Scrivere la paura: perché l’orrore trova rifugio nella carta

C’è un momento, mentre scrivo, in cui il confine tra ciò che invento e ciò che temo davvero si fa sottile.

Non ho mai considerato l’orrore come un semplice genere narrativo. Per me, è uno strumento. Un modo per raccontare ciò che non si riesce a dire con chiarezza. Un modo per evocare ciò che resta nell’ombra – non solo nel mondo, ma dentro di noi.

In ogni pagina che scrivo, cerco una crepa. Uno spiraglio da cui far filtrare una verità disturbante.
Perché sì, a volte scrivere è anche questo: addomesticare le proprie paure. Renderle leggibili.
Ma altre volte… è semplicemente lasciarle uscire.

Le mie paure sulla carta

Ne Le Ombre di Whitechapel ho raccontato il peso del sangue, l’eredità maledetta. In Il Vangelo delle Ombre, il potere delle parole corrotte, delle scritture deformate, dei demoni.
Nel mio nuovo romanzo, Il Carnefice del Silenzio, ho affrontato qualcosa di più antico e sottile: il Male che si nasconde dietro le apparenze religiose, nei gesti quotidiani, nei luoghi dimenticati.

Ogni storia che scrivo è un modo per affrontare quello che non riesco a spiegare a parole.
Il buio. L’assenza. La colpa.
E forse è proprio questo che rende l’orrore così potente: non si può confinare. Ma si può raccontare.

Scrivo per ricordare

Scrivere la paura significa anche lasciare tracce.
Significa dire al lettore: “Attento. Non è solo una storia. È un avvertimento.”

Ogni volta che creo una scena, un personaggio, un rituale, non sto solo intrattenendo. Sto cercando di imprimere qualcosa sulla carta che rimanga. Una sensazione, un disagio, un sussurro.

Se anche uno solo di quei sussurri arriva fino a voi, allora ho fatto il mio dovere.

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Ti invito a scoprire le mie storie. Ogni libro è una chiave. Ogni pagina, una porta.
Ma sappi una cosa: una volta varcata la soglia, l’Archivio ti ricorderà.

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Quanto tempo serve per scrivere un racconto di 40–60 pagine?

Molti mi chiedono quanto ci voglia a scrivere un racconto di lunghezza media.
Ovviamente non esiste una regola fissa, ma con un ritmo di scrittura costante e un minimo di organizzazione, i tempi possono essere molto più brevi di quanto si pensi.

1. Dalla pagina alle parole

In media, una pagina di un libro in formato standard (6×9 pollici) contiene circa 250–300 parole.

40 pagine circa 10.000–12.000 parole
60 pagine circa 15.000–18.000 parole

2. Il ritmo di scrittura

Se si mantengono 7–10 pagine al giorno, parliamo di 1.750–3.000 parole al giorno.
Con questo ritmo, la stesura diventa decisamente veloce:

40 pagine circa  4–6 giorni di scrittura
60 pagine circa  6–9 giorni di scrittura

3. Il tempo per la ricerca

Se il racconto richiede ambientazioni storiche, dettagli tecnici o realismo documentato, è bene aggiungere 1–2 giorni di lavoro dedicati solo alla ricerca.
La ricerca non si fa tutta all’inizio: spesso si alterna alla scrittura, integrando i dettagli man mano.

4. Revisione e rifinitura

Una volta completata la prima bozza, la revisione è fondamentale.
Con un racconto breve, bastano in media 2–3 giorni per riletture, correzioni e affinamento dello stile.

5. Stima realistica finale

Sommando tutto:

40 pagine circa 1 settimana
60 pagine circa 10–12 giorni

Naturalmente, se si scrive solo nel tempo libero o a giorni alterni, i tempi si allungano.

5 consigli rapidi per scrivere un racconto velocemente

1. Stabilisci un obiettivo giornaliero
Decidi un minimo di pagine o parole da raggiungere ogni giorno e rispettalo.

2. Scrivi prima, correggi dopo
Non fermarti a limare le frasi durante la stesura: la revisione viene dopo.

3. Crea una scaletta solida
Sapere in anticipo cosa scrivere in ogni scena accelera la produttività.

4. Rimuovi distrazioni
Scrivi in un ambiente tranquillo, senza notifiche o interruzioni.

5. Mantieni il ritmo
Anche nei giorni in cui hai poco tempo, scrivi almeno una pagina: è la costanza che porta al traguardo.

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I miei libri

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Il Club dei Suicidi di Soho

Tra leggenda e cronaca nera nella Londra ottocentesca

Nel cuore pulsante e decadente della Londra vittoriana, tra i vicoli illuminati da lampioni a gas e i locali fumosi di Soho, si racconta di un luogo proibito: il Club dei Suicidi.

Non era un circolo letterario, né un ritrovo per libertini. Chi vi entrava sapeva che prima o poi sarebbe morto… e che non sarebbe stato lui a scegliere quando.

Le prime menzioni compaiono negli articoli di giornale tra il 1872 e il 1874: poche righe, spesso relegate alle pagine di cronaca, che parlavano di “giovani gentiluomini trovati morti dopo cene riservate” o di “un gioco d’azzardo con conseguenze definitive”.

Il presunto rituale era tanto semplice quanto spietato: ogni membro versava una quota in un fondo comune. A turno, una sera a settimana, si estraeva una carta nera. Chi la pescava aveva sette giorni di tempo per “onorare il patto”. Se non lo faceva, un “delegato del club” si occupava di lui. Nessuno usciva mai dal contratto.

Molti storici liquidano la storia come leggenda urbana, un racconto amplificato dai giornalisti per vendere copie. Ma alcuni dettagli inquietanti restano:

Due suicidi documentati in Greek Street avvenuti a distanza di giorni l’uno dall’altro, entrambi membri di una stessa società privata.

Un investigatore di Bow Street che dichiarò, in un rapporto interno mai pubblicato, di aver trovato in una soffitta di Soho un tavolo rotondo con 13 sedie, una delle quali recava ancora macchie di sangue secco.

Una lista di nomi, oggi dispersa, che secondo le voci sarebbe stata nascosta negli archivi della polizia fino alla metà del ‘900.

Non sapremo mai se il Club dei Suicidi sia stato reale o frutto della fantasia morbosa dell’epoca. Ma ancora oggi, passeggiando di notte per Soho, alcuni giurano di aver intravisto, dietro le tende socchiuse di un piano superiore, un brindisi silenzioso con tredici calici.

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Le ombre di Whitechapel – Cosa si nasconde nei muri che trasudano sangue

Londra, novembre 1888 – cronache da chi cammina con i morti.

Il vento, qui, non soffia. Striscia.
Come se non avesse il coraggio di alzare la voce tra questi muri che ricordano troppo.

Stamattina ho camminato da Limehouse fino a Whitechapel. Ci ho messo quasi un’ora, ma non ho mai alzato lo sguardo. Le finestre erano troppe. Troppe quelle con le tende chiuse, troppe quelle con le tende che non si muovono mai.
C’è odore di marcio in questo quartiere. Un odore denso, come di carne frollata e carbone bagnato. Un odore che non si leva nemmeno cambiando strada.

Mi sono fermato sotto il vicolo di Hanbury Street.
Lì il tempo è fermo. Un bambino lanciava sassi contro un muro, e ogni sasso lasciava una piccola impronta nera, come sangue rappreso.
I muri di Whitechapel sono porosi, assorbono il dolore. Alcuni dicono che respirino, altri che piangano. Io li ho visti
piangere.

Un’altra donna scomparsa, Ispettore. E questa volta ha lasciato un messaggio… inciso nella carne.”

Così mi ha detto uno degli agenti, ieri sera. Ma qui, le urla si sono abituate al silenzio.

Mi chiedo quante altre vittime abbia fatto qualcuno prima di Jack. Perché sento, nelle ossa, che questo non è cominciato con lui.
No, Whitechapel è una ferita vecchia. E Jack lo Squartatore è solo l’ultima lama che vi è stata infilata dentro.

Camminando, ho notato simboli tracciati col gesso, strani segni fatti a spirale, spesso sotto archi o nei punti dove le luci non arrivano. Alcuni sembrano recenti.
Una vecchia cinese mi ha sputato accanto e ha detto solo: “Tu non cercare l’uomo. Cercare ciò che lo guida.”

Torno verso Limehouse col cuore pesante. Ma anche con una certezza: qui qualcosa sta covando sotto terra, e prima o poi tornerà a galla.

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Lo Spiritismo nella Londra dell’Ottocento: tra sedute oscure e la fede di Conan Doyle

Nel cuore della Londra vittoriana, tra nebbie industriali e lampioni a gas, una nuova febbre si diffuse tra aristocratici, borghesi e intellettuali: lo spiritismo. In un’epoca segnata da guerre, epidemie e altissima mortalità infantile, l’ossessione per l’Oltretomba divenne un fenomeno sociale e culturale.

Tavole Ouija, medium e illusioni

Nato negli Stati Uniti negli anni ’40 dell’Ottocento con le sorelle Fox, lo spiritismo approdò in Inghilterra entro il 1852, prendendo piede rapidamente nella capitale. Le “sedute” si tenevano in case borghesi e salotti privati, dove le tavole Ouija, i bicchieri che si muovevano, i colpi sui muri e le luci danzanti offrivano l’illusione di un contatto con i defunti.

Madame d’Esperance, Daniel Dunglas Home, Florence Cook e molti altri medium divennero vere celebrità. Alcuni erano abili illusionisti; altri, sinceramente convinti di essere canali tra i due mondi. Le riviste dell’epoca come The Spiritualist e Light pubblicavano resoconti dettagliati delle manifestazioni spiritiche, spesso con disegni inquietanti e testimonianze oculari.

Lo spiritismo non fu solo una moda. Fu anche un modo per affrontare il dolore e la perdita, in un’epoca in cui la morte era onnipresente ma il lutto ancora privo di risposte.

L’uomo razionale che parlava coi morti

Tra i più celebri sostenitori dello spiritismo si annovera Sir Arthur Conan Doyle, il creatore del razionalissimo Sherlock Holmes. Sembrerebbe un controsenso: l’uomo che incarnò la logica assoluta, nella vita reale parlava con i morti.

Doyle si avvicinò allo spiritismo attorno al 1887, ma fu dopo la tragica morte del figlio Kingsley nella Prima Guerra Mondiale che abbracciò con fervore questa dottrina. Partecipò a decine di sedute spiritiche, scrisse The New Revelation (1918) e The Vital Message (1919), opere in cui sosteneva apertamente la realtà del contatto con l’aldilà.

Nel 1920 intraprese un vero e proprio tour internazionale per promuovere il movimento. Difese la veridicità delle fotografie delle fate di Cottingley e si inimicò il celebre illusionista Harry Houdini, che cercava invece di smascherare ogni truffa spiritica.

Una Londra intrisa di fantasmi e speranza

Lo spiritismo nella Londra vittoriana non fu solo un rifugio per i sofferenti. Fu anche un crocevia di illusionismo, religione, scienza nascente e letteratura. Sulla sua scia si formarono società come la Society for Psychical Research (1882), che cercavano un approccio scientifico ai fenomeni paranormali.

L’immaginario gotico della capitale ne uscì potenziato: dai vicoli di Whitechapel alle cripte di Highgate, il confine tra vita e morte non era mai stato così sottile. E in mezzo a tutto questo, anche lo sguardo gelido e razionale di Holmes sembrava doversi piegare, per un momento, all’invisibile.

Molti di questi temi ispirano ancora oggi la narrativa gotica contemporanea e, non a caso, tornano ciclicamente nei romanzi dell’Archivio Blackwood. Il fascino per l’ignoto, la morte e la sopravvivenza dell’anima restano interrogativi vivi, capaci di unire epoche, lettori e scrittori.


Fonti storiche:

  • Owen, A. (2004). The Darkened Room: Women, Power, and Spiritualism in Late Victorian England. University of Chicago Press.
  • Doyle, A. C. (1918). The New Revelation.
  • Noakes, R. (1999). “Telegraphy is an Occult Art: Cromwell Fleetwood Varley and the Diffusion of Electricity to the Other World”. The British Journal for the History of Science, 32(4).
  • Barrow, L. (1986). Independent Spirits: Spiritualism and English Plebeians, 1850-1910.

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Perché ho deciso di creare una saga gotica per ragazzi

Londra. Sempre Londra.

Da anni cammino tra le sue strade di nebbia, nei miei racconti e nei miei pensieri. È una Londra che respira mistero, che nasconde antichi segreti tra i muri anneriti e le ombre lunghe dei vicoli. Con L’Archivio Blackwood ho dato voce a quell’anima oscura, adulta, inquieta. Ma qualcosa, dentro di me, spingeva verso un’altra direzione. O forse verso la stessa, ma con occhi diversi.

Mi sono chiesto: e se fosse un ragazzo a vedere l’oscurità per primo?

Così è nata l’idea di una nuova saga gotica. Una storia pensata per lettori più giovani — ma non per questo meno coraggiosi — capace di evocare la meraviglia e il terrore insieme. Volevo una saga che non tradisse lo stile e l’atmosfera che amo, ma che parlasse anche di scoperta, crescita, amicizia e paura vera, quella che si insinua nei sogni.

Scrivere per i ragazzi non significa semplificare, ma guardare il buio con uno sguardo più puro. Significa raccontare l’inizio: di un dono, di una maledizione, di un viaggio. E a volte è proprio l’inizio che ci rimane più impresso nel tempo.

Ho voluto creare personaggi giovani, diversi tra loro, capaci di affrontare l’ignoto con stupore, rabbia, timore e speranza. Perché l’orrore, quando è visto con gli occhi dell’infanzia e dell’adolescenza, sa essere ancora più potente. Più viscerale. Più vero.

La Stirpe di Hollowgate è un patto: tra chi legge e chi scrive, tra chi ha paura e chi impara a conviverci.
E questa volta, il Male… ha deciso di farsi conoscere molto presto.

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Il letto che non permette di svegliarsi

Ci sono oggetti che sembrano inanimati… finché non li si usa.

Tra i resoconti più inquietanti raccolti durante le ricerche per L’Archivio Blackwood Volume II – I Racconti, ce n’è uno che si insinua piano, come un sussurro dietro la nuca. È la storia di un letto vittoriano rinvenuto in una casa abbandonata al confine est di Bethnal Green, in una residenza che un tempo apparteneva a un medico vedovo specializzato in disturbi del sonno.

Il letto, massiccio, intagliato a mano, con drappi scuri e cuscini consunti, sembrava ancora caldo. Come se qualcuno si fosse appena alzato.
Ma nessuno aveva più vissuto lì da trent’anni.

Le testimonianze che circolano tra gli archivi orali della zona — e in qualche diario dimenticato nelle biblioteche minori — parlano di un fenomeno ricorrente: chiunque dormisse su quel letto, faceva lo stesso identico sogno.

Una stanza piena di specchi, ma nessuno riflette chi dorme. Solo l’immagine di un bambino con la bocca cucita. Sempre più vicino.”

Molti si svegliavano in preda al terrore. Ma alcuni non si svegliarono mai.

Vennero ritrovati distesi, con gli occhi spalancati e la pelle fredda, senza segni di trauma. Nei giorni precedenti avevano scritto — come se spinti da qualcosa — pagine fitte di frasi sconnesse, tutte uguali:

Se sogni due volte, sei suo. Se sogni tre, gli appartieni.”

Uno dei ritagli più curiosi proviene da un foglio ritrovato nascosto nel cuscino:

DIARIO, NOTTE III – Anonimo, 1886

Non riesco più a distinguere il sogno dalla veglia. Stanotte la figura si è chinata su di me. Non aveva occhi. E mi ha detto: ‘Smettila di cercare di svegliarti. Sei già sveglio, qui con me.’”

Il letto fu bruciato nel 1892 da un gruppo di occultisti legati alla Rosa d’Inverno. Ma qualcuno sostiene che non sia il letto a essere maledetto, bensì il sogno stesso, che ora vaga in cerca di un altro letto… e di un altro dormiente da possedere.

E tu? Quanto ti fidi del tuo letto?

Una nuova leggenda oscura dall’Archivio Blackwood.
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Sulle tombe di pietra, con la nebbia alle calcagna

Highgate Cemetery, Londra – inverno 1888

Mi trovavo a Highgate prima che sorgesse il sole.
Non so bene perché ci fossi andato. Un impulso.
Un nome trovato su un vecchio foglio macchiato d’inchiostro, forse. Una promessa sussurrata da qualcuno che non ricordo.

Le prime luci dell’alba non riuscivano a penetrare la cortina spessa della nebbia. Ogni passo produceva un suono ovattato contro il muschio bagnato. Il cancello cigolava alle mie spalle, come a chiudermi dentro qualcosa di più antico del tempo stesso.

Lì dentro, la morte non riposava.
Ti osservava.

Le statue erano consumate, alcune prive di volto. Altre sembravano averne uno nuovo, scolpito dal tempo. Le lapidi oblique, ricoperte di licheni, portavano nomi cancellati dall’umidità. Nessuno veniva a piangere quelle tombe. Nessuno… tranne forse me.

Percorsi il viale principale, lasciandomi guidare da un sentiero che sembrava volermi condurre da qualche parte.
C’erano impronte. Non le mie. Troppo piccole. Troppo leggere.
Seguirle fu istintivo. E sbagliato.

Arrivai a una cripta.
Le porte in ferro erano aperte.
All’interno, il freddo era diverso. Vivo.
C’erano fiori secchi, candele consumate, e… un nome inciso nel marmo, identico a quello che avevo visto sul foglio la sera prima.
Non era possibile.

Poi udii un sussurro.
Non proveniva dall’esterno. Nemmeno dall’interno.
Proveniva da sotto.

Fuggii.
O almeno credo. Il ricordo di quel momento è rotto, come vetro.
So solo che, quando mi voltai, la cripta non c’era più.
Solo una lapide annerita dal tempo.

Oggi, ogni volta che passo da Highgate, evito quel sentiero.
Ma a volte, giuro…
Vedo le stesse impronte nella ghiaia.

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Dietro Il Carnefice del Silenzio: Ricerche storiche, riti dimenticati e luoghi reali della Londra del 1800

Scrivere Il Carnefice del Silenzio ha significato, per me, intraprendere un viaggio oscuro tra le pieghe più remote della Londra ottocentesca. Non bastava immaginare una storia gotica e disturbante: era necessario darle radici profonde, collocarla in una realtà che esiste, o che è esistita. Questo articolo è un piccolo sguardo sul lavoro di ricerca che ha preceduto la stesura del nuovo capitolo dell’Archivio Blackwood.

Riti oscuri e culti reali dell’epoca vittoriana

Una parte fondamentale della trama de Il Carnefice del Silenzio ruota attorno a riti dimenticati, simboli occulti e culti che operavano tra le crepe della società londinese. Durante la mia ricerca ho consultato:

Documenti storici dell’epoca vittoriana riguardanti il culto dell’Angelo del Silenzio, una figura realmente citata in alcuni pamphlet religiosi apocrifi del 1840–50;

Tracce di riti funebri deviati, usati in alcune sette spiritualiste nate nel periodo post-romantico, in cui il silenzio assoluto durante la veglia funebre era considerato il passaggio per “non svegliare l’Altro”;

Il legame tra cuciture rituali (come quelle su labbra e occhi) e la simbologia dell’obbedienza nel folklore scozzese e gaelico, poi ripreso nel libro.

Limehouse, il quartiere delle ombre

Per ambientare scene chiave del romanzo, ho studiato Limehouse (ed altri quartieri), quartiere fluviale nel cuore dell’East End londinese. A cavallo tra realtà e leggenda, Limehouse è:

Un luogo di marginalità sociale e spirituale nel 1800, noto per i suoi oppiacei e le società clandestine;

Sede di case murate, magazzini abbandonati, cripte sconsacrate e cunicoli sommersi che alimentano l’immaginario del romanzo;

Un crocevia tra oriente e occidente: è qui che si creavano leggende su “riti importati” e sulla contaminazione del Male antico con quello urbano.

Le fonti segrete dell’Archivio Blackwood

Ogni elemento inserito nella trama – dai manoscritti cuciti con filo rosso, agli specchi rituali, fino al concetto di “voce vietata” – nasce da una commistione tra:

Rituali documentati in fonti rare (es. Il Libro del Silenzio, anonimo, 1857);

Racconti folkloristici di origine scozzese e irlandese, in particolare quelli su “chi parla nel sogno”;

Riflessioni psicologiche sul trauma e la repressione, per dare profondità umana ai personaggi.

Narrativa sì, ma con radici nel reale

Ogni parte de Il Carnefice del Silenzio è frutto di finzione. Ma le sue radici affondano in archivi veri, in libri dimenticati e in mappe annerite dal tempo. Questa è la mia missione: trasformare la realtà in incubo, e l’incubo in una pagina che non si dimentica.

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Giochi e simboli infantili come portali maledetti

L’infanzia nell’universo gotico dell’Archivio Blackwood

C’è qualcosa di profondamente inquietante nei giochi dei bambini. Una corda che gira e gira nel cortile, una ninna nanna ripetuta a bassa voce, un disegno grezzo inciso nel fango. Sono gesti semplici, antichi, ma quando li si osserva nel contesto giusto — o sbagliato — diventano tutt’altro: rituali in miniatura, portali verso ciò che abbiamo dimenticato di temere.

Nel mondo di Edgar Blackwood, i bambini non sono solo vittime o testimoni. Sono custodi inconsapevoli di antichi poteri, strumenti — o resistenze — del male. E i giochi che usano, le filastrocche che recitano, i simboli che tracciano, spesso non sono invenzioni innocenti, ma ripetizioni inconsapevoli di liturgie sepolte.

Il Cerchio, il Nodo, la Spirale

Molti racconti dell’Archivio Blackwood iniziano con qualcosa di piccolo: un disegno tracciato sul pavimento da una bambina muta (“Il Sussurro del Pozzo”), un nodo intrecciato con spago e capelli, o un cerchio segnato con la cenere da un gruppo di bambini di strada.

In ogni caso, si tratta di forme ricorrenti, archetipi potenti. Nel folklore europeo, il cerchio protegge — o imprigiona. Il nodo sigilla — o lega un’anima. La spirale conduce — ma non sempre si sa dove.

Il gioco dei bambini diventa un’evocazione inconsapevole. Forse imitano ciò che hanno visto. Forse ricordano ciò che è stato dimenticato. Ma la forma resta. E la forma, nel gotico, è significato.

Ninnenanne e Filastrocche

Alcune delle frasi più inquietanti dell’intera saga di Blackwood non sono dette da cultisti o assassini. Sono canticchiate da bambini. Frasi in latino, versi spezzati, richiami a “colei che abita sotto la soglia”.

Non è un’invenzione. In molte tradizioni popolari, le ninnenanne contengono minacce o invocazioni. Non per crudeltà, ma per memoria. Ricordare al bambino cosa c’è fuori. O cosa è già dentro.

Oggetti Maledetti, Simboli Per Dimenticare

Un carillon trovato sotto un letto. Un pupazzo con cuciture straniere. Un diario infantile scritto con grafia adulta.
In L’Archivio Blackwood – Volume II: I Racconti, questi oggetti non sono solo cornici narrative, ma veri e propri nodi della storia.

Il giocattolo non serve a giocare.
Serve a contenere.
Serve a proteggere.
Serve a sigillare.

Ma cosa succede quando un oggetto si rompe, viene gettato, o semplicemente dimenticato?

L’Infanzia come Soglia

Ciò che spaventa nei giochi e nei simboli infantili non è il loro contenuto, ma la loro sopravvivenza.
Come fanno a rimanere, identici, nei secoli? Perché certe cantilene non spariscono? Perché i bambini, ancora oggi, tracciano spirali nella polvere o ripetono i gesti delle mani che si intrecciano?

Forse non è solo memoria culturale.
Forse qualcuno li osserva, da dietro il velo.
E li guida.
E li ascolta.

Vuoi scoprirne di più?

Nel mondo dell’Ispettore Blackwood, i segreti più antichi non si leggono in un libro, ma si sussurrano in una strada secondaria, in una cantina dimenticata, in un gioco infantile che non dovresti ripetere.

Ti senti pronto a guardarci dentro?

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