Gotico e fotografia: ispirazioni visive per costruire l’atmosfera

Chi scrive gotico lo sa: non basta un’idea. Serve un’ombra. Un dettaglio sfuocato. Un’immagine che inquieta senza spiegare.

Nel mio processo creativo, la fotografia è una delle prime scintille che accendono la fiamma. Ma non parlo delle immagini moderne e patinate: il mio archivio è fatto di dagherrotipi, ritratti sgranati, lastre annerite dal tempo. Sono volti che non guardano più, stanze che sembrano aver trattenuto qualcosa.

La forza del dettaglio disturbante

Un guanto lasciato su un tavolo.
Un diario aperto con l’ultima parola strappata.
Una bambola impolverata seduta in un angolo.

Non c’è bisogno di mostrare il mostro: l’atmosfera gotica nasce nel non detto, nel fuori campo visivo. È lì che si insinua la paura.

Molti dei racconti dell’Archivio Blackwood nascono proprio da una fotografia malata di tempo. Le immagini che condivido sui miei profili Instagram sono lo specchio di quel mondo: realistico, ma sfalsato. Storico, ma fittizio. Gotico, ma credibile.

Ispirazioni visive ricorrenti

Cimiteri avvolti nella nebbia

Vicoli ciechi con impronte nel fango

Lanterna accesa accanto a una lapide

Interni vittoriani con oggetti rituali

Statue angeliche corrose e segnate

Ogni immagine non è solo estetica: è parte del racconto. A volte anticipa una scena, a volte ne è il residuo. E altre volte… è tutto ciò che resta.

Scrivere per immagini

Oggi più che mai, anche la letteratura si fa visiva. Ma non si tratta di “semplificare”. Si tratta di evocare.
Un’immagine può dire molto più di una sinossi. Può attirare il lettore giusto. Può insinuare un dubbio, una domanda, una suggestione.

E allora sì, continuerò a scrivere. Ma anche a fotografare l’ombra, ogni volta che passa.

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Scrivere nel buio: come il tempo atmosferico plasma il racconto gotico

C’è un silenzio che non è fatto d’assenza, ma di presagio. Un silenzio pieno. Fatto di nebbia che sale dal fiume e si insinua nei vicoli come un presagio antico. Scrivere gotico è, prima di tutto, scrivere il tempo. Non quello cronologico, ma quello atmosferico.

Nel mondo dell’Archivio Blackwood, ogni passo affonda in pozzanghere d’ombra, ogni parola sembra galleggiare in un’aria carica d’umidità e ammonimento. Pioggia, vento, neve, gelo, nebbia. Il clima non è mai sfondo neutro, ma personaggio attivo della narrazione.

La nebbia: il velo tra mondi

In Il Sussurro del Pozzo e ne Il Vangelo delle Ombre, la nebbia è il sipario che nasconde e rivela. Ogni volta che cala, qualcosa si manifesta. Una figura, una voce, un segno. È la nebbia che inganna la vista e accende l’intuizione. Una protezione, ma anche una trappola.

La pioggia: battito e ossessione

Ne Il Carnefice del Silenzio, la pioggia è onnipresente. Batte come un metronomo sulle tegole delle dimore abbandonate, penetra nei mantelli, nel respiro, nella pelle. È una pioggia che accompagna, quasi come un canto funebre, ogni rivelazione. È l’inquietudine che bagna anche i pensieri.

Il freddo e la neve: tempo cristallizzato

Quando compare la neve, tutto si congela. Il crimine non è solo morto: è pietrificato, sospeso in un tempo immobile. Il freddo agisce come un cristallo che conserva, ma distorce.

Il vento: messaggero degli spiriti

A Limehouse, quando soffia il vento, i tetti scricchiolano, le insegne cigolano e i sussurri sembrano moltiplicarsi. Il vento diventa la voce del passato, un mezzo attraverso cui le memorie si muovono tra i muri e tornano a tormentare chi vive.

In conclusione, il tempo atmosferico in un racconto gotico non è mai decorazione, ma linguaggio. Ogni elemento – pioggia, vento, gelo – è una frase del mondo, una metafora vivente. Scrivere gotico, allora, è saper ascoltare il cielo, l’aria e la terra.

Perché prima che il male colpisca, cambia il tempo. E Blackwood lo sa.

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La vera storia della Canonica di St. Bartholomew

Un luogo dimenticato, un confine sottile tra sacro e profano

C’è un edificio in rovina, nascosto tra le strade meno battute della vecchia Limehouse, che pochi osano nominare e ancor meno riescono a localizzare con precisione. È la canonica di St. Bartholomew, un tempo luogo di preghiera e di conforto, oggi reliquia abbandonata di un passato oscuro.
Chi la conosce sa che non fu mai solo una canonica.

Secondo l’Archivio Blackwood, fu proprio lì che padre Marcus Quinn tornò a indossare l’abito da esorcista. Era il dicembre del 1888. Londra affogava nella nebbia, i giornali parlavano ancora di Whitechapel e di un certo “dottore dell’anima” che aveva giurato di opporsi all’ombra che avanzava.

Ma la storia di St. Bartholomew è ben più antica.

Un pozzo murato nel seminterrato

Fonti risalenti al 1791 parlano di un pozzo sotterraneo, sigillato con catene e croci in ferro, proprio sotto la cappella laterale. Alcuni lo consideravano un semplice drenaggio di epoca romana. Ma altri… parlavano di un luogo di confinamento, di “acque sacrileghe” che non dovevano essere toccate.

Nel 1836, il reverendo T. S. Claymore fu trovato morto proprio in quella cantina, privo degli occhi e con le mani strette in preghiera. Sul muro, un’unica frase scritta in latino con il proprio sangue: “Non sono solo.”

Distrutta, ma non dimenticata

Nel 1890 la canonica fu ufficialmente chiusa e murata. Ma chi ha accesso ai fascicoli segreti dell’Archivio sa che la struttura fu solo nascosta, mai distrutta. Nascosta perché, secondo padre Quinn, “alcune soglie non possono essere sigillate con la pietra”.

Oggi, chi cerca la canonica non trova nulla. Solo un muro coperto d’edera, e un vecchio crocifisso in ferro inchiodato su un legno marcito.
Ma chi ha occhi per vedere — e un cuore abbastanza forte — dice di udire ancora i sussurri del pozzo, quando la nebbia cala e le campane non suonano più.

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“Dal fango di Limehouse alle ombre del British Museum”

Non ho ancora smesso di sentire l’odore del Tamigi. Mi resta appiccicato addosso, come la nebbia di Limehouse e quella strana umidità che si infila sotto il colletto e serpeggia fino alla spina dorsale. Stamattina ho lasciato la mia stanza con le finestre appannate e le pareti sottili, mentre fuori i carretti dei pescivendoli raschiavano il selciato e i portuali bestemmiavano contro il gelo che irrigidiva le corde.

Sono salito su un tram a cavalli che pareva scricchiolare a ogni scossa. Il cocchiere aveva mani bluastre e occhi spenti; ci ha condotti, uno scossone dopo l’altro, attraverso l’arteria fangosa di Commercial Road, e poi su per Whitechapel. Le strade erano vive: grida di venditori, sbuffi di vapore dai tombini, botti trascinati, il clangore lontano di una fucina.

Quando sono sceso, nei pressi di Bloomsbury, la città sembrava aver cambiato pelle. Qui, la nebbia è più sottile, quasi rispettosa. I passi rimbombano sulle pietre pulite del marciapiede, e le porticine in ghisa delle case sembrano osservarmi in silenzio.

Poi, eccolo. Il British Museum si alza davanti a me come un tempio di pietra e memoria. Colonne greche che sfidano il cielo plumbeo, scalinate fredde su cui le ombre si attorcigliano pigre, come se attendessero di inghiottire chi entra.

All’interno, la temperatura cambia. È più asciutta, ma il profumo è quello della storia. Carta vecchia, pelle conciata, polvere di secoli. La prima cosa che colpisce è il silenzio. Non un vero silenzio, no — piuttosto un sussurro collettivo: pagine voltate, passi cauti su pavimenti in pietra, il fiato sommesso dei visitatori davanti alle teche.

Cammino tra sarcofagi egizi, iscrizioni mesopotamiche, idoli consumati dal tempo. L’aria sa di incenso perduto, di muffa imperiale. Mi soffermo davanti a una teca che custodisce una tavoletta cuneiforme. Il testo narra di demoni notturni. Un brivido corre lungo la mia schiena.

Ogni oggetto ha il suo respiro. Ogni statua sembra in attesa.

Nel salone centrale, sotto la grande cupola in vetro, la luce pare filtrare da un altro tempo. Un tempo più antico, più crudele. La voce di un curatore risuona lontana, mentre spiega in francese qualcosa a una coppia elegante. Io proseguo in silenzio.

Non sono venuto qui per imparare. Sono venuto a cercare.

Un simbolo, forse.
Un indizio.
Un nome inciso dove nessuno osa più guardare.

E mentre l’orologio del museo batte le undici, e la città là fuori continua a respirare, io entro nel cuore oscuro della memoria, dove anche il tempo si inginocchia.

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Perché scrivere una raccolta di racconti brevi gotici alla Poe

In un’epoca in cui l’attenzione è frammentata e i ritmi frenetici lasciano poco spazio alla contemplazione, i racconti brevi tornano ad avere una potenza narrativa straordinaria. Ma non si tratta solo di forma. Quando si sceglie lo stile gotico, e soprattutto si guarda a un maestro come Edgar Allan Poe, l’obiettivo diventa qualcosa di più profondo: sondare gli abissi dell’animo umano, tra follia, mistero e verità inconfessabili.

Scrivere una raccolta di racconti brevi gotici oggi è un atto di resistenza e memoria. È un modo per rendere omaggio a una tradizione letteraria oscura ma raffinata, fatta di simbolismi, ambientazioni claustrofobiche, case decadenti, orrori psicologici e presenze impalpabili. Ma è anche un laboratorio creativo: ogni racconto è un microcosmo, una lente deformante attraverso cui esplorare le mille sfaccettature dell’ignoto.

Lo stile alla Poe non si limita a narrare l’orrore. Lo seziona, lo rende razionale, lo osserva con lucidità clinica. La mente del protagonista spesso coincide con quella del lettore, trascinandolo in un vortice di dubbi e percezioni distorte. In questa forma breve, la tensione non si diluisce: si comprime, si concentra, esplode.

Scegliere la forma del racconto breve gotico, oggi, significa offrire al lettore un’esperienza intensa, densa, disturbante. È un invito a leggere con lentezza, ad ascoltare il silenzio fra le righe, a temere ciò che non viene detto. In ogni pagina, un’eco del passato. In ogni storia, un interrogativo che resta sospeso.

Ecco perché scriverne ancora. Perché il gotico non muore mai: cambia forma, ma continua a sussurrare dietro le porte chiuse della nostra coscienza.

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La Londra sotterranea: tra fognature, cripte e culti perduti

Dall’Archivio Blackwood – Documenti riservati

C’è una Londra che non figura sulle mappe. Una città parallela, oscura e umida, nascosta sotto i passi ignari dei suoi abitanti. Un intrico di corridoi, cripte dimenticate, passaggi murati e pozzi di silenzio: la Londra sotterranea.

Negli anni di servizio dell’ispettore Edgar Blackwood, numerose indagini lo hanno condotto sotto la città, in luoghi che non avrebbero dovuto esistere. Luoghi dove l’aria si fa spessa e il tempo sembra essersi fermato.

Fognature vittoriane: il ventre della città

Costruite in seguito alla grande epidemia di colera, le fognature di Londra sono un capolavoro d’ingegneria e orrore. Per molti, sono solo canali per il deflusso delle acque nere. Per Blackwood, sono state spesso teatri di fughe, inseguimenti… e rituali oscuri. I cultisti li chiamano “i canali del risveglio”. Alcuni tunnel presentano incisioni mai documentate nei registri civili. Altri conducono a stanze murate dove il puzzo di zolfo è più forte del tanfo del fango.

Cripte sotto le chiese, cimiteri sprofondati

Le cripte di Whitechapel, St. Giles e St. Dunstan sono i luoghi in cui Blackwood ha trovato alcuni dei manoscritti dell’Ordine delle Radici d’Ombra. Altri accessi conducono a ex-cimiteri profanati, sommersi da nuove costruzioni. In uno di questi, l’Ispettore rinvenne ossa umane disposte a spirale, intorno a una pietra recante iscrizioni non latine.

Passaggi segreti e luoghi che “non esistono”

Secondo il fascicolo 92A dell’Archivio, almeno dodici strutture pubbliche della Londra di fine Ottocento contenevano accessi segreti al sottosuolo: tra questi, un vecchio magazzino a Limehouse, una biblioteca dismessa a Kensington, e una stazione postale vicino a Fleet Street. Nessuno di questi accessi compare nei registri municipali. Blackwood li ha segnati, a mano, su una mappa clandestina: è quella che oggi campeggia nel suo archivio, accanto a un taccuino insanguinato e al simbolo inciso del Viaggiatore.

Là sotto non vale la logica. Là sotto, qualcosa aspetta da secoli.”
— Appunto anonimo ritrovato sul retro di un biglietto ferroviario datato 1887

Le ombre si nascondono dove la luce non osa scendere. E a Londra, nel 1888, la luce era merce rara.

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Morte e silenzio nei conventi abbandonati: luoghi perduti dell’Archivio Blackwood

Nel cuore della Londra vittoriana, alcuni luoghi non appartenevano più al mondo dei vivi. Tra questi, i conventi abbandonati: silenziosi, decadenti, dimenticati. Ma non vuoti.

Tra i documenti segreti dell’Archivio Blackwood, conservati negli anni e tramandati con cautela, emergono descrizioni inquietanti di luoghi dove il silenzio diventava assordante. I conventi dismessi, chiusi da decenni, ricorrono spesso nei dossier su eventi inspiegabili e possessioni avvenute lontano dagli occhi della città.

Uno di questi casi è legato al convento di St. Etheldreda, situato nei sobborghi di Limehouse. Disabitato sin dal 1849 a seguito di un incendio mai chiarito, fu più volte segnalato per apparizioni notturne e grida sussurrate all’alba. Quando Edgar Blackwood vi fu inviato in incognito nel 1887, documentò la presenza di simboli religiosi rovesciati, manoscritti danneggiati da segni di artigli, e celle murate dall’interno.

Ma non fu l’unico. I conventi abbandonati di Highgate, Islington e Deptford sono menzionati nei rapporti di Quinn e O’Connor, spesso in relazione a riti di evocazione o a sparizioni di giovani novizie. Spazi di preghiera convertiti in altari sacrileghi, cripte violate, registri bruciati: luoghi in cui fede e orrore si confondevano.

Cosa cercavano davvero coloro che tornavano a pregare in quegli edifici caduti in rovina?

L’Archivio Blackwood suggerisce che quei luoghi vennero scelti per la loro “assenza di suono divino”: pare che il silenzio assoluto delle pareti, impregnate di preghiere dimenticate, rendesse più semplice il passaggio tra i mondi.

Oggi, solo frammenti di questi rapporti sono disponibili al pubblico. Ma chi vuole davvero approfondire, può accedere ai dossier completi, segreti e inediti, iscrivendosi alla mia newsletter su Substack:

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Vita da Autore Indie: Pubblicare su Amazon tra Ostacoli e Libertà

Scrivere un romanzo è un atto solitario, pubblicarlo è una sfida collettiva. E nel mezzo, c’è l’autore indipendente: un funambolo che cammina tra creatività e gestione, tra sogni gotici e formati Word.

Quando ho deciso di pubblicare Le Ombre di Whitechapel, sapevo che avrei dovuto affrontare molto più della semplice scrittura. Amazon si è rivelata una piattaforma potente, ma anche esigente.

Il primo ostacolo: il formato

Chi pensa che basti caricare un file e cliccare su “Pubblica” sbaglia di grosso. Il file dev’essere impaginato correttamente, con stili coerenti, margini precisi, e interruzioni di pagina nei punti giusti. L’indice dev’essere automatico per l’ebook, mentre la versione cartacea richiede un occhio clinico alla grafica. E poi ci sono le immagini: sempre a 300DPI, calibrate per non sgranarsi nella stampa.

Il secondo ostacolo: la copertina

Una buona copertina può fare la differenza tra uno sguardo distratto e un click. Ma Amazon ha regole ferree: no testo sul dorso se il libro è troppo sottile, risoluzione minima altissima, e attenzione maniacale all’allineamento. Senza contare l’ottimizzazione per le versioni A+ (le schede premium).

La grande libertà: il controllo totale

Nonostante tutto, essere autore indie offre un privilegio raro: decidere ogni cosa. Dalla sinossi alla grafica, dal prezzo al momento del lancio. Puoi parlare direttamente ai tuoi lettori, creare una community, lanciare giveaway, pubblicare contenuti extra.

In un mondo editoriale sempre più affollato, l’indipendenza è anche visibilità conquistata sul campo. Serve costanza, visione, e un pizzico di ostinazione.

Ma alla fine, quando stringi tra le mani la tua opera, carta o digitale che sia, capisci che ne è valsa la pena.

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Bambole, specchi e pozzi: gli oggetti inquietanti dell’immaginario gotico

Esistono elementi narrativi che, sin dalla notte dei tempi, sembrano evocare nell’uomo una paura atavica, profonda, quasi istintiva. Oggetti comuni, a volte innocenti, che diventano portali per l’inquietudine. Tra questi, pochi sono così potenti come le bambole, gli specchi e i pozzi.

Le bambole: il volto dell’innocenza corrotta

Nel mio racconto Il Sussurro del Pozzo, una bambola impolverata con le labbra cucite torna a tormentare il protagonista. Le bambole, per definizione, imitano l’umano. Sono fatte per essere familiari, ma proprio in quella somiglianza imperfetta, in quel volto fisso e vuoto, si annida il perturbante. Freud lo chiamava Unheimlich – “il non familiare che si finge familiare”. La bambola è l’eco muta dell’infanzia, ma nel gotico, quell’infanzia è sempre perduta, morta, dimenticata. E lei resta.

Gli specchi: riflessi che mentono

Uno specchio incrinato è il simbolo di una realtà rotta. Nei miei racconti, gli specchi non riflettono ciò che c’è, ma ciò che si nasconde. Sono portali, inganni, finestre su mondi alterati. A volte, il riflesso non coincide con l’originale. Altre volte, restituisce uno sguardo che l’osservatore non sa di avere. Lo specchio ci guarda, ci giudica. E spesso – nel gotico – ci tradisce.

I pozzi: la discesa nell’inconscio

Il pozzo è profondità, oscurità, umidità e silenzio. È l’antro da cui emerge la verità dimenticata. In Il Sussurro del Pozzo, è il luogo dove tutto comincia e tutto ritorna. Il pozzo non è solo una cavità nel terreno: è un simbolo archetipico, un ventre della terra, ma anche una tomba, un passaggio, un portale. Spesso si sente chiamare da ciò che vi abita. E a volte, risponde.

Questi oggetti – bambole, specchi e pozzi – sono più di semplici oggetti di scena. Sono strumenti narrativi potenti. Parlano al subconscio, evocano ricordi, paure e simbolismi antichi. E sono, da sempre, compagni inseparabili delle storie gotiche.

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Nella nebbia del porto – Un viaggio nel cuore oscuro della Londra del 1888

Se vi foste trovati a passeggiare lungo le rive del Tamigi in un crepuscolo d’inverno del 1888, avreste visto ben poco.
La nebbia, pesante come una coperta bagnata, si arrampicava sulle pareti degli edifici e inghiottiva i lampioni a gas, lasciando solo una luce fioca e gialla, tremolante come il respiro di una candela sull’orlo dell’estinzione.

L’aria sarebbe stata densa, greve, quasi masticabile.
Avreste sentito odori sovrapposti: il salmastro del fiume mischiato all’olio bruciato delle navi mercantili, al tanfo acre del carbone e a quello ancora più pungente dei canali di scolo. A volte, un odore dolciastro, più sottile, come carne andata a male. Nessuno chiedeva spiegazioni.

I moli erano un labirinto di casse, funi, botti di rum, reti e casse di pesce aperte, il cui contenuto grondava acqua nera e squame. I topi correvano liberi tra i piedi degli scaricatori, i quali maledicevano in più lingue, mentre i gabbiani gracchiavano sopra le impalcature come profeti ubriachi.

Sul selciato umido, gli zoccoli dei cavalli lasciavano scie di fango e letame. Carretti cigolanti trasportavano casse piene di oggetti esotici, provenienti da luoghi che pochi avevano mai visto davvero. Talvolta, un feretro.

I suoni erano ovattati dalla nebbia: urla soffocate, canti irlandesi, bestemmie, lamenti, risate ubriache e il clangore del metallo.
Da qualche bettola sul molo, si sentiva uscire una fisarmonica stonata, accompagnata da una voce ruvida che cantava una ballata marina.

Il cielo?
Il cielo non esisteva.
Era un lenzuolo grigio-verde, invisibile. Solo la luna, talvolta, bucava l’oscurità come un occhio lattiginoso e maligno.
E in certi vicoli, troppo stretti per essere mappati, sembrava che qualcosa respirasse.

Qualcosa che non era mai salito da una stiva.
Qualcosa che Londra non aveva chiesto.
Ma che, ormai, abitava lì.

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