L’Egitto oscuro: simboli, maledizioni e musei

Ci sono culture che affascinano per la loro grandezza, altre per il loro mistero. L’antico Egitto riesce a fare entrambe le cose contemporaneamente: impone rispetto, incanta e inquieta.
Non per le “maledizioni” che il cinema ha trasformato in formula narrativa, ma per il peso simbolico che ogni oggetto, ogni incisione, ogni statua porta con sé. È un mondo che ha costruito il proprio linguaggio sull’oscurità e sulla luce, sulla vita e sulla morte, trasformando il sacro in un sistema complesso di significati che arriva fino a noi con sorprendente nitidezza.

Entrare nella Sala Egizia del British Museum — o in qualsiasi collezione dedicata — significa attraversare una soglia. Non è solo un’esposizione di reperti: è una forma di dialogo con una civiltà che ha reso la morte parte integrante della vita.
Ogni sarcofago, ogni amuleto con gli occhi di Horus, ogni statuetta funeraria non è un semplice oggetto antico. È un frammento di un sistema simbolico costruito per proteggere, per guidare, per minacciare o rassicurare.
E l’effetto, per chi osserva, è immediato: un silenzio che sembra custodire qualcosa di più grande.

Spesso si parla di “maledizione del faraone” come leggenda popolare, ma ciò che davvero colpisce è altro.
Gli antichi egizi non temevano i morti: temevano l’oblio.
Temevano di perdere il nome, il volto, il ricordo.
Per questo ogni tomba è una dichiarazione d’identità, un talismano narrativo contro l’evanescenza.

A livello narrativo, i simboli egizi funzionano perché uniscono due piani:
la concretezza della storia e il magnetismo dell’ignoto.
Un occhio inciso nella pietra non è mai solo un occhio: è un avvertimento, una sorveglianza, un frammento di coscienza trascinato attraverso i secoli.
Un colosso funerario non è una statua: è un guardiano.
E quando lo si osserva da vicino, anche in un museo illuminato a giorno, l’impressione è identica: qualcosa continua a vegliare.

Questo è il potere dell’antico Egitto.
Non è il mostro, non è la maledizione, non è la leggenda.
È la sensazione di essere osservati da un tempo che non ci appartiene.
Un tempo che non abbiamo più gli strumenti per comprendere, ma che continua a parlarci — in silenzio — attraverso pietra, colore e ombra.

Il fascino dell’Egitto oscuro nasce precisamente da qui:
dal suo modo di rendere eterno ciò che altrove sarebbe scomparso.
E questa eternità, quando la si avverte da vicino, fa sempre un po’ paura.


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IL MIO RAPPORTO CON LA PAURA


…e con chi dice che non bisogna scrivere horror

C’è sempre qualcuno — lettore, critico, autore da salotto — che prima o poi te lo dice:
“Perché scrivi horror? Perché non scrivi qualcosa di più utile, più vero, più positivo?”

A volte lo dicono con tono preoccupato, come se temessero che chi esplora le ombre abbia qualcosa di rotto dentro. Altre volte lo fanno con una punta di superiorità, come se il gotico fosse una nicchia di serie B, un esercizio estetico per gente ossessionata dal macabro.

La verità è un’altra.
Io scrivo horror perché ho paura.
E la paura, per chi scrive, è una porta. Una lama sottile che separa il reale dal possibile, il mondo visibile da quello che scorre sotto. Raccontare la paura — soprattutto quella che non si può spiegare con una diagnosi o un referto — è un atto profondamente umano.

Non scrivo per spaventare. Scrivo per esplorare.

Non c’è un solo rigo nei miei libri che voglia “piacere al pubblico horror”.
Io non scrivo di mostri. Scrivo di uomini che si scontrano con ciò che non dovrebbe esistere.
Scrivo di orfanotrofi che conservano echi, di Bibbie con pagine cucite, di sacerdoti che smettono di credere, di ispettori che trovano nei vicoli più fango che prove.

Lo faccio perché l’orrore è uno specchio.
E in questo specchio, non vedo solo finzione: vedo le crepe della nostra realtà. Vedo il bisogno disperato dell’essere umano di trovare un senso, anche quando tutto crolla.

L’horror non è un trucco narrativo. È una forma di verità.

Chi dice che il gotico sia un genere “superato” non ha mai camminato davvero per Limehouse con la nebbia nelle ossa.
Chi riduce l’horror a cliché non ha mai letto i sussurri nei corridoi vuoti di un ospedale psichiatrico chiuso da trent’anni.

Il gotico non è passato.
È una lente con cui leggere il presente, un linguaggio fatto di simboli, architetture mentali e ombre che raccontano meglio di mille cronache.

Scrivere horror, oggi, è ancora più urgente.
Perché viviamo in un mondo che anestetizza il terrore con la cronaca nera e le breaking news, senza più lasciare spazio alla riflessione, al rituale, al sacro. Scrivere gotico, per me, è un atto di resistenza.

In fondo, il Male non chiede di essere capito. Chiede di essere riconosciuto.

E il compito di uno scrittore — almeno per come lo intendo io — non è offrire soluzioni.
È porre domande che inquietano.
E poi lasciare che sia il lettore, nella nebbia, a scegliere da che parte camminare.


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“Show, don’t tell” – Come usare i sensi per evocare invece di spiegare


Uno degli errori più frequenti nei testi degli autori emergenti è quello di raccontare troppo e mostrare poco. Non per inesperienza, ma per una forma di insicurezza: si ha paura che il lettore non capisca. E così si spiega tutto. Il risultato? Una narrazione piatta, poco immersiva, dove il lettore assiste passivamente invece di vivere la storia.

La regola d’oro è: “Show, don’t tell”. Ma cosa significa davvero?

Raccontare è dire:

“Era nervoso.”

Mostrare è evocare:

“Tamburellava le dita sul tavolo, evitando di incrociare lo sguardo di chiunque.”

Nella prima frase l’autore ci dà una diagnosi. Nella seconda, ci costringe a osservare, a entrare nella scena, a dedurre lo stato d’animo.

La chiave? I sensi.

Il lettore va guidato con suggestioni sensoriali, non con etichette. Vuoi mostrare la paura? Descrivi le mani fredde, il respiro corto, l’odore della muffa che sembra più intenso, l’orologio che ticchetta troppo forte nel silenzio.

La mente visualizza ciò che tocca, ascolta, odora, vede e assapora.
La scrittura efficace non dice: “La stanza era inquietante.”
Dice: “La carta da parati si staccava a strisce, mostrando chiazze scure come lividi. Un odore metallico stagnava nell’aria.”

Allenare lo “show” nella scrittura

  • Sostituisci aggettivi con dettagli: non “vecchia casa”, ma “travi annerite e finestre sbarrate”.
  • Evita di dire le emozioni: mostrale attraverso reazioni fisiche, gesti, silenzi.
  • Non abusare dei dialoghi esplicativi: lascia che siano le pause, i non detti e gli sguardi a parlare.
  • Evita i verbi di pensiero (sentiva, pensava, capiva) se puoi mostrarne le conseguenze.

In conclusione

“Show, don’t tell” non è una regola assoluta, ma uno strumento. E come ogni strumento, va usato con intelligenza. Talvolta dire è più efficace. Ma saper mostrare è ciò che distingue una penna scolastica da una penna narrativa.


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Il confine tra verità storica e licenza narrativa


Quando si scrive partendo da fatti realmente accaduti – come nel caso dei miei saggi narrativi su Ed Gein, Lizzie Borden o i casi dimenticati dell’Inghilterra vittoriana – si cammina su una linea sottile: quella che separa la verità storica dalla necessità narrativa.
Una linea che può diventare lama, se non si maneggia con attenzione.

La verità: punto di partenza, non di arrivo

La Storia ci offre frammenti: atti processuali, testimonianze, articoli di giornale, verbali lacunosi, dettagli clinici. Ma non sempre ci racconta tutto. Non ci dice cosa provava un assassino nel silenzio della sua stanza, né quali parole non dette hanno cambiato il corso di una confessione.
È qui che interviene lo scrittore.

Quando affronto un personaggio storico come Ed Gein, parto da ciò che è verificabile: date, perizie, cronache. Ma dove la documentazione tace – ed è inevitabile che accada – scelgo di evocare, non di inventare. Creo verosimiglianza, non finzione pura.

Verosimile non significa falso

Un lettore attento percepisce la differenza tra chi inventa una scena per spettacolarizzare e chi invece costruisce un ponte narrativo dove le fonti non arrivano. Ad esempio, se riporto un dialogo tra Ed Gein e un investigatore, non lo sto “inventando”: sto traducendo in forma narrativa ciò che il contesto suggerisce, le emozioni ricostruite, la tensione psicologica reale.
La finzione, in questi casi, è uno strumento di comprensione, non una bugia.

Licenza narrativa: quando è legittima?

La licenza narrativa diventa legittima solo quando non altera i fatti storici fondamentali.
Non cambierei mai una data di omicidio, non inventerei mai un crimine non accaduto, né attribuirei a un personaggio reale parole che stravolgano il senso del suo vissuto.

Tuttavia, posso scegliere di ambientare una scena in una stanza vuota e silenziosa anche se il verbale non la descrive. Posso usare immagini, suoni, atmosfere, per far emergere una verità emotiva che i documenti non sanno raccontare. È questa la forza della narrazione storica fatta con rispetto.

Perché scrivo così?

Perché credo che la memoria vada tramandata, non archiviata.
Perché un lettore, leggendo Il Culto della Madre o i miei racconti gotici ambientati nel 1888, deve sentire l’odore del tempo, il peso delle decisioni, il sussurro delle parole non dette.

E anche perché il mio compito non è giudicare, ma riportare alla luce. Con rispetto, profondità, e – quando necessario – con la delicatezza dell’immaginazione.


Vuoi scoprire come ho trasformato i verbali autentici del caso Ed Gein in una narrazione che non dimentica le vittime ma interroga chi legge?
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L’orrore del silenzio: cosa ci dice la casa di Ed Gein su di lui


Nel cuore rurale del Wisconsin, tra i campi ghiacciati di Plainfield, sorgeva una delle case più sinistramente celebri della storia americana. Non era un castello gotico, né una villa vittoriana infestata. Era una fattoria ordinaria, isolata, silenziosa. Eppure, al suo interno, il tempo si era fermato. Come un mausoleo, come un altare.
Era la casa di Ed Gein.

Le stanze chiuse: una madre che non muore mai

Dopo la morte di Augusta Gein, sua madre, Ed chiuse a chiave intere sezioni della casa: le stanze dove lei dormiva, leggeva la Bibbia, cucinava. Nessuno doveva toccarle. Nessuno doveva profanare quel tempio privato. Polvere, muffa, e un silenzio teso come una messa non celebrata. Il resto dell’abitazione invece divenne un cimitero vivo: resti umani trasformati in oggetti, pareti macchiate, odore di decomposizione e ammoniaca.

Non fu solo un gesto ossessivo: fu un tentativo di sospendere il lutto, di fermare la morte. Mummificare lo spazio per mummificare la madre.

La pelle come coperta: manipolare l’identità

All’interno della casa furono trovati oggetti che sfiorano il simbolico e sprofondano nell’indicibile: maschere di pelle umana, sedie rivestite di derma, ciotole ricavate da crani, labbra cucite su tende. Ogni oggetto parlava un linguaggio segreto, ancestrale.
Ed Gein non voleva solo uccidere. Voleva diventare qualcosa. Voleva indossare l’identità perduta della madre.
Un desiderio arcaico e cannibalico: non un travestitismo sessuale, ma un travestimento psichico.

Il linguaggio dell’orrore domestico

Tutto in quella casa urlava, ma nel più assoluto silenzio. Non vi erano scritte, né manifesti, né simboli esoterici. Solo oggetti.
Ogni oggetto aveva un posto preciso, come nel rituale di una liturgia. Ogni frammento umano sembrava non gettato a caso, ma disposto con devozione.
La casa divenne così un corpo, e Ed Gein il suo sacerdote.

Una domanda finale

Non c’è bisogno di inventare mostri quando l’orrore abita la casa accanto.
La vera domanda è: quanto silenzio possiamo sopportare prima che qualcosa si spezzi?


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Il mio nuovo Manuale di Scrittura Creativa Avanzata: un viaggio dentro la narrativa


Ci sono libri che si scrivono perché “servono” e libri che si scrivono perché diventano inevitabili.
Il Manuale di Scrittura Creativa Avanzata – Per scrivere narrativa appartiene alla seconda categoria: nasce da anni di studio, pratica, errori, riscritture, letture e confronti con altri autori e autrici. È, in qualche modo, il distillato del mio percorso narrativo.

Non è un manuale teorico.
Non è un insieme di regole astratte.
È uno strumento pratico, costruito per chi desidera davvero migliorare la propria scrittura e affrontare la narrativa con mentalità professionale.

Un manuale pensato per chi scrive davvero

In queste pagine troverai ciò che ogni autore, soprattutto agli inizi, vorrebbe avere tra le mani:

  • come sviluppare una storia in modo solido
  • come costruire personaggi tridimensionali
  • come lavorare sulle scene, sul ritmo e sulla tensione narrativa
  • come utilizzare il linguaggio in modo più consapevole
  • come evitare gli errori che, spesso, frenano chi inizia
  • come impostare davvero un romanzo
  • come ragionare da scrittore e non solo da appassionato

È un libro diretto, concreto, senza fronzoli.
Un compagno di viaggio, più che un docente.

Un percorso che continua: contenuti esclusivi in arrivo

Il manuale è solo il primo passo.
Tra pochi giorni sul mio sito ufficiale comparirà una nuova sezione dedicata interamente agli strumenti pratici per chi scrive.

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Lì troverai documenti inediti che sto preparando: schemi, tabelle, impostazioni di capitolo, risorse tecniche e materiali utili per ogni fase della scrittura creativa.
Saranno disponibili singolarmente e, più avanti, anche in bundle con il manuale, per chi desidera una guida completa e strutturata.

Un ringraziamento

Questo progetto esiste grazie alla fiducia di chi mi legge, di chi segue i miei romanzi, le mie analisi, i miei studi.
Ogni pagina nasce da un dialogo continuo con voi.

Il manuale è disponibile su Amazon:
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Il viaggio nella scrittura continua.
E questa volta, più attrezzati che mai.


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Dracula – Il respiro oscuro che ancora ci osserva


Ci sono romanzi che non si leggono: si attraversano. Come una soglia. Come una nebbia. Dracula di Bram Stoker è uno di questi. Pubblicato nel 1897, è più di un classico gotico: è un’eco persistente, un cuore nero che ancora pulsa tra le pagine della narrativa contemporanea.

Leggerlo oggi, dopo aver scritto tre volumi dell’Archivio Blackwood, è come tornare in una casa che non avevo mai lasciato del tutto.
La Londra crepuscolare, i telegrammi frettolosi, le carrozze nella nebbia e i cancelli cigolanti che celano verità indicibili: tutto è già lì.
Ma non è solo l’estetica a rendere Dracula eterno. È l’angoscia sottile, la tensione tra ciò che si vede e ciò che si intuisce.
Stoker non ci mostra mai troppo. E proprio per questo, il terrore si insinua più in profondità.

Il diario come trappola

Stoker costruisce il suo romanzo come un mosaico di lettere, diari, articoli di giornale. Un frammento alla volta, come se il lettore fosse costretto a decifrare un enigma. È un trucco narrativo che nella mia saga ho reinterpretato nei “Dossier Blackwood”, i documenti proibiti, i manoscritti ritrovati, le lettere occultate.
Non è solo una scelta stilistica: è un modo per rendere il lettore partecipe, complice, colpevole.

Il vampiro come simbolo

Dracula non è solo un vampiro. È il simbolo di ciò che non possiamo controllare. È il caos che si infiltra in una società vittoriana ossessionata dall’ordine e dalla ragione. Nella mia saga, questo “caos” prende forme diverse: il Viaggiatore, le possessioni, i culti antichi.
Ma la radice è la stessa: il Male non ha solo zanne o artigli. A volte ha una voce gentile, un invito sussurrato nella notte.

Dal Castello ai Vicoli

Se il castello di Dracula è un’archetipo del terrore isolato, la mia Londra gotica è l’orrore che vive in mezzo a noi.
È nei vicoli di Limehouse, nei cimiteri abbandonati, nelle canoniche in rovina.
Dracula ha insegnato a molti autori che il Male può viaggiare in nave, prendere una stanza in affitto, camminare accanto a noi.
Con Blackwood, ho voluto spingermi oltre: il Male può indossare un abito talare, sedere in Parlamento, o dormire sotto la nostra stessa casa.


Perché rileggere Dracula oggi

Perché è un libro che non muore mai.
Perché ci ricorda che il gotico non è un genere, ma uno stato dell’anima.
Perché ogni generazione trova in quelle pagine un nuovo tipo di paura.
E perché ogni scrittore, prima o poi, deve tornare alla cripta dove tutto è iniziato.


Se amate Dracula, le atmosfere cupe e i misteri irrisolti, vi invito a scoprire la mia saga gotica ambientata nella Londra del 1888.


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La Stirpe di Hollowgate: come nasce una saga per giovani lettori (senza trattarli da idioti)

Nel cuore dell’Inghilterra vittoriana – tra orfanotrofi anneriti dalla fuliggine e antiche biblioteche che odorano di legno e incantesimi – prende vita La Stirpe di Hollowgate. Ma questa non è una saga fantasy come le altre. E non lo è perché nasce da un presupposto tanto semplice quanto rivoluzionario: i lettori giovani meritano rispetto narrativo.

In un mercato saturo di storie frettolose, battute ironiche a caso e protagonisti semplificati, Hollowgate è costruita come una storia gotica per ragazzi, ma con la stessa cura e profondità di un romanzo adulto.

Un mondo che respira oscurità e meraviglia

L’orfanotrofio Hollowgate è il cuore pulsante della saga. Non un luogo stereotipato, ma un microcosmo vivo, in cui ogni pietra, ogni corridoio, ogni silenzio ha un significato. I bambini che lo abitano non sono pedine. Sono voci, sono traumi, sono desideri che cercano forma nel buio.

Ispirato a Dickens, a Una serie di sfortunati eventi, ma anche a suggestioni gotiche come Il giardino segreto o Il Castello errante di Howl, La Stirpe di Hollowgate mischia mistero, formazione, magia concreta e simbolismo.

Una magia con regole e un costo

Niente bacchette, niente superpoteri casuali. La magia di Hollowgate è fatta di rituali antichi, conoscenze proibite, simboli incisi a mano e un sistema di regole narrativamente coerente. Ma soprattutto: ogni magia ha un costo. Che sia dolore fisico, perdita di memoria o uno squilibrio sensoriale, ogni incantesimo lascia un segno. Questo non solo rende la narrazione più credibile, ma educa anche al valore delle scelte.

Tre protagonisti, un patto segreto

Moira, Elias e Ollie sono i tre protagonisti. Diversissimi tra loro, imparano a fidarsi l’uno dell’altro solo perché costretti dalle circostanze. Non sono eroi perfetti. Sono ragazzi con limiti, rabbia, domande. Ma nel Patto che li unisce si accende qualcosa di raro: il coraggio di affrontare insieme l’ignoto.

Perché scrivere gotico per ragazzi?

Perché il gotico – se ben dosato – aiuta a elaborare il dolore senza chiamarlo per forza “trauma”. Mostra il male come un’ombra da decifrare, non solo da combattere. E lo fa con eleganza, con una lente simbolica.

In La Stirpe di Hollowgate, la paura non è solo mostro o ombra. È anche l’incertezza del futuro, l’abbandono, l’identità perduta. È ciò che ogni adolescente affronta, ma qui narrato con rispetto, poesia e tensione.

La scrittura: accessibile ma letteraria

Ogni scena della saga è costruita con:

  • una lingua fluida ma prosaica;
  • atmosfere sensoriali e gotiche;
  • un ritmo narrativo da romanzo d’avventura, con colpi di scena.

La struttura è pensata per i lettori giovani, ma non viene mai abbassata. Al contrario: si offre loro un ponte verso la grande letteratura, senza appiattire il mistero.


La Stirpe di Hollowgate è la prova che si può scrivere per ragazzi senza filtrarli, senza “proteggerli” da ciò che fa paura, ma guidandoli con una luce tremolante attraverso i cunicoli dell’ignoto. Perché chi legge da giovane un libro così, non lo dimentica più.


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Quando il corpo diventa testo: anatomia del macabro da Jack lo Squartatore a Ed Gein


Ci sono figure criminali che non si limitano a commettere un atto violento: scrivono sul corpo delle vittime, imprimono un messaggio, trasformano la scena del crimine in un linguaggio disturbante e inevitabile.
È ciò che accomuna – pur con enormi differenze storiche, psicologiche e culturali – due nomi scolpiti nell’immaginario del macabro: Jack lo Squartatore e Ed Gein.

Il corpo come narrazione del male

In criminologia, il corpo della vittima viene analizzato come un testo: ogni ferita, ogni mancanza, ogni postura racconta qualcosa dell’autore.
Non è solo anatomia, è semiotica del delitto.

  • Jack lo Squartatore usava il corpo per inviare prove di superiorità, dominare l’investigazione, dimostrare controllo.
  • Ed Gein, al contrario, trasformava il corpo in materia rituale, parte di un mondo interiore deformato da ossessione materna, religione distorta e isolamento sociale.

In entrambi i casi, il cadavere non è più un corpo: diventa un messaggio.

Jack: la chirurgia improvvisata del terrore

Londra, 1888. Nebbia, vicoli, lampioni tremolanti.
Jack lo Squartatore non uccideva soltanto: incideva, apriva, esponeva.
La disposizione dei corpi, la precisione delle mutilazioni, la scelta delle aree anatomiche… tutto suggeriva un rituale di potere.

Il messaggio era chiaro:
“Io vedo. Io decido. Io sfido.”

La narrativa gotica dell’epoca, da Stevenson a Wilde, non era distante: raccontava lo stesso conflitto tra identità e ombra, tra normalità e pulsione inconfessabile.

Gein: quando il corpo diventa oggetto

Salto di mezzo secolo e migliaia di chilometri: Wisconsin, 1957.
La casa di Ed Gein non è una scena del crimine, ma un museo dell’ossessione.
Qui il corpo smette di essere messaggio per diventare strumento:
maschere, cinture, coppe, rivestimenti, reliquie.

Non c’è sfida alla polizia.
Non c’è messinscena pubblica.
C’è un uomo che usa il corpo come materia prima per ricostruire la figura della madre e placare una solitudine che ha divorato la sua mente.

In criminologia, questo passaggio è decisivo:
Jack comunica col mondo;
Gein comunica con se stesso.

Due epoche, un’unica domanda: perché?

Narrativa e criminologia si incontrano proprio qui:
nella necessità di capire cosa spinge un essere umano a trasformare un altro essere umano in un testo, un trofeo o un simbolo.

Per Jack, il corpo era un palco.
Per Gein, un altare.
Per entrambi, però, il corpo delle vittime è diventato l’unico linguaggio possibile per esprimere ciò che non poteva essere detto.

E forse per questo, ancora oggi, queste storie ci inquietano più di qualsiasi romanzo:
perché mostrano un male che non parla…
scrive.

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Come venivano scritti davvero i romanzi gotici vittoriani e perché la mia narrativa si fonda su quella struttura


Il gotico vittoriano non è solo un genere: è un’architettura narrativa precisa, riconoscibile, costruita secondo regole che miravano a creare inquietudine sottile, introspezione psicologica e un senso di minaccia che avanzava scena dopo scena.
Oggi molti lettori associano il gotico a cliché, ma nel periodo vittoriano era una macchina narrativa sofisticata, più simile a un ingranaggio d’orologeria che a un semplice stile.

In questo articolo esploriamo come erano scritti davvero i romanzi gotici dell’Ottocento, quali erano le loro strutture interne e perché la mia saga gotica si basa consapevolmente su quelle stesse fondamenta, adattandole alla sensibilità moderna.


1. Struttura a stratificazione: orrore rivelato, mai immediato

I romanzi gotici vittoriani non mostravano subito l’orrore.
Funzionavano per livelli successivi:

  1. Primo strato – la vita quotidiana: la normalità apparente.
  2. Secondo strato – l’inquietudine che filtra: rumori, ombre, presagi.
  3. Terzo strato – la rivelazione parziale: un indizio forte ma non definitivo.
  4. Ultimo strato – il cuore dell’orrore: la verità che sovverte tutto.

Questa progressione si ritrova in opere come Il Giro di Vite, Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde e Dracula.

Nei miei romanzi, questo principio è fondamentale: l’orrore non arriva mai improvviso. È un’ombra che cresce, una presenza che si lascia intuire prima di mostrarsi.


2. L’indagine razionale che lentamente fallisce

Il gotico vittoriano amava far scontrare la ragione con l’irrazionale.

Il protagonista inizia sempre da un approccio logico, quasi scientifico.
Poi, scena dopo scena, si trova costretto ad ammettere che la logica da sola non basta.

Questa dinamica è evidente in:

  • Jonathan Harker che cerca di razionalizzare il Castello di Dracula
  • Utterson che indaga su Jekyll con metodo legale
  • I narratori di Henry James che dubitano della propria percezione

Anche nella mia scrittura il personaggio “razionale” (Blackwood, o chi ricopre quel ruolo nelle altre saghe) si confronta con qualcosa che lo supera, senza perdere però il metodo.
La tensione nasce nel punto di frattura tra investigazione e ignoto.


3. Atmosfera sensoriale prima dell’azione

I vittoriani erano maestri dell’atmosfera.
Prima dell’azione, costruivano:

  • odori
  • luci tremolanti
  • passaggi stretti e chiusi
  • case che sembrano respirare
  • nebbia che non è solo nebbia ma un personaggio

L’ambiente anticipa ciò che accadrà.

È uno dei pilastri della mia scrittura: prima di ogni svolta narrativa costruisco uno spazio vivo, un luogo che racconta qualcosa.
Non uso descrizioni immobili: gli ambienti hanno memoria.


4. Personaggi imperfetti, ambigui, segnati

Il gotico vittoriano non amava gli eroi puri.
Preferiva figure:

  • segnate dal passato
  • emotivamente fragili
  • capaci di sbagliare
  • ossessionate dalla verità o dall’ignoto

Da Dorian Gray a Victor Frankenstein, passando per Renfield, l’eroe gotico è un uomo (o una donna) che lotta anche contro sé stesso.

Lo stesso vale nei miei romanzi: nessun protagonista è perfetto.
Blackwood, Monroe, Quinn, tutti portano una crepa che li rende più veri.


5. Capitoli brevi, ritmo crescente, finale che non chiude tutto

La struttura vittoriana aveva un altro tratto distintivo:
il finale raramente era risolutivo al 100%.

Lasciava:

  • una domanda sospesa
  • un dubbio
  • un’ombra che potrebbe tornare

Perché il male, nel gotico, non muore: cambia forma.

Nelle mie opere faccio la stessa scelta: chiudo l’arco narrativo, ma l’atmosfera continua a vibrare, lasciando spazio a nuovi misteri, collegamenti e simboli.


Perché uso ancora oggi la struttura gotica vittoriana?

Perché funziona.
Perché è elegante.
Perché parla al lettore con intelligenza, senza “urlare” l’orrore.
E soprattutto perché permette di costruire:

  • lore profonda
  • personaggi memorabili
  • tensione psicologica autentica
  • mondi narrativi coerenti e ricchi

Il gotico vittoriano non è passato.
È diventato un linguaggio.
Io ho scelto di usarlo come base delle mie saghe, modernizzandolo senza tradirne l’essenza.


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