Un progetto che segna un passo importante nel mio percorso
Il 9 dicembre arriverà un nuovo libro pubblicato da Delos Digital, all’interno della collana “I Coriandoli”. È un progetto che ho curato con attenzione, pagina dopo pagina, e che rappresenta una tappa significativa del mio lavoro come autore: una fusione tra ricerca, scrittura e identità narrativa, pensata per chi segue da tempo il mio percorso e per chi ama addentrarsi nelle zone d’ombra della mente umana.
Non anticipo nulla del contenuto. Non c’è trama da scoprire in anticipo, nessun dettaglio rivelato. Questo annuncio non è un’anteprima della storia, ma l’apertura di una finestra sul lavoro che c’è dietro. Ogni libro, prima ancora di essere letto, è un viaggio creativo fatto di scelte, rinunce, revisioni e intuizioni che arrivano nei momenti meno prevedibili.
Pubblicare con Delos Digital significa inserirsi in un catalogo ricco di voci e di stili, in una casa editrice che valorizza l’identità dell’autore e permette di sperimentare con libertà e precisione. Per me è un traguardo, ma anche un nuovo punto di partenza.
Nei prossimi giorni condividerò cover reveal, curiosità editoriali e retroscena del processo creativo, sempre senza svelare ciò che troverete tra le pagine. Sarà un percorso graduale, pensato per accompagnare i lettori fino al giorno dell’uscita.
Per ora, mi fermo qui: una data, un editore, e l’emozione di ciò che sta per arrivare.
C’è un luogo, in Italia, dove l’editoria digitale ha saputo raccogliere ciò che molti consideravano disperso: voci fuori dal coro, racconti disturbanti, narrativa di genere che non chiede il permesso. Quel luogo ha un nome che gli appassionati del fantastico conoscono bene: Delos Digital.
Fondata come evoluzione naturale dell’universo narrativo di Delos Books, questa realtà editoriale ha saputo imporsi nel panorama italiano con un’offerta ricca, specializzata e sorprendentemente accessibile. Ebook agili, curati, in grado di spaziare dal thriller al dark fantasy, dall’horror alla fantascienza più visionaria.
Ma la forza di Delos Digital non è solo nella varietà di collane. È nella sua capacità di dare spazio ad autori con una voce forte, spesso spigolosa, a volte scomoda, ma sempre autentica. È l’unica casa editrice, nel suo genere, capace di pubblicare ebook seriali che costruiscono universi narrativi coerenti, come accade con le grandi collane anglosassoni. E di farlo senza snaturare l’identità dell’autore.
Per me, come autore, è un onore annunciare che una delle mie prossime opere vedrà la luce proprio all’interno di questo catalogo. Un libro che si addentra nei meandri più inquieti della mente umana. Ma per ora, non aggiungerò altro. Solo questo: restate sintonizzati.
Nel frattempo, vi invito a esplorare il mondo di Delos Digital: scoprirete antologie visionarie, saggi coraggiosi, racconti che lasciano cicatrici. Non è solo intrattenimento: è una forma di esplorazione del lato oscuro della letteratura.
Ho sempre pensato che scrivere fosse un viaggio nel silenzio. Un percorso fatto di ombre, ricordi, paure… e di voci che non trovano una forma. Quando infatti sono stato intervistato dal Club del Libro, ho avuto occasione di raccontare non solo i miei titoli già pubblicati o in uscita, ma soprattutto l’idea di fondo che li tiene vivi: il desiderio di dare corpo a ciò che resta taciuto.
L’origine del racconto
Ho cominciato a scrivere attorno ai dodici anni, per liberarmi da pensieri che non sapevo spiegare a voce. Raccontavo storie brevi, dark, istintive… e già allora capivo che dietro l’incubo c’era un motivo. Scrivere è diventato la necessità di trovare un ordine nel caos quotidiano, una via per restare me stesso quando il mondo sembrava chiedermi silenzio.
Il percorso: tra indipendenza e editoria
Oggi ho un accordo con Bookabook e Saga Edizioni, ma il mio sguardo va oltre: la libertà creativa è la bussola che non voglio mai perdere. Il blocco dello scrittore? Esiste, ma è solo un momento: il vero motore è farsi trovare in ascolto, senza forzare, aspettando che le idee si trasformino in trama.
Personaggi, trama e verità
«Costruisco i miei personaggi a partire dalle loro fragilità… Mi interessa più ciò che nascondono che ciò che mostrano». Queste parole, pronunciate… …mi restituiscono la ragione profonda del mio lavoro: non voglio solo narrare. Voglio toccare l’intimità del Male, del Vuoto, del Silenzio. La trama? È il sentiero. I personaggi? Sono la ragione per cui vale la pena percorrerlo.
Critica, feedback e comunità
Le recensioni negative? Non le temo. Le false sì, le contesto. Ma ciò che mi emoziona è il dialogo con i lettori: ogni messaggio, ogni riflessione mi ricorda perché ho iniziato – per condividere ciò che resta nell’ombra.
Ci sono crimini che non si esauriscono nei fatti, ma continuano a vivere nelle domande che lasciano dietro di sé. La figura del “mostro” affascina e spaventa da sempre, perché non rappresenta solo la devianza, ma anche il riflesso più oscuro dell’animo umano. Dietro l’orrore di un delitto c’è quasi sempre una mente che si è spezzata, un’identità che ha perso il confine tra realtà e delirio. È in quel momento che l’uomo oltrepassa il limite, trasformandosi in ciò che la società non riesce più a comprendere.
Molti dei casi più inquietanti della storia — da Jack lo Squartatore a Ed Gein — mostrano un filo invisibile che lega la violenza al bisogno di controllo, al trauma, alla solitudine e, spesso, a un’ossessione profonda verso la figura materna o verso il divino. Ed Gein, in particolare, rappresenta una frattura simbolica: l’uomo che ha trasformato la propria casa in un mausoleo, confondendo amore, colpa e fede. Dietro la cronaca, si nasconde una mente fragile e disorientata, incapace di distinguere peccato e purificazione.
Studiare il male non significa giustificarlo, ma comprenderlo. Ogni omicidio rituale, ogni gesto apparentemente inspiegabile, è il sintomo di un vuoto che si riempie di follia. E solo guardando dentro quel vuoto possiamo capire quanto sottile sia la linea che separa l’essere umano dal suo abisso.
Il mio saggio Il Culto della Madre – Ed Gein e l’orrore nella mente umana nasce proprio da questa domanda: cosa spinge un uomo a credere che la morte possa essere un atto di redenzione?
Ho deciso di raccontare il dietro le quinte di questo saggio in una forma un po’ diversa dal solito: un’intervista immaginaria, ma realistica, per condividere meglio le motivazioni, le scelte e il percorso che mi hanno portato a scrivere Il Culto della Madre. Un modo diretto e sincero per chi mi segue dall’inizio – o mi scopre solo ora – per entrare con me nelle radici di un progetto nato dieci anni fa, e solo oggi finalmente compiuto.
Intervistatore – Claudio, sei conosciuto soprattutto per la tua narrativa gotica, per la saga dell’Archivio Blackwood. Ma stavolta hai sorpreso tutti con un saggio disturbante e affascinante. Perché Ed Gein?
Claudio Bertolotti – Perché incarna perfettamente il confine tra realtà e incubo. Chi mi segue sa che nei miei romanzi mi muovo sempre tra crimine, occulto e psicologia deviata. Ma Ed Gein non è una creazione letteraria. È esistito. E quello che ha fatto – o meglio, quello che ha rappresentato – va ben oltre l’horror. È stato l’archetipo del mostro moderno, la matrice nascosta dietro personaggi come Norman Bates, Leatherface, Hannibal Lecter. Volevo togliergli la maschera da cinema e riportarlo alla sua vera natura: un uomo solo, spezzato, vittima e carnefice al tempo stesso.
Intervistatore – Quando hai iniziato a lavorare a questo saggio?
Claudio Bertolotti – Dieci anni fa. Era il 2013, e stavo guardando American Horror Story: Asylum. Il personaggio di Bloody Face mi colpì come un pugno: inquietante, magnetico, terribilmente plausibile. Quando scoprii che era ispirato a Ed Gein, iniziai a fare ricerche. E da lì si aprì un mondo. Ho letto verbali processuali, articoli d’epoca, studi di criminologia, ma anche testi meno convenzionali. È stato un lavoro lungo, frammentato, che si è intrecciato con la mia scrittura narrativa. Ma non l’ho mai abbandonato.
Intervistatore – Cosa ti ha spinto a pubblicarlo proprio adesso?
Claudio Bertolotti – Era il momento giusto. Dopo aver pubblicato tre romanzi gotici – Le Ombre di Whitechapel, Il Vangelo delle Ombre e Il Carnefice del Silenzio – sentivo il bisogno di dire qualcosa di reale, di storico, ma che fosse comunque in linea con il mio mondo creativo. Ed Gein non è solo un fatto di cronaca. È una lente deformante sul concetto di madre, di fede, di identità. Il titolo, Il Culto della Madre, non è casuale. È un viaggio dentro una mente spezzata, ma anche dentro una cultura che ha prodotto quel tipo di mostro. E che forse continua a produrli.
Intervistatore – A chi è rivolto questo saggio?
Claudio Bertolotti – A chi ama il true crime, certo. Ma anche a chi cerca un approccio più profondo. Non troverete dettagli morbosi o macabri gratuiti: ho voluto scavare nella psicologia, nell’infanzia, nella religione e nel contesto culturale. Ho scritto questo saggio come se fosse un’indagine. Ma anche come una confessione. Perché alla fine, ogni autore scrive per capire qualcosa di sé. E in Ed Gein, per quanto paradossale possa sembrare, ho ritrovato il lato più oscuro del bisogno di appartenere, di amare, di non essere soli.
Intervistatore – Progetti futuri in ambito saggistico?
Claudio Bertolotti – Sì. Questo è solo l’inizio. Dopo aver rotto il silenzio con Il Culto della Madre, sto già lavorando a nuovi saggi sul rapporto tra crimine, mitologia e religione. Ma continuerò anche con la narrativa gotica. Le due cose non sono in contrasto, anzi: si alimentano a vicenda.
Intervistatore – Una frase per chi sta decidendo se leggere o meno il tuo saggio?
Claudio Bertolotti – Se pensi di sapere tutto su Ed Gein, ti sbagli. Se credi che sia solo un mostro, ti sbagli ancora di più. Solo entrando nella sua mente, capirai perché il vero orrore non è ciò che ha fatto… ma ciò che lo ha creato.
C’è un confine sottile, fragile come un filo di seta, tra amore e dominio. Lo si attraversa senza accorgersene, spesso con le migliori intenzioni. È un confine che ho imparato a conoscere studiando la storia di Ed Gein, e che continuo a esplorare nei miei romanzi gotici, dove la devozione si trasforma in prigione e la fede si piega all’ossessione.
Nel caso di Gein, tutto nasce in una casa isolata nel Wisconsin, dove una madre impone al figlio una religione privata, fatta di colpa e castigo. Gli insegna a temere il mondo, a diffidare delle donne, a rifugiarsi solo in lei. Quando quella figura muore, Ed resta solo con i suoi fantasmi… e con l’impossibilità di lasciarla andare. La madre diventa la sua voce interiore, il suo idolo e la sua condanna. L’amore si trasforma in idolatria necrotica.
Non è solo follia, è un meccanismo umano e universale: la paura di perdere il controllo sull’unica cosa che ci fa sentire vivi. Ecco perché storie come questa ci attraggono tanto: perché parlano, in fondo, della nostra fragilità più antica. Il bisogno di essere amati.
Nei miei romanzi, da Le Ombre di Whitechapel a Il Vangelo delle Ombre, la maternità, la fede e la protezione assumono spesso forme oscure. Dietro la luce dell’amore si nasconde sempre un’ombra che pretende obbedienza. E a volte, per liberarsi da essa, serve un atto di distruzione. È la stessa dinamica che muove Gein, ma anche molti dei miei personaggi: uomini e donne prigionieri di una voce che li chiama “figlio mio”, e che non permette loro di esistere da soli.
Perché l’amore, quando diventa possesso, non salva più. Divora.
Qui puoi scaricare Il culto della madre Ed Gein e l’orrore nella mente umana
C’è una domanda che mi fanno spesso, a volte con curiosità genuina, altre con un mezzo sorriso ironico: “Ma nei tuoi libri c’è sempre qualcosa di oscuro. Dove metti il limite?”
La risposta è semplice: il limite c’è, eccome. Ma non è dove pensano loro. Il vero limite — quello invalicabile — non riguarda quanto orrore posso raccontare. Riguarda cosa scelgo di non raccontare. E perché.
Cosa non troverete mai nei miei libri:
L’orrore gratuito. Ogni scena disturbante ha un motivo narrativo o simbolico. Non scrivo per scioccare. Scrivo per scavare. Se qualcosa deve far male, lo deve fare per un senso profondo, non per intrattenere a buon mercato.
Il dolore di bambini e animali descritto con morbosità. Ci sono accenni, simboli, minacce. Ma non troverete mai una descrizione compiaciuta o voyeuristica. Per me il rispetto per la vulnerabilità non è negoziabile.
Il bene assoluto. Non mi interessano i personaggi perfetti. I miei eroi sono fragili, sbagliati, e a volte inciampano nel fango. Ma non tradiscono mai ciò che li muove. Preferisco un uomo che cade cento volte a uno che non si sporca mai.
Il lieto fine imposto. Se una storia deve finire male, finirà male. Non sono uno scrittore che accarezza. Ma se finirà bene, sarà un bene sofferto, conquistato, insanguinato. Mai comodo. Mai facile.
La spiegazione di tutto. In ogni mio libro resterà qualcosa di non detto. Un’ombra che si ritrae, una domanda lasciata aperta, un dettaglio che non torna. Perché così funziona la realtà. E anche la paura.
Scrivere è un atto di verità, non di compiacenza. E io non riesco a scrivere nulla che non sia, in qualche modo, necessario.
Magari non piacerà a tutti. Ma questo è il patto che offro al lettore: ti porto dove sono stato. Ma non ti dirò dove finisce il sentiero.
Quando chiudo il portatile, spengo la luce e mi stendo nel letto, la nebbia resta con me.
Non scrivo solo di nebbia, oscurità e silenzi perché amo il gotico. Lo faccio perché, una volta chiuso il sipario del giorno, mi rendo conto che è in quel tipo di mondo che la mia mente torna a casa. Quello che scrivo nasce lì: in quella zona grigia tra il sonno e la veglia, dove tutto si fa più poroso, dove i contorni si sfumano, e le ombre — finalmente — parlano.
Ma chi sono davvero, una volta spento tutto?
Sono un padre che guarda sua figlia dormire e si chiede in che mondo crescerà. Un uomo che ha paura, spesso. Che combatte contro l’ansia, contro la stanchezza, contro il bisogno — a volte crudele — di essere all’altezza di qualcosa che non ha ancora un nome. Un marito che si siede accanto alla donna che ama e, tra una cena e un film a metà, prova a tenere accesa una scintilla che gli ricorda perché ha scelto di vivere con lei.
Sono uno che ha scoperto tardi che scrivere non è un gioco, ma una necessità. Che ci sono storie che ti abitano anche quando non vuoi. E che a un certo punto, se non le scrivi, cominciano a parlare da sole.
Non sono un eroe. Non ho poteri. Ma ho un vizio — quello sì — che non riesco a smettere: non riesco a voltarmi dall’altra parte.
Quando sento una storia, un dolore, una stortura che fa rumore nell’anima… lo so che prima o poi finirà dentro una pagina. Non per giudicare. Ma per capirla. O almeno per lasciarle un posto in cui vivere.
E allora, chi è Claudio Bertolotti quando spegne la luce?
È qualcuno che spera che, nel buio, ci sia ancora qualcosa di vero. Che scrive per restare. E che ha imparato a parlare con le ombre. Non perché sia coraggioso. Ma perché le ombre, a volte, sono le uniche a rispondere.
Prima ancora che nascesse L’Archivio Blackwood, prima che prendessero forma i miei personaggi e i loro tormenti, c’era lui: Edgar Allan Poe. Un nome che non è solo un riferimento letterario, ma una fessura nella parete del tempo, da cui filtra una voce. È una voce disturbata, disturbante, ossessiva. Una voce che ho ascoltato più volte prima di iniziare a scrivere.
Tra i suoi racconti più celebri, ce n’è uno che, ancora oggi, mi stringe lo stomaco come una morsa: “Il cuore rivelatore” (The Tell-Tale Heart, 1843). Un racconto breve, secco, ma spietato. Una discesa in prima persona nella follia, nella paranoia, nel suono costante di una colpa che non vuole essere sepolta.
La trama in breve (senza spoiler)
Un uomo, ossessionato dall’occhio di un vecchio, decide di eliminarlo. Ma ciò che lo distruggerà non sarà la giustizia umana, bensì il battito insistente di un cuore che non smette di pulsare.
Perché questo racconto mi ha influenzato
Ciò che rende questo testo immortale non è il fatto in sé, ma la voce del narratore. Non sappiamo chi sia. Non sappiamo nemmeno se ciò che racconta sia reale. Ma sentiamo la sua angoscia, le sue giustificazioni, il suo delirio.
Questa ambiguità tra realtà e follia è una delle cifre che ho portato nei miei racconti. In Il Vangelo delle Ombre o in Il Carnefice del Silenzio, il lettore è spesso lasciato sospeso tra ciò che è accaduto e ciò che si crede sia accaduto. Poe mi ha insegnato che la vera paura non nasce dal mostro… ma dal dubbio.
Una scrittura che parla all’inconscio
La lingua di Poe è musicale e ipnotica. Ogni parola è un passo verso l’abisso, ogni frase è costruita come una spirale che ti stringe. Eppure è semplice. Mai pretenziosa. Mai sterile.
Da lui ho imparato che non serve spiegare il male. Basta lasciarlo parlare con la propria voce. Una voce che, a volte, suona troppo simile alla nostra.
Se non avete mai letto “Il cuore rivelatore”, fatelo. Se lo avete letto, rileggetelo. E poi… ascoltate. Perché là fuori, o forse dentro di voi, un cuore batte ancora.
Ci sono immagini che ti attraversano senza bussare.
Non chiedono permesso, non si annunciano con logica: arrivano come un sussurro nella notte, una lama sotto pelle, e restano lì. Impossibili da ignorare. E spesso, sono proprio quelle che finiscono nei racconti di Blackwood.
Molti mi chiedono: “Come nascono certe scene?”
Quelle della bambola con la bocca cucita, della donna in vestaglia che parla in latino davanti al camino o della scala che sale nel nulla tra la nebbia. E la risposta è sempre la stessa: non le creo. Le osservo.
L’origine di una visione
Di solito accade la sera, quando il rumore del mondo rallenta. Il cervello smette di costruire e comincia a raccogliere. Ed è lì che compaiono.
Una frase. Un’ombra. Un suono.
Una volta mi sono svegliato con una frase precisa in testa, come se me l’avessero detta nel sogno:
“L’unica porta che non dovresti aprire è quella che hai dentro.”
Da lì, è nata la scena della chiave nello sterno. Non sapevo ancora chi fosse il cadavere sul tavolo, né chi l’avesse aperto, ma la chiave era lì. Conficcata nel centro del petto. E ho iniziato a scrivere.
Luce fioca e simboli antichi
Altre volte, è tutto più razionale. Studio libri sul folklore, su culti oscuri, sulla simbologia medievale, e poi la mente fa il resto. Un simbolo trovato in un grimorio del XVII secolo può finire inciso nel muro di una camera da letto. Una formula latina antica diventa un sussurro blasfemo nella bocca di una posseduta.
SPOILER: Anche il Viaggiatore dell’Ombra, apparso per la prima volta ne Il Vangelo delle Ombre, è nato così. Non volevo descriverlo in modo chiaro. Era troppo potente per essere limitato in una forma. Ma avevo un’immagine: un’ombra alta, senza occhi, che si piega sulle vittime come un velo unto.
Il tempo come alleato
Non tutte le idee arrivano complete. A volte ci mettono mesi a maturare. SPOILER: La scena dell’orfanotrofio nel racconto Hollowgate (in stesura) è nata da un incubo fatto nel 2024, che ho annotato nel telefono. Solo un anno dopo ho capito dove andava collocato: nel passato di Elias, il bambino con il simbolo tracciato sul muro.
Scrivere horror gotico non significa solo spaventare. Significa riportare a galla tutto ciò che la società moderna ha dimenticato. Le paure primordiali, le ombre interiori, il bisogno di dare un volto al male.
E quando non arriva nulla?
Non scrivo. Mai forzare l’oscurità. Aspetto. Leggo. Cammino nella nebbia. A volte la scena che cercavi arriva quando smetti di inseguirla.
E quando lo fa… la riconosci subito. È quella che ti fa abbassare gli occhi dopo averla scritta.
Vuoi scoprire da dove arrivano le altre visioni?
Allora tuffati nei racconti dell’Archivio Blackwood. Ma attento: alcune porte, una volta aperte… non si richiudono.