Chi cammina nei vicoli?

Le professioni dimenticate della Londra vittoriana


La Londra dell’Ottocento era una città che non dormiva mai, ma non nel modo romantico che piace raccontare oggi. Era sveglia perché doveva esserlo: il lavoro non concedeva tregua, le strade erano organismi viventi, e nei vicoli più bui esisteva un’umanità silenziosa che sfiorava i passanti senza lasciare traccia.
Molti di questi mestieri sono scomparsi, inghiottiti dallo stesso fumo dei camini che li alimentava. Altri sembrano quasi inventati, tanto è sottile il confine tra vita quotidiana e incubo sociale.

Eppure erano veri. E camminavano lì, proprio dove oggi Blackwood muoverebbe i suoi passi.


Lo spazzacamino bambino: il respiro rubato del mattino

Ne bastava uno sguardo, sui tetti dei quartieri poveri, per capire tutto: piccole sagome che si muovevano come ombre nel grigio dell’alba.
I bambini spazzacamino infilavano i loro corpi dentro canne fumaria strette come tombe verticali.
Venivano scelti per la loro magrezza, per la loro capacità di contorcersi, per la loro innocenza sacrificabile.

Era un lavoro sporco, nero di fuliggine, ma necessario. Londra viveva di carbone, e loro erano gli ingranaggi invisibili del grande motore industriale.


I raccoglitori di ossa: mercanti del macabro

Nel cuore dei vicoli, quando il traffico rallentava, potevi sentire il suono dei bastoni che rimestavano nelle fogne o nelle pile di scarti.
Erano i “bone pickers”, gli spigolatori delle ossa.
Raccoglievano resti animali per rivenderli all’industria della colla, del sapone o dei fertilizzanti.
L’odore non era lavoro: era condanna.

Eppure nessuno li guardava due volte. A Londra, tutto ciò che non brillava era automaticamente considerato parte del paesaggio.


Il night-soil man: l’uomo che portava via ciò che nessuno vuole nominare

Prima dei moderni sistemi fognari, qualcuno doveva occuparsi… di ciò che gli altri lasciavano nel secchio.
Entravano nelle case di notte, caricavano i contenitori pieni e li svuotavano fuori città.
Il lavoro era indispensabile, ma il loro nome era un soprannome, un insulto, un modo per non doverlo pronunciare.

In un mondo che si vantava della sua eleganza vittoriana, questi uomini custodivano la parte più materiale — e più negata — della vita quotidiana.


I venditori di ombrelli: i fantasmi delle piogge improvvise

Erano figure sottili, veloci, quasi teatrali.
Apparivano ai bordi delle strade non appena si alzava una pioggia improvvisa, offrendo ombrelli di seconda o terza mano.
Alcuni li riparavano sul momento, con dita veloci e un piccolo kit di ferri; altri arrivavano da magazzini illegali dove gli oggetti rubati cambiavano padrone.

A volte, nella nebbia, sembrava che vendessero non ombrelli… ma riparo dalle ombre stesse.


I cacciatori di ratti: eroi dimenticati del sottosuolo

Londra ne era invasa: milioni di ratti, più dei cittadini.
I rat-catchers erano metà lavoratori, metà acrobati: entravano in cantine, magazzini, fogne, armati di trappole, sacchi di tela e una sorprendente familiarità con gli animali che il resto del mondo evitava.

Alcuni portavano sempre con sé un furetto addestrato, più fedele di un cane e più silenzioso di un coltello.
Erano temuti, rispettati, tollerati. Fondamentali.


Mestieri che camminano ancora

Questi lavori dimenticati formavano lo scheletro invisibile della città: senza di loro, Londra non avrebbe respirato, mangiato, né mantenuto un’ombra di ordine.
Erano figure che oggi vivono solo nei registri, nei racconti… e nelle atmosfere dei romanzi gotici.

Quando immagino l’ispettore Blackwood camminare nella nebbia, penso spesso a loro.
Perché ogni passo nella Londra del 1800 era accompagnato da mestieri che nessuno voleva vedere, ma che tutti avevano bisogno di sentire.


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La Londra Vittoriana dei miei romanzi: realtà, fantasia e suggestione


Molti lettori mi chiedono quanto ci sia di vero nell’ambientazione dei miei romanzi. La risposta è semplice: tutto… e niente.

Sì, perché la Londra che incontrate tra le pagine dell’Archivio Blackwood nasce da una fusione accurata tra ricostruzione storica e immaginazione gotica. Passeggiare con Edgar Blackwood tra le nebbie di Limehouse, o attraversare i corridoi silenziosi di una casa signorile a Kensington, significa entrare in un mondo dove la documentazione e l’atmosfera si fondono senza soluzione di continuità.

Un tempo sospeso tra 1888 e l’eternità

La mia Londra è quella del 1888, ma non quella da cartolina. È una città che pulsa nel fango, nei vicoli dimenticati, nei sussurri dei quartieri dove la modernità fatica ad avanzare. Dove i lampioni rischiarano più ombre che volti, e il confine tra superstizione e verità è sottile come una lama.

Ogni luogo che descrivo esiste o potrebbe esistere. Ho letto vecchi giornali, mappe, atti ufficiali, ma anche testimonianze popolari, leggende urbane, documenti dell’epoca e lettere personali. Lì dove il documento tace, interviene l’immaginazione.

I luoghi che ritornano

  • Limehouse, con le sue lanterne giallastre, i moli nascosti e le voci confuse nelle bettole.
  • Kensington, elegante ma attraversato da silenzi troppo perfetti.
  • Soho, con il suo cuore doppio: mondano in superficie, inquieto nei sotterranei.
  • E poi le cripte, gli archivi, le chiese sconsacrate e le stanze dove il tempo sembra non passare mai.

Tutto è progettato per costruire un mondo coerente, dove ogni casa, ogni simbolo, ogni rituale ha una sua storia. Una mappa invisibile che si compone libro dopo libro.

Realtà o finzione?

La verità è che ogni elemento nasce da una domanda: e se fosse andata davvero così?
È questa la forza del gotico: prendere la realtà e piegarla fino a farle sussurrare qualcosa di più oscuro, più inquietante… ma anche più profondo.


Se hai letto uno dei miei romanzi, forse ti sei già perso in questa Londra. Se non l’hai ancora fatto… i lampioni sono accesi. Ti aspetto tra le ombre.


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Spiriti e superstizioni inglesi: cosa credevano davvero nel 1800?


In un’epoca in cui la scienza muoveva i primi passi verso la modernità, Londra era ancora un luogo di nebbia, superstizione e terrore quotidiano.

Non si trattava solo di paura dell’ignoto: nella Londra vittoriana, l’invisibile era ovunque. In ogni scricchiolio del pavimento, in ogni finestra illuminata dopo la mezzanotte, in ogni croce appesa nelle stanze dei poveri, c’era la sensazione concreta che qualcosa — o qualcuno — potesse osservare da un’altra dimensione.

La casa infestata non era un mito

Nel XIX secolo, centinaia di case londinesi erano ufficialmente considerate “infestate”, tanto da influenzare il valore degli immobili. Le cronache dell’epoca parlano di ombre nei corridoi, oggetti che si muovevano da soli e, soprattutto, “colpi alle pareti senza causa apparente”. Molti appartamenti venivano benedetti da preti o svuotati dopo notti troppo lunghe.

Alcune famiglie arrivavano a murare le stanze, pur di non sentire più le voci.

Il fazzoletto nero sullo specchio

Una delle superstizioni più diffuse riguardava gli specchi: quando qualcuno moriva in casa, lo specchio veniva coperto o voltato verso il muro. Si credeva che l’anima potesse restarvi imprigionata, oppure che l’entità della morte potesse “passare” attraverso il riflesso.

Un gesto semplice, quotidiano, ma profondamente simbolico.

Il sangue dei morti parlava

Nel folklore inglese, il sangue delle vittime di omicidio non giaceva mai in silenzio. Secondo una credenza popolare, se l’assassino si avvicinava al corpo, il sangue avrebbe “ribollito”, emettendo un suono sordo. In alcuni villaggi, questo era sufficiente per accusare qualcuno, ben prima dell’arrivo della polizia scientifica.

Candele, sali e protezioni

In molte abitazioni, venivano lasciate candele accese alle finestre per “illuminare la via ai defunti”, soprattutto in novembre. Altre famiglie spargevano sale agli angoli della casa o sotto il letto, convinte che potesse fermare spiriti erranti o entità maligne. In certi casi, si dormiva con una Bibbia sotto il cuscino o una chiave d’argento al collo.


Ancora oggi, nei romanzi gotici ambientati nell’Inghilterra ottocentesca — come L’Archivio Blackwoodqueste credenze non sono solo dettagli d’epoca: sono il cuore pulsante della paura. Perché l’orrore più potente nasce quando il passato non smette di parlare.


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Le Lettere Nere: tra superstizione e verità


Certe storie iniziano a scriversi molto prima che qualcuno decida di raccontarle.
Le Lettere Nere sono una di quelle storie.

Chi ha seguito le indagini di Blackwood sa che ci sono misteri ancora più antichi degli omicidi, dei culti o delle reliquie. Voci che circolano negli archivi sigillati, negli appunti cancellati, nei margini di un passato che nessuno ha mai osato sfogliare del tutto. È lì che vivono le Lettere Nere.

Non sono ancora apparse, non ancora. Ma ci sono indizi, dettagli lasciati apposta come briciole in una casa stregata. Chi conosce bene il sottosuolo della saga, sa che qualcosa sta arrivando.

Le Lettere Nere non sono messaggi qualunque. Sono parole che aprono portali, scritte con mani tremanti e inchiostro che non sbiadisce. Ogni lettera è un sussurro che sopravvive al tempo, un codice che collega morti distanti, visioni frammentarie, e verità sepolte.

Nel Prequel della saga, per la prima volta scopriremo la loro origine. La loro prima vittima. E soprattutto, chi o cosa le scrive davvero.

Perché una cosa è certa: non sono semplici lettere. Sono avvertimenti.
E non sempre chi li riceve è ancora in tempo per cambiare il proprio destino.


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La fatica di costruire un mondo: la genesi dell’Archivio Blackwood


Ogni storia ha un inizio. Ma costruire un intero mondo… richiede molto di più.

Quando ho iniziato a scrivere Le Ombre di Whitechapel, non avevo ancora idea che stavo posando la prima pietra di qualcosa di più grande. Pensavo si trattasse di un racconto gotico, autoconclusivo, ambientato nella Londra vittoriana. Poi sono arrivati i dettagli: una pergamena scritta in latino, un culto antico, una figura enigmatica col cappotto scuro e il vizio del sigaro. Edgar Blackwood non era solo un personaggio: era una porta d’ingresso.

Un mondo che si espande… a colpi di ostinazione

La fatica di costruire un mondo narrativo non sta solo nella documentazione storica, anche se quella è fondamentale. Sta nel dare coerenza a ogni gesto, ogni parola, ogni ombra. Quando una saga si allarga, devi ricordare cosa è successo nel 1888, cosa accadrà nel 1889, e come ogni piccolo evento si ripercuote su quelli futuri.

Ho creato file, scalette, mappe mentali, cronologie interne  ma spesso sono serviti solo a farmi capire che dovevo reimmaginare tutto da capo. Alcuni personaggi sono stati eliminati, altri sono morti perché così doveva andare. Blackwood ha perso compagni, ha trovato nuovi alleati, e io con lui ho perso e trovato la direzione.

Le idee scartate? Più numerose di quelle pubblicate

Ci sono interi capitoli mai scritti. Titoli accantonati. Idee che sembravano geniali e si sono rivelate vuote. Alcuni nemici non erano abbastanza potenti. Alcuni misteri non abbastanza oscuri. A volte sono stati proprio quei fallimenti a spingermi oltre.

Il Vangelo delle Ombre è nato da uno scarto. Era un frammento, un’idea gettata via… finché non ho deciso di esplorarla fino in fondo. La mia paura più grande si è trasformata nella chiave per raccontare un nuovo orrore, più profondo.

Quando arriva l’intuizione giusta

L’intuizione arriva tardi. A volte nel sonno. A volte mentre stai facendo tutt’altro. La figura del Viaggiatore, per esempio, è nata da un sogno disturbante. E quel sogno è diventato il cuore del secondo volume. Così come il personaggio di Monroe – un alleato nato quasi per caso – ha conquistato un posto fondamentale nella saga.

Blackwood stesso non doveva nemmeno essere protagonista. Ma la sua voce ha preso forza, e io ho dovuto ascoltarla.

Non è solo “scrivere una storia”. È costruire una mitologia

Ogni racconto della saga Archivio Blackwood è parte di qualcosa di più ampio. Una cronologia. Una tensione. Un mondo.
Chi legge i miei libri trova riferimenti, simboli ricorrenti, nomi già uditi. Nulla è lasciato al caso, ma molto viene lasciato nel mistero, come è giusto che sia in una storia gotica.

Londra diventa un personaggio. I suoi vicoli, la sua nebbia, i suoi segreti. E ogni nuova pagina deve rispettare ciò che è stato scritto prima, ma anche osare qualcosa di nuovo.


In conclusione…

Costruire l’Archivio Blackwood è stato (ed è ancora) un lavoro duro. Fatica, ricerca, tagli, riscritture, dubbi. Ma è anche ciò che mi ha reso davvero autore. E ogni volta che un lettore mi scrive per dirmi che ha riconosciuto un simbolo o ha seguito un’indagine pagina dopo pagina… capisco che questa fatica ha senso.

Grazie per essere parte di questo viaggio nell’ombra.
A lume di candela, continueremo a cercare la verità tra le pieghe del Velo.



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I miei personaggi soffrono. Perché devono farlo?


La sofferenza non è un espediente narrativo.
Non è nemmeno una punizione.
È il prezzo da pagare per essere reali.

Nella mia saga L’Archivio Blackwood, ogni personaggio – che sia un detective, un sacerdote, una bambina o un assassino – attraversa il proprio inferno. Non perché io, come autore, voglia condannarli. Ma perché non credo nella salvezza senza l’ombra della caduta.

Declan O’Connor, ad esempio, non è morto per stupire il lettore. È morto perché quella era l’unica strada coerente con la sua storia, con la sua lealtà e con ciò che la sua presenza significava per Blackwood.
E Blackwood stesso non è l’eroe invincibile. È il risultato di ciò che ha perso.


La sofferenza come verità

Viviamo in un’epoca in cui spesso si scrivono personaggi “giusti”, “forti”, “risolti”. Ma io credo che il dolore sia l’unico elemento narrativo in grado di dire la verità.
Quando Elias Monroe sbaglia, quando Padre Quinn vacilla, quando la bambina de Il Vangelo delle Ombre pronuncia parole che non le appartengono… lì, in quei momenti, smettono di essere personaggi. Diventano persone.

La sofferenza li umanizza. Li spezza e li scolpisce.
E se non soffrissero, sarebbero solo funzioni nella trama. Non anime.


Il dolore ha un prezzo. Anche per chi legge.

Chi legge i miei libri lo sa: nessuno è al sicuro.
Non perché io voglia scioccare. Ma perché la vita vera non protegge chi amiamo, e quindi nemmeno la narrativa dovrebbe farlo, se vuole restare sincera.
C’è chi ha pianto per la fine di un personaggio. Chi mi ha scritto di aver rivisto sé stesso in una crisi di fede.
Chi ha sentito che, forse, anche lui stava lottando contro un “Viaggiatore”.

La sofferenza dei miei personaggi è un patto.
Io la scrivo, tu la attraversi. Insieme ne usciamo un po’ più sporchi.
Ma anche un po’ più vivi.


Soffrono. Ma non smettono di cercare la luce.

Questa è l’unica cosa che non tolgo mai.
Una candela, una voce, un simbolo inciso nel legno.
Un gesto piccolo, inutile forse. Ma umano.

Perché se è vero che i miei personaggi soffrono… è altrettanto vero che nessuno di loro accetta di spegnersi completamente.

Ed è in quella resistenza silenziosa che, forse, si trova l’unico spiraglio di salvezza.
Per loro.
E per noi che li leggiamo.


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La casa come tempio del Mostro


Anatomia delle abitazioni dei killer seriali

Quando il Male mette radici, ha bisogno di un luogo in cui crescere.
Spesso, quel luogo è una casa. Apparentemente normale. A volte isolata. A volte nel cuore del vicinato. Ma sempre, sempre diversa.
In questo articolo esploriamo la dimensione domestica del crimine seriale, con particolare attenzione alla figura di Ed Gein — cuore del mio recente saggio Il Culto della Madre — ma anche in relazione ad altri casi reali e alle inquietanti somiglianze con le dimore gotiche del mio universo narrativo.


Non è solo un luogo: è un corpo vivente

Le case dei serial killer non sono semplici contenitori. Sono estensioni simboliche della mente del carnefice: ogni oggetto, ogni stanza, ogni odore racconta un bisogno, una frattura, un’ossessione.

Nel caso di Ed Gein, la casa di Plainfield divenne un vero e proprio teatro rituale, un santuario della madre morta e al tempo stesso un laboratorio della carne. Le stanze chiuse, i cadaveri sezionati, i trofei umani: tutto all’interno rifletteva la trasformazione di un lutto non elaborato in culto mortale.


La casa come psicodiagramma

In criminologia ambientale, lo spazio domestico viene spesso analizzato come “psicogeografia del crimine”: la disposizione degli ambienti, la scelta degli oggetti, la loro alterazione (o conservazione) offrono indizi sulla psiche del soggetto.

  • Nella stanza di Gein dove dormiva la madre, nulla era stato toccato.
  • Nella cucina, i resti umani erano stati trattati come utensili.
  • In cantina, si compivano atti al limite tra necrofilia e arte sacrificale.

Questa dicotomia tra conservazione del sacro e profanazione del corpo ritorna spesso anche nei miei romanzi: la stanza sigillata di una bambina morta, il laboratorio rituale sotto una chiesa, la biblioteca dove ogni scaffale contiene frammenti di dolore.


Narrativa gotica e verità disturbanti

Molti lettori mi chiedono se le case descritte nell’Archivio Blackwood siano ispirate a luoghi reali.
La risposta è: sì, ma non solo.
Ho preso spunto da documenti reali — come le foto dell’abitazione di Gein dopo l’arresto — ma anche da suggestioni letterarie, teologiche e simboliche: la casa non è solo luogo fisico, è sempre una porta verso qualcosa.
Nel gotico, la casa è spesso corrotta, viva, malata, esattamente come lo è nella mente di un assassino.


Il passato non se n’è mai andato

Le case in cui sono avvenuti crimini orribili non perdono mai del tutto il loro carico. Non è solo superstizione. È psicologia dell’ambiente.
Il trauma impregna i muri, e spesso chi entra dopo — vittima o lettore — lo sente.

È per questo che, in narrativa o nella realtà, il Male non muore mai davvero tra quelle pareti.
Resta lì, in attesa.
Di essere riscoperto.
O riattivato.


Tratto da riflessioni nate durante la stesura del saggio
“Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana”,
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Il Futuro dell’Archivio Blackwood


Anticipazioni, ritorni e nuove discese nell’oscurità

Scrivere un romanzo gotico non è solo una scelta narrativa. È un rituale, un patto con l’ombra che ti osserva mentre scrivi. Ogni parola è una chiave, ogni libro un varco. Quando ho iniziato Le Ombre di Whitechapel, non immaginavo che mi avrebbe condotto tanto lontano. E ora, con Il Carnefice del Silenzio nelle mani dei lettori e Il Vangelo delle Ombre che ancora brucia come un’incisione nella carne, posso finalmente dirlo: l’Archivio Blackwood non si ferma. Anzi, si espande.

In tanti me lo chiedete: “Cosa verrà dopo?”
E oggi voglio iniziare a rispondere.


Un Prequel – La Muta dei Santi

C’è un tempo prima di Whitechapel, prima che l’ispettore Edgar Blackwood diventasse ciò che è oggi. Quel tempo ha un nome: La Muta dei Santi.
Un prequel ambientato anni prima, in una Londra ancora più cupa e violenta, in cui ritornerà un personaggio molto amato. Non posso dirvi chi, ma chi ha letto Le Ombre di Whitechapel potrà intuire…

Questa storia affonda nel passato più oscuro di Blackwood, un’indagine proibita che lo segnerà per sempre. Un viaggio nella Londra degli orfanotrofi sconsacrati, delle chiese murate e delle sette che strappano la voce a…


Un Sequel – Dopo Il Carnefice del Silenzio

Ci sono cose che nemmeno il silenzio può seppellire. E se avete letto Il Carnefice del Silenzio, sapete che qualcosa — o qualcuno — è rimasto in sospeso.
Il sequel è già in fase di progettazione. Sarà un romanzo più maturo, più doloroso e ancora più inquietante. Un’indagine che porterà Blackwood a uscire dai confini di Londra e a scoprire che il Male non è mai solo in un luogo. A volte è dentro di noi.


Uno Spin-off – L’Ombra di un Altro (non è il titolo del romanzo)

Alcuni personaggi non escono mai davvero di scena. Anzi, sono loro a guardarti, in attesa che tu li riscriva.
Sto lavorando a uno spin-off dedicato a un altro personaggio amato dai lettori, che in Il Vangelo delle Ombre  ha lasciato un segno profondo. La storia avrà un tono diverso, più personale e malinconico, e mostrerà cosa succede quando l’orrore non viene più investigato, ma subito.


La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto

E poi c’è lei. La saga che non vi aspettate, ma che torna all’origine del gotico.
La Stirpe di Hollowgate – Il Patto Perduto è il mio progetto parallelo: una saga gotica per ragazzi, ma non per questo meno inquietante.
Orfanotrofio, magia, silenzi che diventano mostri, amicizie salvifiche e varchi nascosti dietro i muri.
Una storia intensa, malinconica, piena di visioni e simboli, che parlerà ai lettori più giovani… e ricorderà agli adulti quello che avevano dimenticato.


Ogni libro che scrivo è un pezzo di un mosaico. E anche se ogni storia può essere letta da sola, tutto è connesso. Ogni personaggio, ogni simbolo, ogni frase non detta.

L’Archivio Blackwood non è mai stato solo una serie di romanzi.
È un mondo.
E vi assicuro: abbiamo appena iniziato a sfogliarlo.

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Le Stanze Segrete di Londra


Luoghi reali che sembrano usciti da un romanzo gotico

Londra non è solo la città che ospita le storie dell’Archivio Blackwood: è essa stessa una storia che si racconta da sola. Dietro ogni muro annerito dalla fuliggine, sotto ogni lastra di pietra, si nasconde un varco. Non verso l’inferno – quello è troppo semplice – ma verso i segreti dimenticati.

Scrivendo i miei romanzi, passo dopo passo, mi sono imbattuto in luoghi reali che sembrano inventati. E invece sono lì, in carne, pietra e polvere. Questo articolo è un viaggio. Non serve una lente d’ingrandimento, ma occhi che sappiano ancora vedere.


La cripta della chiesa di St. Bride – Dove il silenzio scrive ancora

Sotto l’elegante chiesa barocca di St. Bride’s, nel cuore di Fleet Street, c’è una cripta che pare respirare. Un tempo rifugio e ossario, oggi è uno dei pochi luoghi dove il tempo si è fermato.
Le ossa che dormono lì non sono famose, ma forse proprio per questo inquietano. Alcuni parlano di un odore dolciastro che si diffonde in certe notti umide, e di una figura che si aggira tra le colonne.

Una delle scene del mio romanzo è nata proprio qui, in punta di piedi, con la torcia tremolante di uno dei custodi notturni che ancora ricorda un passo alle sue spalle…


I tunnel murati sotto Aldwych – Il cuore sigillato della città

Aldwych Station è chiusa da decenni. Ma il vero segreto non è il binario dimenticato. Sono i passaggi murati, i cunicoli in pietra che nessuno osa più aprire.
Dicono portassero a magazzini, rifugi antiaerei, archivi. Ma c’è chi parla di celle monastiche, cappelle sotterranee e perfino stanze in cui si praticavano rituali esoterici durante il periodo vittoriano.

Uno degli ultimi esploratori urbani che ci è entrato, nel 2007, ha lasciato online una nota criptica: “C’erano tracce di cera. Ma non c’erano mai state candele.”


La casa abbandonata di Cock Lane – Il fantasma di Scratching Fanny

Cock Lane, vicino a Holborn, è uno di quei nomi che strappano un sorriso… finché non si scopre cosa è accaduto al numero 25.
Nel 1762, una giovane serva chiamata Fanny morì in circostanze sospette. Qualche settimana dopo, iniziarono rumori, graffi, lamenti. Il caso fu tanto noto da coinvolgere perfino William Hogarth e Samuel Johnson.
Il fenomeno venne poi etichettato come truffa… ma la casa, nei secoli, non fu mai più abitata a lungo. Oggi è murata. Nessuno ne parla, ma l’archivio cittadino ne segnala ancora l’esistenza, tra carte sbiadite e progetti mai approvati.


Il Club delle Ossa – Dove i vivi brindavano ai morti

A due passi da Piccadilly, in un edificio oggi anonimo, esisteva il cosiddetto Club delle Ossa, una società segreta vittoriana che si riuniva per cene commemorative… con ospiti molto particolari.
Alcuni membri erano imbalsamatori, medici, altri semplici nobili eccentrici. La cena prevedeva un posto vuoto a tavola e un calice di vino versato in terra, seguito da un brindisi silenzioso.
Ogni mese un nome veniva estratto e… scompariva. Nessun verbale è mai stato ritrovato, solo lettere anonime e una medaglia nera con inciso: “Viviamo per ricordare.”


Il passaggio nascosto dietro la libreria di Holborn – Una leggenda urbana?

C’è chi giura che in una vecchia libreria di Holborn – non più esistente – si trovasse una scala nascosta dietro un pannello. Un corridoio che portava sotto il Tamigi, verso il Temple.
Ovviamente non ci sono prove, solo racconti tramandati da generazioni di antiquari. Ma uno dei miei contatti all’università mi mostrò una mappa del 1826, con una linea rossa senza nome, che partiva proprio da lì.

E se fosse vero?


In fondo, Londra non è cambiata.

Camminando per i suoi vicoli, ti accorgi che i muri non dimenticano. Che sotto i nostri piedi c’è un secondo mondo, fatto di silenzi, pietra umida e memorie sigillate.
I romanzi gotici non li abbiamo inventati. Li abbiamo solo trascritti. Erano già lì.

Tu entreresti in uno di questi luoghi?


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5 Oggetti Reali Inquietanti Trovati in Case Vittoriane


Certe case non parlano. Sussurrano soltanto… attraverso gli oggetti che vi abitano ancora.

La Londra vittoriana era un teatro di ombre, superstizioni e stranezze. In quel mondo, nulla era davvero solo un oggetto: tutto poteva nascondere un segreto, una maledizione o un ricordo impossibile da cancellare. Nel mio lavoro di ricerca per l’universo di Blackwood, mi sono imbattuto in alcuni reperti davvero esistiti, oggi conservati in musei, collezioni private o semplicemente… dimenticati nei diari del tempo.

Ecco 5 oggetti reali e documentati trovati in abitazioni dell’epoca, oggetti che potrebbero benissimo appartenere all’Archivio Blackwood.


1. Il cuscino con denti da latte cuciti

Nel 1879, a Bethnal Green, durante il restauro di un’abitazione abbandonata, venne trovato un piccolo cuscino imbottito… non di piume, ma di denti da latte cuciti con filo nero. Secondo alcune credenze popolari, cucire i denti proteggeva l’anima del bambino dalla possessione.
O forse, la intrappolava.


2. La Bibbia incisa con capelli umani

Nella zona di Clerkenwell, nel 1883, fu rinvenuta una Bibbia da viaggio le cui pagine recavano incisioni sottili eseguite con capelli intrecciati a punta d’ago. Ogni versetto riportava una data di lutto familiare. Un vero libro del cordoglio privato, dove la fede si confondeva con l’occulto.


3. Lo specchio che non rifletteva le donne

A Whitechapel, un vecchio specchio ottagonale conservato oggi al Museum of London fu al centro di una credenza straziante: non rifletteva il volto delle donne, solo degli uomini. Si scoprì che, in realtà, lo specchio era stato inclinato leggermente verso l’alto per anni. Ma i racconti delle inquiline lo descrivevano come “uno specchio che conosce il peccato”.


4. La bambola cieca con palpebre cucite

Trovata in una soffitta a Limehouse, nel 1891: una bambola di stoffa dai bottoni rimossi e le palpebre cucite con filo rosso. Nessuna spiegazione fu mai trovata, se non una nota: “Non deve guardare”. Alcuni ipotizzarono che appartenesse a un rituale per tenere lontani spiriti maligni.
O per tenerli dentro.


5. Il baule delle ossa

Scoperto nel 1902 durante una demolizione a Seven Dials: un piccolo baule chiuso da due lucchetti arrugginiti, contenente ossa animali miste a resti umani infantili, secondo il referto dell’epoca. Non venne mai aperto pubblicamente: fu confiscato dalla polizia e… sparì.


Perché inserirli nei tuoi racconti?

Ogni oggetto è un frammento narrativo in potenza. Ognuno contiene:

  • Un simbolo (la bambola cieca = ignorare la verità)
  • Un enigma (lo specchio = percezione selettiva)
  • Un trauma (la Bibbia incisa = lutto e colpa)
  • Una possibilità per fare paura senza mostri.

Nel mio romanzo Il Vangelo delle Ombre, questi elementi non sono solo suggestione: diventano porta d’accesso a un altro mondo, e danno forma al Male stesso.
Perché il Male, spesso, indossa il volto dell’abitudine.


Hai mai trovato un oggetto inquietante in una casa antica?

Scrivilo nei commenti o raccontamelo su Instagram o Telegram: potresti ispirare il prossimo caso dell’Archivio…


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