Un giorno qualunque nel 1888… o forse no


“Alcuni giorni si lasciano raccontare. Altri si nascondono. Questo, invece, ci ha trovato.”


12 dicembre 1888 – Bethnal Green, Londra

Un uomo cammina lungo Cambridge Road. È l’alba. Porta con sé una borsa di pelle consumata e un piccolo mazzo di fiori secchi.

Dice che è per la moglie.

Dice che l’aspetta ogni giorno, da quando è morta nel 1879.

Ma nessuno gli ha mai chiesto nulla.

Nessuno tranne un ragazzo, stamattina, poco dopo le 6:00.

Gli ha chiesto: “Perché lo fai?”

E l’uomo ha risposto:
“Perché oggi è il giorno in cui torna.”

Poi si è voltato verso la cancellata del cimitero.
E ha sorriso.

Il cancello era già aperto.

Ma nessuno aveva le chiavi.

Né il custode. Né il vicario. Né Scotland Yard.
Eppure, il cimitero era aperto dall’interno.

L’uomo? Mai più visto.
La sua borsa? Trovata vicino a una tomba mai registrata.
I fiori secchi? Disposti a forma di croce rovesciata.

Sul retro della lapide c’era incisa una frase:
“Un giorno qualunque, per chi non ascolta.”


Perché ho scritto questo?

Perché i miei romanzi nascono da notti così.
Da appunti scritti su fogli che nessuno ha mai chiesto.
Da storie come questa, che sembrano finte, ma suonano vere.
Oppure sono vere, ma sembrano scritte.

E tu, lettore, che stai leggendo ora,
dimmi:
sei sicuro che oggi sia solo un giorno qualunque?


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I titoli che ho scartato prima de Il Vangelo delle Ombre


Trovare il titolo giusto per un libro è come cercare il battito del cuore in una stanza buia. Sai che c’è. Ma non basta sentire un rumore. Devi riconoscerlo come quel rumore. Quello giusto. Quello che farà vibrare anche il lettore.

Per Il Vangelo delle Ombre, ho scartato almeno cinque titoli. Alcuni belli. Altri evocativi. Ma nessuno… funzionava davvero.


I titoli scartati (veri)

1. “Il Libro del Vuoto”
Suonava bene. Era cupo, denso, persino un po’ mistico. Ma era anche troppo astratto, troppo filosofico. E il romanzo non è solo vuoto. È pieno. Di sangue. Di ricordi. Di segreti.

2. “La Croce Nascosta”
Un titolo forte, simbolico, quasi biblico. Ma sembrava anticipare troppo. E poi c’era un rischio: sembrava un thriller religioso canonico. Il mio libro è altro.

3. “Il Sermone del Silenzio”
Mi piaceva. Molto. Ma era troppo vicino al titolo del terzo volume: Il Carnefice del Silenzio. Rischiavo confusione.

4. “L’Evangelium Tenebris”
Latinismi. Mi piacciono. Ma non tutti i lettori li amano. E un titolo deve attirare, non intimidire.

5. “Il Canto delle Cripte”
Suona gotico, giusto? Ma anche… fumettistico. E un po’ troppo barocco.


Perché ho scelto Il Vangelo delle Ombre

Alla fine, l’ho capito: serviva un titolo che fosse solenne, ma inquietante. Qualcosa che evocasse:

  • Religione deviata
  • Luce spenta
  • Parola scritta… ma maledetta

E così è nato:
Il Vangelo delle Ombre.
Un titolo che non spiega, ma sussurra. Che non mostra… ma attira dentro.

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Cosa deve avere un titolo, per funzionare?

Secondo me, tre cose:

  1. Risuonare con il cuore del libro
    Non basta suonare bene. Deve contenere l’anima.
  2. Farsi ricordare
    Un titolo debole è come una porta anonima. Nessuno la apre.
  3. Accendere una domanda
    “Che cos’è questo vangelo? E perché è delle ombre?”
    Se un titolo genera una domanda, ha già vinto.

Ci sono titoli che sembrano perfetti, ma non sono il tuo. E altri che arrivano piano, come un sussurro dietro la spalla, e capisci che non potrai chiamarlo in nessun altro modo.


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Il tempo nell’Archivio Blackwood


Quando i minuti diventano ombre

C’è una frase che ricorre spesso nei miei libri, anche se in forme diverse:
“Il tempo non passa. Si accumula.”

Perché nel mio mondo narrativo, il tempo non è un flusso, ma una sostanza.
Un residuo.
Una nebbia che si deposita sulle cose, e che a volte le soffoca.


Il tempo come ferita

In Il Vangelo delle Ombre, gli orologi si fermano sempre nello stesso istante.
Nel Carnefice del Silenzio, i giorni si confondono in una sequenza di notti senza nome.
E in Le Ombre di Whitechapel, persino la luna sembra restare immobile sopra i tetti.

Non è un caso.
Perché per i miei personaggi, il tempo non guarisce nulla: conserva.
Conserva le colpe, i rimorsi, i sussurri mai confessati.
Ogni secondo che passa diventa una cella in cui rinchiudere qualcosa… o qualcuno.


Il tempo come personaggio

Non lo dico per metafora.
Nei miei libri, il tempo agisce.
È la vera entità che muove ogni cosa, più del male, più del destino.
Decide chi dimenticare e chi condannare a ricordare.
È il giudice silenzioso che osserva tutto, ma non interviene mai.

Per questo gli orologi, le clessidre e i rintocchi tornano spesso.
Non come simboli di morte, ma di attesa.
Perché nell’Archivio Blackwood, il tempo non uccide.
Aspetta.


Il tempo come trappola

Chi legge la saga lo sa: Blackwood vive nel passato anche quando guarda avanti.
Ogni caso, ogni indagine, ogni morte lo riporta indietro.
Non nel ricordo, ma nel ritorno.
Il tempo, per lui, è un labirinto che non porta da nessuna parte… perché non ha uscita.

Forse per questo le mie storie finiscono sempre dove sono cominciate.
Perché la fine, nell’Archivio, non è una conclusione.
È solo un altro inizio che finge di essere diverso.


E fuori dalla pagina?

Anche nella scrittura, il tempo è il mio nemico più fedele.
Scrivo lentamente, riscrivo tutto, cancello, ricomincio.
Ogni libro diventa un rito di pazienza.
E forse è per questo che continuo a scrivere:
per provare, almeno sulla carta, a domare il tempo.

Anche se so che, alla fine, sarà sempre lui a domare me.


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Le cose che butto via quando riscrivo un capitolo


Una delle domande che mi sento fare più spesso è:
“Quanto cambi rispetto alla prima stesura?”
La risposta breve?
Tantissimo. A volte tutto.

Perché ogni volta che rileggo un capitolo, mi accorgo che qualcosa — una scena, un personaggio, un dialogo — non serve più alla storia. O peggio: la rallenta.

E allora butto via.
Senza pietà. Ma con un certo rispetto.


Cose che taglio senza rimpianti:

  • Scene bellissime… ma inutili.
    Quelle che “suonano bene”, ma non portano avanti nulla. Né la trama, né l’atmosfera, né l’anima del libro.
    Le lascio andare. Se mi servivano solo per dimostrare che “so scrivere”, allora non mi servivano affatto.
  • Personaggi che non sanno chi sono.
    A volte nascono per dire una cosa, poi non parlano più. O dicono troppo. O non aggiungono nulla.
    Meglio eliminarli che tenerli come comparse confuse.
  • Finali alternativi.
    Sì, ne scrivo spesso più di uno.
    Ma alla fine ne tengo solo uno. Quello giusto per la storia, non quello più comodo, né quello più clamoroso.

Cancellare è un atto d’amore

Scrivere non è solo aggiungere.
Scrivere è anche togliere. Togliere il superfluo. Il debole. Il finto.
Tagliare vuol dire avere il coraggio di fare spazio a quello che conta davvero.

Ci sono scene che ho riscritto sei o sette volte.
Una in particolare — un dialogo tra Blackwood e il suo antagonista — ha cambiato forma talmente tante volte che potrei pubblicare un libro solo con le versioni scartate.

Eppure… solo nell’ultima ha funzionato.


Dietro ogni libro pubblicato c’è un libro mai nato

Un libro fatto di pagine cancellate, finali alternativi, personaggi sacrificati, idee accantonate.
Ma è proprio quel libro invisibile che dà forza a quello che resta.

Perché ciò che leggi non è mai tutto ciò che è stato scritto.
È solo ciò che — alla fine — è sopravvissuto.


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Cosa NON leggerete mai in un mio libro


C’è una domanda che mi fanno spesso, a volte con curiosità genuina, altre con un mezzo sorriso ironico:
“Ma nei tuoi libri c’è sempre qualcosa di oscuro. Dove metti il limite?”

La risposta è semplice: il limite c’è, eccome.
Ma non è dove pensano loro.
Il vero limite — quello invalicabile — non riguarda quanto orrore posso raccontare. Riguarda cosa scelgo di non raccontare. E perché.

Cosa non troverete mai nei miei libri:

  • L’orrore gratuito.
    Ogni scena disturbante ha un motivo narrativo o simbolico. Non scrivo per scioccare. Scrivo per scavare. Se qualcosa deve far male, lo deve fare per un senso profondo, non per intrattenere a buon mercato.
  • Il dolore di bambini e animali descritto con morbosità.
    Ci sono accenni, simboli, minacce. Ma non troverete mai una descrizione compiaciuta o voyeuristica. Per me il rispetto per la vulnerabilità non è negoziabile.
  • Il bene assoluto.
    Non mi interessano i personaggi perfetti. I miei eroi sono fragili, sbagliati, e a volte inciampano nel fango. Ma non tradiscono mai ciò che li muove. Preferisco un uomo che cade cento volte a uno che non si sporca mai.
  • Il lieto fine imposto.
    Se una storia deve finire male, finirà male. Non sono uno scrittore che accarezza.
    Ma se finirà bene, sarà un bene sofferto, conquistato, insanguinato. Mai comodo. Mai facile.
  • La spiegazione di tutto.
    In ogni mio libro resterà qualcosa di non detto. Un’ombra che si ritrae, una domanda lasciata aperta, un dettaglio che non torna. Perché così funziona la realtà. E anche la paura.

Scrivere è un atto di verità, non di compiacenza.
E io non riesco a scrivere nulla che non sia, in qualche modo, necessario.

Magari non piacerà a tutti.
Ma questo è il patto che offro al lettore: ti porto dove sono stato. Ma non ti dirò dove finisce il sentiero.

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Chi è Claudio Bertolotti quando spegne la luce?


Quando chiudo il portatile, spengo la luce e mi stendo nel letto, la nebbia resta con me.

Non scrivo solo di nebbia, oscurità e silenzi perché amo il gotico. Lo faccio perché, una volta chiuso il sipario del giorno, mi rendo conto che è in quel tipo di mondo che la mia mente torna a casa. Quello che scrivo nasce lì: in quella zona grigia tra il sonno e la veglia, dove tutto si fa più poroso, dove i contorni si sfumano, e le ombre — finalmente — parlano.

Ma chi sono davvero, una volta spento tutto?

Sono un padre che guarda sua figlia dormire e si chiede in che mondo crescerà.
Un uomo che ha paura, spesso. Che combatte contro l’ansia, contro la stanchezza, contro il bisogno — a volte crudele — di essere all’altezza di qualcosa che non ha ancora un nome.
Un marito che si siede accanto alla donna che ama e, tra una cena e un film a metà, prova a tenere accesa una scintilla che gli ricorda perché ha scelto di vivere con lei.

Sono uno che ha scoperto tardi che scrivere non è un gioco, ma una necessità.
Che ci sono storie che ti abitano anche quando non vuoi. E che a un certo punto, se non le scrivi, cominciano a parlare da sole.

Non sono un eroe. Non ho poteri.
Ma ho un vizio — quello sì — che non riesco a smettere: non riesco a voltarmi dall’altra parte.

Quando sento una storia, un dolore, una stortura che fa rumore nell’anima… lo so che prima o poi finirà dentro una pagina.
Non per giudicare. Ma per capirla.
O almeno per lasciarle un posto in cui vivere.

E allora, chi è Claudio Bertolotti quando spegne la luce?

È qualcuno che spera che, nel buio, ci sia ancora qualcosa di vero.
Che scrive per restare.
E che ha imparato a parlare con le ombre.
Non perché sia coraggioso. Ma perché le ombre, a volte, sono le uniche a rispondere.


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Com’è cambiata la mia scrittura dal primo al terzo libro?


Scrivere Le Ombre di Whitechapel è stato come accendere una candela in una stanza che non conoscevo. Scrivere Il Vangelo delle Ombre è stato come attraversare quella stanza al buio, fidandomi dei miei passi. Scrivere Il Carnefice del Silenzio… è stato come chiudere la porta dietro di me e decidere che quella stanza, ora, era mia.

Potrebbe sembrare una metafora un po’ pretenziosa. Ma è quello che sento davvero: ogni libro che scrivo è un passaggio, un cambiamento. Non solo nella storia che racconto, ma nel modo in cui la affronto.


1. Dalla precisione alla profondità

Nel primo libro ero attento a ogni dettaglio, quasi chirurgico. Dovevo dimostrare che sapevo scrivere, che conoscevo Londra, che la mia storia aveva senso. Ogni scena era pensata per essere “perfetta”. E a volte, ammetto, questo toglieva spontaneità.

Con Il Vangelo delle Ombre ho iniziato a fidarmi della mia voce. Ho scritto con più libertà, lasciando che l’atmosfera guidasse il ritmo. Ho accettato che un romanzo gotico può anche essere sbilanciato, storto, ferito — perché è così che sono le storie vere.


2. Il dolore non va spiegato

Nel terzo libro, Il Carnefice del Silenzio, ho smesso di spiegare il dolore. L’ho fatto accadere. Non ho cercato più di “giustificare” la morte di un personaggio, o l’oscurità che lo circonda. Ho imparato a mostrare senza filtrare. E chi legge… o sente quella ferita, o non la sente. Ma non si tratta più di convincere: si tratta di essere autentico.


3. Ho imparato il valore del silenzio

Il primo Blackwood parlava poco. Il terzo… ancora meno. Ma ogni parola pesa di più. Anche nei dialoghi. Anche negli spazi bianchi tra un capitolo e l’altro. Ho imparato che il silenzio è un’arma narrativa potentissima, soprattutto nel gotico. E che il non detto resta nella testa del lettore molto più a lungo di cento spiegazioni.


4. I personaggi sono diventati miei complici

All’inizio li creavo con una funzione. “Tu sei il medico”, “tu sei il sergente”, “tu sei il prete”. Ora sono persone. Declan mi manca. Monroe cresce da solo. Moira è un enigma anche per me. Quinn è morto, ma lo sento ancora dentro certi dialoghi.

Con Il Carnefice del Silenzio, i personaggi non sono più strumenti. Sono eco. Sono voci che mi parlano anche quando non scrivo.


5. Non scrivo più per finire

Il primo libro volevo finirlo. Chiuderlo. Dimostrare che ce l’avevo fatta.

Il secondo, volevo superarmi.

Il terzo… ho voluto viverlo.

Ora non scrivo più per “finire” una storia. Scrivo per farla respirare. Per farla rimanere. Per far sentire a chi legge che qualcosa di questa oscurità gli appartiene. Perché, in fondo, lo so: nessuno legge Blackwood solo per passare il tempo.

Chi resta… lo fa perché si sente a casa.

Anche se è una casa piena di ombre.


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Le vere cripte di Limehouse


Tra nebbia, misticismo e sepolture dimenticate

C’è qualcosa, in Limehouse, che non lascia scampo.

Chi ha letto i miei Libri sa che questa zona della Londra vittoriana è uno degli epicentri del Male. Ma la verità è che Limehouse è sempre stata un quartiere liminale: un crocevia tra mondi, tra superstizione e realtà, tra povertà estrema e segreti inconfessabili.

Cripte, chiese e cunicoli dimenticati

Nel sottosuolo di Limehouse si snoda una rete di cripte e gallerie sotterranee oggi quasi del tutto dimenticata. Alcune risalgono al XVII secolo, altre sono più recenti, costruite sotto le chiese sconsacrate o distrutte dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.

Molti documenti – compresi alcuni dossier ecclesiastici mai divulgati – parlano di spostamenti irregolari di resti umani, di cripte mai registrate ufficialmente e di riti privati tenuti in notturna, in epoche in cui il confine tra spiritualità e superstizione era sottilissimo.

Limehouse Hole: una leggenda che affonda nel fango

Una delle storie più note (ma mai confermate) è quella del cosiddetto “Limehouse Hole”, un’antica apertura nel terreno che secondo i racconti popolari non poteva essere riempita. Ogni tentativo di murarla o interrarla falliva: il giorno dopo, era di nuovo aperta.

Si dice che, nei primi dell’Ottocento, un gruppo di bambini scomparve nei pressi di quel buco. E che una veggente del tempo, conosciuta solo come Miss Eleanor, avesse affermato:

“Non sono morti. Sono stati raccolti.”

Un’espressione inquietante, che ricorda molto le tematiche trattate nei miei romanzi.

Quando la realtà ispira la finzione

Molti lettori mi chiedono se le cripte che appaiono nei miei libri esistano davvero. La risposta è: in parte, sì.

La cripta sotto la chiesa di St. Dismas (inventata) prende spunto da diverse fonti reali:

  • la cripta di St. Anne a Limehouse (reale),
  • alcuni tunnel murati scoperti nel 1892 durante i lavori per la rete fognaria,
  • e testimonianze raccolte in vecchi articoli del Pall Mall Gazette.

La finzione prende forma proprio da queste tracce: una frase, un dettaglio, un nome dimenticato diventano semi narrativi da cui germogliano storie oscure.

Perché ci affascinano le cripte?

Le cripte sono simboli. Sono l’inconscio urbano, il luogo dove la società nasconde ciò che non può spiegare o accettare. Sono tombe, ma anche passaggi. Rappresentano il passato che non smette di parlare e il silenzio che diventa assordante.

In Il Vangelo delle Ombre, le cripte non sono solo spazi fisici. Sono zone liminali, in cui il Male può emergere, ma anche in cui la verità può venire alla luce, se si ha il coraggio di guardare.


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Dentro le Stanze Proibite – Come nascono i luoghi dell’Archivio Blackwood


Ci sono luoghi che non esistono sulle mappe. Non servono coordinate per trovarli: basta chiudere gli occhi, trattenere il respiro… e ricordare.
Nei romanzi dell’Archivio Blackwood, i luoghi non sono semplici scenografie. Sono personaggi. Parlano, ascoltano, osservano. Alcuni si nutrono della paura, altri della memoria. Ma nessuno è mai neutro.

La regola del luogo-vivente

Quando creo un’ambientazione, non penso solo a cosa si vede. Penso a cosa si sente. Che odore c’è nell’aria? Che rumore fa il silenzio? Dove va la polvere quando si alza il vento?

Ogni ambiente deve avere:

  • una storia dimenticata
  • una presenza muta
  • una minaccia invisibile


Londra, 1888: la città che inghiotte

Londra è il cuore pulsante dell’intera saga. Ma non quella da cartolina. La mia Londra è una bestia che si contorce sotto la nebbia, una città che nasconde più di quanto riveli.
I quartieri non sono semplici luoghi: sono ecosistemi morali.

  • Whitechapel è la fame, la malattia, il peccato.
  • Limehouse è l’esilio, il veleno, l’attesa.
  • Bethnal Green è la follia, l’eco, il pozzo.

Ogni strada ha un’anima. E ogni anima… un prezzo.


Come nasce un luogo oscuro?

Dietro ogni ambientazione c’è uno studio. Non solo geografico, ma psicologico. Ecco il mio metodo:

  1. Parto da un concetto: l’oblio, la colpa, l’infanzia, il sangue.
  2. Lo trasformo in spazio: un orfanotrofio, un sotterraneo, un archivio murato.
  3. Aggiungo un “respiro”: qualcosa che il lettore non vede, ma percepisce.

Ogni stanza proibita deve avere una porta che non si dovrebbe aprire.
E ogni luogo, almeno una cosa che non vuole essere scoperta.


Ispirazioni visive e letterarie

Per costruire i luoghi dell’Archivio Blackwood mi ispiro a:

  • Le descrizioni di Lovecraft, dove l’indicibile è più forte di ciò che si mostra.
  • Il gotico vittoriano, dove l’architettura riflette l’anima.
  • Il cinema horror classico, da The Others a The Innocents, dove l’ambiente è protagonista.

Ma anche le fotografie d’epoca, i registri ospedalieri, gli archivi ecclesiastici… tutto è materia viva.


E oggi?

Sto lavorando a nuovi luoghi ancora più oscuri:

  • un pozzo al centro di un orfanotrofio, che cambia a ogni sogno.
  • una cappella sommersa, riemersa solo dopo un temporale.
  • un manoscritto nascosto nella cripta di una famiglia maledetta.

Perché ogni storia gotica merita il suo labirinto.


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L’Oscura Eredità di Lovecraft


Come il maestro dell’orrore cosmico ha influenzato il mio modo di scrivere

Ci sono autori che si leggono. Altri che si studiano.
E poi c’è Lovecraft.

Il suo nome evoca abissi insondabili, creature che nessun uomo dovrebbe nominare, e un orrore che non viene mai spiegato fino in fondo. Un orrore che si intuisce, che serpeggia, che trasforma la realtà in una vertigine. È questo il suo dono più oscuro: l’aver insegnato che ciò che ci spaventa davvero… è l’invisibile.

Quando iniziai a scrivere Il Vangelo delle Ombre, e ancora prima Le Ombre di Whitechapel, le sue parole mi tornavano spesso alla mente:

“Non è morto ciò che in eterno può attendere,
e col volgere di strani eoni anche la morte può morire.”

Questa frase da sola contiene tutta la filosofia lovecraftiana: la piccolezza dell’uomo, l’illusione del tempo, la fragilità della mente.

Lovecraft non costruiva trame nel senso classico.
Costruiva atmosfere.
Le sue storie sono fosche, nebulose, spesso senza risoluzioni consolatorie. Non esiste eroe, non esiste vittoria, esiste solo l’incontro – spesso casuale – con l’insondabile.

Quello che ho cercato di fare nei miei romanzi è proprio questo: creare una tensione costante, una nebbia mentale che avvolge il lettore, dove i protagonisti (Blackwood, Monroe, Padre Quinn) non affrontano solo mostri, ma dubitano del reale, dei simboli, di se stessi.

Lovecraft mi ha insegnato che l’orrore non deve essere spiegato. Anzi:
più tenti di spiegarlo, più lo riduci.

Ne Il Carnefice del Silenzio ho lasciato che certi eventi restassero sospesi, che alcune immagini emergessero solo come sussurri. Come avrebbe voluto lui.

Mi piace pensare che il mio Archivio Blackwood sia, nel suo piccolo, una lanterna accesa nella stessa caverna oscura in cui scriveva Lovecraft.
Una lanterna fioca, certo.
Ma che continua a tremare. A resistere.

Perché la paura non è solo un genere.
È un linguaggio.
E Lovecraft ce l’ha insegnato meglio di chiunque altro.


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