L’Egitto oscuro: simboli, maledizioni e musei

Ci sono culture che affascinano per la loro grandezza, altre per il loro mistero. L’antico Egitto riesce a fare entrambe le cose contemporaneamente: impone rispetto, incanta e inquieta.
Non per le “maledizioni” che il cinema ha trasformato in formula narrativa, ma per il peso simbolico che ogni oggetto, ogni incisione, ogni statua porta con sé. È un mondo che ha costruito il proprio linguaggio sull’oscurità e sulla luce, sulla vita e sulla morte, trasformando il sacro in un sistema complesso di significati che arriva fino a noi con sorprendente nitidezza.

Entrare nella Sala Egizia del British Museum — o in qualsiasi collezione dedicata — significa attraversare una soglia. Non è solo un’esposizione di reperti: è una forma di dialogo con una civiltà che ha reso la morte parte integrante della vita.
Ogni sarcofago, ogni amuleto con gli occhi di Horus, ogni statuetta funeraria non è un semplice oggetto antico. È un frammento di un sistema simbolico costruito per proteggere, per guidare, per minacciare o rassicurare.
E l’effetto, per chi osserva, è immediato: un silenzio che sembra custodire qualcosa di più grande.

Spesso si parla di “maledizione del faraone” come leggenda popolare, ma ciò che davvero colpisce è altro.
Gli antichi egizi non temevano i morti: temevano l’oblio.
Temevano di perdere il nome, il volto, il ricordo.
Per questo ogni tomba è una dichiarazione d’identità, un talismano narrativo contro l’evanescenza.

A livello narrativo, i simboli egizi funzionano perché uniscono due piani:
la concretezza della storia e il magnetismo dell’ignoto.
Un occhio inciso nella pietra non è mai solo un occhio: è un avvertimento, una sorveglianza, un frammento di coscienza trascinato attraverso i secoli.
Un colosso funerario non è una statua: è un guardiano.
E quando lo si osserva da vicino, anche in un museo illuminato a giorno, l’impressione è identica: qualcosa continua a vegliare.

Questo è il potere dell’antico Egitto.
Non è il mostro, non è la maledizione, non è la leggenda.
È la sensazione di essere osservati da un tempo che non ci appartiene.
Un tempo che non abbiamo più gli strumenti per comprendere, ma che continua a parlarci — in silenzio — attraverso pietra, colore e ombra.

Il fascino dell’Egitto oscuro nasce precisamente da qui:
dal suo modo di rendere eterno ciò che altrove sarebbe scomparso.
E questa eternità, quando la si avverte da vicino, fa sempre un po’ paura.


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