drammaturgo svedese, ma pochi ricordano il suo periodo “alchemico”.
Convinto di essere perseguitato da spiriti malvagi e da una setta segreta, passò anni a scrivere trattati esoterici.
Dormiva con una pistola sotto il cuscino e affermava di vedere facce deformi apparire sui muri.
Morì nel 1912, tra febbri, visioni e profezie mai chiarite.


3. Edgar Allan Poe – la morte perfetta per un suo racconto

Fu trovato a Baltimora nel 1849, con abiti non suoi, delirante, incapace di spiegare cosa gli fosse successo. Morì dopo quattro giorni di agonia.
Mai saputo se fu omicidio, avvelenamento, o una di quelle “coincidenze troppo perfette” per sembrare reali.
Poe aveva scritto spesso di sepolture premature, morte mentale, allucinazioni…
Morì proprio come i suoi personaggi: da solo, parlando con fantasmi che nessuno vedeva.


4. Girolamo Segato – lo scienziato che pietrificava i cadaveri

Non era uno scrittore nel senso classico, ma i suoi diari e appunti sono tra i più macabri mai esistiti.
Nel XIX secolo, Segato sviluppò un metodo per trasformare il corpo umano in pietra.
I suoi “reperti” si trovano ancora oggi a Firenze. Quando morì, portò con sé il segreto, temendo che finisse nelle mani sbagliate.
I suoi scritti sono stati studiati anche per Il Vangelo delle Ombre


5. Robert E. Howard – autore di Conan, ma prigioniero della madre

Creatore del mitico Conan il Barbaro, Howard fu uno scrittore prodigioso. Ma anche un uomo tormentato da dipendenze, incubi e da un legame morboso con la madre malata.
Quando capì che lei stava morendo, salì in macchina, si puntò la pistola alla tempia e sparò.
Morì due giorni dopo… proprio mentre la madre esalava l’ultimo respiro.


6. Georg Trakl – poeta maledetto e il mistero della sorella

Trakl era poeta, farmacista… e forse qualcosa di più oscuro.
Scriveva versi che parlavano di incesto, morte, angeli deformi. Venne trovato morto per overdose in un ospedale da campo durante la Prima Guerra Mondiale.
Molti biografi sospettano una relazione ossessiva con la sorella Grete, anche lei morta in circostanze misteriose.


7. Thomas Ligotti – l’autore che vive come un fantasma

Ancora in vita, ma praticamente invisibile. Ligotti non appare in pubblico, non concede interviste.
Nei suoi racconti, la realtà è solo una maschera appesa al nulla, e l’esistenza un errore cosmico.
Se mai lo incontrassi, lo immaginerei in una stanza chiusa, con tende pesanti e una macchina da scrivere che sputa incubi.
Molti credono che sia il vero erede di Lovecraft. Forse qualcosa di più.


Scrivere dell’orrore, a volte, è come evocarlo.
Ma questi autori non si sono limitati a scriverlo.
Lo hanno vissuto. Lo hanno subito. Alcuni, forse, non ne sono mai usciti.

E tu?
Hai mai letto qualcosa che ti è rimasto dentro… troppo a lungo?


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Accanto a Padre Quinn


L’ho seguito nel buio senza parlare.
Le sue mani tremavano appena, ma non per paura. Per il peso.

Quel genere di peso che non si vede, ma si avverte, come il freddo di una cripta che non si è mai richiusa del tutto.
Padre Marcus Quinn camminava davanti a me, il passo deciso di chi ha già perso tutto eppure continua. Il mantello frustava il vento e nella destra stringeva il rosario, annerito dal tempo, rigido come un’arma. Non era più un prete. Era qualcos’altro. Qualcuno che ha guardato nell’abisso e ha deciso di rientrare, pur sapendo che non ne uscirà.

Voltò lo sguardo una volta sola. Non disse nulla. Non doveva.
Davanti alla casa — quella casa — l’aria era densa di ceneri invisibili.
Il rituale lo stava aspettando.

Io?
Ero lì per assisterlo, ma anche per non farlo restare solo. Perché a volte l’unica difesa contro il Male… è non combatterlo da soli.

Nella stanza dove il soffitto si piegava e il legno scricchiolava come un lamento, Quinn tracciò i simboli con mano ferma. Bruciò una pagina antica, recitò in latino versi che suonavano come minacce. E poi si inginocchiò.
Ma non per pregare.

Per sfidare.

Il Viaggiatore lo stava guardando. E io lo seppi. Non c’era bisogno di vederlo. Lo sentivo in ogni fibra.

Ci sono momenti in cui la fede non è un atto di devozione.
È un’arma.
E Quinn… era pronto a usarla.

Quando uscii da quella casa, qualcosa era cambiato.
Dentro di me.
Dentro di lui.
E dentro il lettore che troverà il coraggio di aprire Il Vangelo delle Ombre.

Perché questo libro non si legge.
Si affronta.


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5 Oggetti Reali Inquietanti Trovati in Case Vittoriane


Certe case non parlano. Sussurrano soltanto… attraverso gli oggetti che vi abitano ancora.

La Londra vittoriana era un teatro di ombre, superstizioni e stranezze. In quel mondo, nulla era davvero solo un oggetto: tutto poteva nascondere un segreto, una maledizione o un ricordo impossibile da cancellare. Nel mio lavoro di ricerca per l’universo di Blackwood, mi sono imbattuto in alcuni reperti davvero esistiti, oggi conservati in musei, collezioni private o semplicemente… dimenticati nei diari del tempo.

Ecco 5 oggetti reali e documentati trovati in abitazioni dell’epoca, oggetti che potrebbero benissimo appartenere all’Archivio Blackwood.


1. Il cuscino con denti da latte cuciti

Nel 1879, a Bethnal Green, durante il restauro di un’abitazione abbandonata, venne trovato un piccolo cuscino imbottito… non di piume, ma di denti da latte cuciti con filo nero. Secondo alcune credenze popolari, cucire i denti proteggeva l’anima del bambino dalla possessione.
O forse, la intrappolava.


2. La Bibbia incisa con capelli umani

Nella zona di Clerkenwell, nel 1883, fu rinvenuta una Bibbia da viaggio le cui pagine recavano incisioni sottili eseguite con capelli intrecciati a punta d’ago. Ogni versetto riportava una data di lutto familiare. Un vero libro del cordoglio privato, dove la fede si confondeva con l’occulto.


3. Lo specchio che non rifletteva le donne

A Whitechapel, un vecchio specchio ottagonale conservato oggi al Museum of London fu al centro di una credenza straziante: non rifletteva il volto delle donne, solo degli uomini. Si scoprì che, in realtà, lo specchio era stato inclinato leggermente verso l’alto per anni. Ma i racconti delle inquiline lo descrivevano come “uno specchio che conosce il peccato”.


4. La bambola cieca con palpebre cucite

Trovata in una soffitta a Limehouse, nel 1891: una bambola di stoffa dai bottoni rimossi e le palpebre cucite con filo rosso. Nessuna spiegazione fu mai trovata, se non una nota: “Non deve guardare”. Alcuni ipotizzarono che appartenesse a un rituale per tenere lontani spiriti maligni.
O per tenerli dentro.


5. Il baule delle ossa

Scoperto nel 1902 durante una demolizione a Seven Dials: un piccolo baule chiuso da due lucchetti arrugginiti, contenente ossa animali miste a resti umani infantili, secondo il referto dell’epoca. Non venne mai aperto pubblicamente: fu confiscato dalla polizia e… sparì.


Perché inserirli nei tuoi racconti?

Ogni oggetto è un frammento narrativo in potenza. Ognuno contiene:

  • Un simbolo (la bambola cieca = ignorare la verità)
  • Un enigma (lo specchio = percezione selettiva)
  • Un trauma (la Bibbia incisa = lutto e colpa)
  • Una possibilità per fare paura senza mostri.

Nel mio romanzo Il Vangelo delle Ombre, questi elementi non sono solo suggestione: diventano porta d’accesso a un altro mondo, e danno forma al Male stesso.
Perché il Male, spesso, indossa il volto dell’abitudine.


Hai mai trovato un oggetto inquietante in una casa antica?

Scrivilo nei commenti o raccontamelo su Instagram o Telegram: potresti ispirare il prossimo caso dell’Archivio…


IL VANGELO DELLE OMBRE
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Edgar Blackwood: l’uomo, l’ispettore, il tormento


Ritratto psicologico del protagonista

Non è un eroe. Non è nemmeno un detective come gli altri.

Edgar Blackwood fuma sigari economici, si aggira tra i vicoli di Londra come un’ombra e, quando parla, pesa ogni parola come se potesse farla crollare addosso a chi lo ascolta. Dietro la divisa da ispettore, però, si nasconde un uomo che ha perso molto. Troppo.

Nato in una famiglia umile della periferia est di Londra, Blackwood ha conosciuto presto il silenzio: quello di una madre scomparsa troppo giovane e di un padre piegato dal lavoro e dalla solitudine. Cresciuto tra i muri umidi delle case popolari e i sussurri delle prime bande criminali, ha sviluppato fin da ragazzo un’ossessione per l’ordine — non quello imposto dalla legge, ma quello che esiste solo nei fascicoli ben chiusi, nei misteri risolti, nei nomi archiviati.

Il silenzio come rifugio

Blackwood non è un uomo di molte parole. Il silenzio è il suo strumento, ma anche la sua corazza. A volte, però, il silenzio si fa gabbia. Gli incubi che lo tormentano non hanno suoni, ma immagini: stanze vuote, volti perduti, sangue che scorre tra le pagine. Ogni caso lo cambia. Ogni rituale, ogni reliquia, ogni possessione lascia un segno.

Ne Il Vangelo delle Ombre, assistiamo a una lenta ma inesorabile frattura interiore: ciò che Blackwood vede e affronta inizia a scavare nella sua razionalità. Dubita della giustizia. Dubita della verità. Ma soprattutto, comincia a dubitare di sé stesso.

L’uomo oltre l’ispettore

Blackwood è un uomo spezzato, ma non distrutto. Non cerca gloria, né redenzione. Cerca solo di impedire che altri cadano dove lui ha visto l’abisso. La sua relazione con figure come Moira, Declan O’Connor o padre Quinn non è mai lineare: sono specchi frantumati in cui rivede ciò che ha perso, ciò che teme, ciò che non osa confessare.

Eppure, proprio perché rotto, Blackwood è autentico. I suoi silenzi parlano più di mille pagine. I suoi gesti — il modo in cui apre un fascicolo, il modo in cui osserva una scena del crimine, il modo in cui si volta al rumore di una candela che si spegne — raccontano il dolore, il peso della memoria e la sua ultima ossessione: fermare il Viaggiatore.


Se leggete i suoi dossier, fate attenzione: non troverete solo orrori. Troverete l’uomo che li ha attraversati. E non sempre ne è uscito vivo.


IL CARNEFICE DEL SILENZIO
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